Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 13691 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 13691 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 13725-2022 proposto da:
COGNOMENOME COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3620/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 24/11/2021 R.G.N. 2923/2017;
Oggetto
RAPPORTO DI
LAVORO SUBORDINATO FERIE
R.G.N. 13725/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 03/04/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Roma, confermando il provvedimento del giudice di primo grado, ha respinto le domande proposte da NOME COGNOME nei confronti di RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE tese al pagamento del residuo di ferie non godute per gli anni 2014 e 2015.
La Corte territoriale, esclusa la ricorrenza di vizi formali dell’atto di licenziamento intimato alla dirigente il 17.11.2015 (quando, già dal 22.10.2015, perdurava uno stato di restrizione in carcere per i reati avverso i quali stava procedendo la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma), ha ritenuto pacifico il potere della lavoratrice di scegliere il periodo di ferie (considerata la posizione dirigenziale apicale) e ha fornito una interpretazione del divieto di monetizzazione delle ferie non godute così come dettato dall’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 (convertito nella legge n. 135 del 2012) tale da ricomprendere tutte le vicende estintive del rapporto di lavoro alle quali il lavoratore concorre, attivamente mediante compimento di atti (dimissioni) oppure attraverso propri comportamenti incompatibili con la permanenza del rapporto (pensionamento, licenziamento disciplinare, mancato superamento periodo di prova), lettura in sintonia con il parere del Dipartimento della Funzione pubblica (n. 40033/2012) e la pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n. 95 del 2016) nonché compatibile con la normativa e la giurisprudenza comunitaria.
Avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, illustrati da memoria. La società ha resistito con controricorso.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 c.c., 8 del CCNL personale dirigente ANAS del 16.4.2003 e/o art. 7 direttiva 2003/88/Ce, 5 del d.l. n. 95 del 2012 (convertito nella legge n. 135 del 2012), avendo, la Corte territoriale, erroneamente ritenuto -in assenza di allegazioni e accertamenti istruttori – che la dott.ssa COGNOME fosse una dirigente apicale in grado di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro e che ricadesse su di lei l’onere probatorio circa l’imputabilità al datore di lavoro del mancato godimento delle ferie; era, invero, pacifico tra le parti che la dirigente non aveva fruito di 37,15 giorni di ferie (afferenti agli anni 2014 e 2015) e che il datore di lavoro non l’aveva mai invitata a goderne; inoltre, i fogli presenza mensili dimostrano che le ferie della dirigente venivano sempre autorizzate dal suo superiore gerarchico, il Condirettore generale tecnico. Inv ero, la perdita del diritto alle ferie all’atto della cessazione del rapporto si realizza solo allorquando il datore di lavoro abbia dimostrato di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinchè il lavoratore sia stato effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite.
Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, nn. 3 e 5, violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 c.c., 8 del CCNL personale dirigente ANAS del 16.4.2003, 10, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2003, 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 (convertito nella legge n. 135 del 2012), 12 e 14 delle preleggi c.c. anche in relazione agli artt.
3, 36, 117 Cost. nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti: la ricorrente ha ribadito, come nel motivo precedente, l’erroneità della sentenza impugnata circa l’accertamento del potere (della dirigente) di attribuirsi le ferie e il criterio di distribuzione dell’onere probatorio; ha, altresì, ribadito l’erroneità dell’interpretazione del d.l. n. 95 del 2012 e del divieto di monetizzazione delle ferie applicato tout court anche in caso di cessazione del rapporto per licenziamento disciplinare (nel caso di specie preceduto da uno stato di detenzione in carcere), dovendo applicarsi, il suddetto principio, a seconda dei casi concreti e delle peculiarità della fattispecie, e, nella specie, dovendosi tenere conto gli atti o eventi risolutori (come il licenziamento e la detenzione in carcere) che non consentono al lavoratore di organizzarsi e di pianificare per tempo la fruizione delle ferie maturate. Invero, l’ambito di applicazione dell’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, coerente con la sua ratio, concerne solamente situazioni che consentono al lavoratore e al datore di lavoro di organizzare per tempo, prima della cessazione del rapporto, la fruizione delle ferie maturate (e non godute), come dimissioni, risoluzione consensuale, mobilità, pensionamento, mentre un licenziamento immediato per giusta causa (per di più avvenuto nel corso e in costanza di una precedente e continuativa assenza dal lavoro a causa di uno stato di detenzione) non consente la pianificazione delle ferie; insomma, le condizioni di operatività del divieto di monetizzazione, come rese palesi dalla circostanza che la disposizione normativa parla di ‘risoluzione’ del rapporto, debbono essere la concreta possibilità per l’interessato di potere usufruire delle ferie e la colpevole inerzia nel non goderne. Diversamente, l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale viola il principio di irrinunciabiltà delle ferie di cui all’art. 36,
comma 3, Cost. nonché il principio e parametro di ragionevolezza quale corollario del principio di uguaglianza: il ricorrente chiede, quindi, in caso di conferma dell’interpretazione fornita dalla sentenza impugnata, di sollevare questione di pregiudizialità dinanzi alla Corte di Giustizia UE con riguardo all’art. 7, paragrafi 1 e 2, della Direttiva 2003/88/CE e/o di rimettere la questione alla Corte Costituzionale. La Corte territoriale ha omesso di valutare lo stato di detenzione in carcere della dirigente (dal 22.10.2015), la carenza di prove in ordine agli impedimenti alla fruizione delle ferie maturate nel 2014, la mancata comunicazione alla dirigente del diritto a godere delle ferie maturate.
Con il terzo motivo di ricorso si denunzia violazione dell’art. 91 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dovendo, la Corte territoriale, accogliere le domande della dirigenza, con conseguente vittoria di spese.
I primi due motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente perché concernono l’interpretazione dell’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 (e sostanzialmente ribadiscono il secondo motivo di appello), sono fondati per quanto di ragione.
Il giudice di appello ha richiamato a fondamento della decisione l’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui il dirigente che, pur avendo il potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza da parte del datore di lavoro, non lo eserciti e non fruisca del periodo di riposo annuale, non ha diritto alla indennità sostitutiva a meno che non provi di non avere potuto fruire del riposo a causa di necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive (Cass. n. 4920 del 2016; Cass. n. 13953 del 2009; Cass. n. 11786 del 2005; e in motivazione con riferimento alla dirigenza pubblica
Cass. Sez. U. n. 9146 del 2009 e Cass. n. 2000 del 2017; nello stesso senso, Cass. n. 23697 del 2017).
Ai fini della decisione delle questioni sottoposte con i motivi di ricorso, occorre effettuare una sintetica ricognizione degli approdi normativi e giurisprudenziali, nazionali ed europei.
Ebbene, va premesso che la direttiva 93/104/CE, poi confluita nella direttiva 2003/88/CE, all’art. 7, comma 2 prevede che ” Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro “.
Il divieto di monetizzazione, ripreso dal d.lgs. n. 66 del 2003, art. 10, comma 2 che alla direttiva ha dato attuazione, è evidentemente finalizzato a garantire il godimento effettivo delle ferie, che sarebbe vanificato qualora se ne consentisse la sostituzione con un’indennità, la cui erogazione non può essere ritenuta equivalente rispetto alla necessaria tutela della sicurezza e della salute, in quanto non permette al lavoratore di reintegrare le energie psico-fisiche (principio stabilito dalla sentenza n. 95 del 2016 Corte Cost. che ha sottolineato come il divieto di monetizzazione è volto a contrastare gli abusi, senza peraltro arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole).
La giurisprudenza di questa Corte richiamata dalla sentenza impugnata, ha precisato che l’eccezione al divieto di monetizzazione, prevista nella seconda parte delle disposizioni sopra richiamate, opera nei soli limiti delle ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione del rapporto, e non consente la monetizzazione di quelle riferibili agli anni antecedenti, perchè rispetto a queste il datore di lavoro doveva assicurare l’effettiva fruizione. Con riguardo agli anni antecedenti alla risoluzione del rapporto di lavoro, il lavoratore non rimane sprovvisto di tutela in quanto
potrà, in ogni caso, dimostrare l’inadempimento del datore di lavoro (che doveva assicurare la fruizione del periodo di ferie): l’imputabilità, della mancata fruizione delle ferie, non si verifica ove il dirigente, vista la posizione apicale rivestita, poteva autodeterminarsi detto periodo (perché in tal caso, il mancato godimento delle ferie è conseguenza di un’autonoma scelta del dirigente che esclude la configurabilità di un inadempimento colpevole del datore di lavoro, salvo che il dirigente dimostri la ricorrenza di imprevedibili e indifferibili esigenze aziendali). Questo orientamento ha, anche, affermato che “ex art. 2697 cpv. c.c. il potere – in capo al dirigente – di scegliere da sé stesso tempi e modi di godimento delle ferie costituisce eccezione da sollevarsi e provarsi a cura del datore di lavoro, mentre l’esistenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive, ostative alla fruizione di tali ferie, integra controeccezione da proporsi e dimostrarsi a cura del dirigente.” (Cass. n. 4920 del 2016); accertamento di merito non censurabile in sede di legittimità, se non nei ristretti limiti concessi dalla nuova formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., che consente di denunciare solo l’omesso esame del “fatto decisivo” (da non confondersi con la mancata o l’errata valutazione del mezzo istruttorio destinato a provarlo).
10. L’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 (convertito dalla legge n. 195 del 2012) avente rubrica ‘Riduzione di spese delle pubbliche amministrazioni’, recita: ‘ 8. Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le
società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile. ‘
11. Con particolare riguardo all’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, la sentenza della Corte Costituzionale (n. 95 del 2016 già citata) ha respinto la questione di legittimità costituzionale: il giudice delle leggi ha sottolineato che la disciplina non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma terzo), dalle fonti internazionali (Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa esecutiva con legge 10 aprile 1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007; direttiva 23 novembre 1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che interviene a codificare la materia); ha rilevato che, correttamente, la prassi amministrativa e la magistratura contabile convergono nell’escludere dall’àmbito applicativo del divieto di monetizzazione le vicende estintive del rapporto di lavoro che
non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro; ha precisato che il diritto inderogabile alle ferie sarebbe violato se la cessazione dal servizio vanificasse, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie compromesso da cause non imputabili al lavoratore (come la malattia, ipotesi esaminata dal giudice delle leggi).
12. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha rafforzato i connotati del diritto fondamentale del lavoratore alle ferie e ne ha ribadito la natura inderogabile, in quanto finalizzato a «una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute»; ha sottolineato che il divieto di monetizzazione non consente la perdita automatica del diritto alle ferie retribuite e dell’indennità sostitutiva, senza la previa verifica che il lavoratore, mediante una informazione adeguata, sia stato posto dal datore di lavoro in condizione di esercitare effettivamente il proprio diritto alle ferie prima della cessazione del rapporto di lavoro (CCUE 6.11.2018, cause riunite C-569/16 e C-570/16, e cause C-619/16 e C684/16; sull’inclusione, nel diritto alle ferie, del diritto a ottenere un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute al momento della cessazione del rapporto di lavoro, cfr. CGUE 25.11.2021, C-233/20); anche recentemente la Corte (CGUE 18.1.2024, n.218, C-218/22), proprio occupandosi dell’articolo 5 del d.l. n. 95 del 2012 e dell’ipotesi di un dipendente pubblico che aveva rassegnato le dimissioni e non aveva dimostrato l’impedimento organizzativo a fruire delle ferie maturate, ha ribadito che l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale recante modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali retribuite espressamente accordato da tale direttiva, che comprenda finanche la perdita
del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento o di un periodo di riporto, purché, tuttavia, il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare questo diritto che tale direttiva gli conferisce. Se, dunque, il lavoratore, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuto dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stato posto in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle stesse, l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta non osta alla perdita di tale diritto né, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla correlata mancanza di un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute; il datore di lavoro è tenuto ad assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo, e nel contempo informandolo, in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e la distensione cui esse sono volte a contribuire, del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato, o non potranno più essere sostituite da un’indennità finanziaria. L’onere della prova incombe al datore di lavoro (CGUE 18.1.2024 citata).
13. La giurisprudenza di questa Corte, sin dal 2020, ha mutato parzialmente orientamento (confrontandosi con la giurisprudenza espressa dal giudice comunitario) affermando che le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale ed irrinunciabile del lavoratore (a cui è intrinsecamente collegato il diritto alla indennità finanziaria sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro) e, correlativamente, un obbligo del datore di lavoro;
grava su quest’ultimo l’onere di provare di avere adempiuto al proprio obbligo di concedere le ferie medesime, mentre la perdita del diritto alle ferie (ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro) può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie – se necessario formalmente – e di averlo nel contempo avvisato – in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il recupero delle energie cui esse sono volte a contribuire; in caso di mancata fruizione, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato (Cass. n. 13613 del 2020; Cass. n. 6262 del 2022; Cass. n. 17643 del 2023; Cass. n. 18140 del 2022; Cass. n. 21780 del 2022; Cass. n. 29844 del 2022; Cass. n. 17643 del 2023;; Cass. n. 9982 del 2024; Cass. n. 9993 del 2024; Cass. n. 14083 del 2024; Cass. n. 27496 del 2024), secondo un meccanismo che questa Corte ha ricondotto all’istituto della mora credendi del lavoratore (Cass. Sez. L – Sentenza n. 2496 del 01/02/2018). I suddetti principi sono stati affermati per tutti i dipendenti, compresi i dirigenti.
Si sono, dunque, chiariti i seguenti principi di diritto che debbono presiedere l’interpretazione del diritto interno, conformemente al diritto dell’Unione europea:
le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale ed irrinunziabile del lavoratore (anche del dirigente) e correlativamente un obbligo del datore di lavoro; il diritto alla indennità finanziaria sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è intrinsecamente collegato alle ferie annuali retribuite;
b) è il datore di lavoro il soggetto tenuto a provare di avere adempiuto al suo obbligo di concedere le ferie annuali retribuite; c) la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova: di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie, se necessario (ossia in considerazione della struttura aziendale, anche) formalmente, e ciò in esercizio dei propri doveri di vigilanza ed indirizzo sul punto; di averlo nel contempo avvisato – in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad assicurare il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire – del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
15. Nel medesimo senso si è orientata la giurisprudenza amministrativa, secondo cui il diritto alla monetizzazione delle ferie viene meno quando queste non siano state godute per scelta volontaria del dipendente (Cons. Stato. n. 597 del 2023). 16. Va, in aggiunta, precisato che il tenore testuale dell’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 depone per l’inclusione di ogni causa di cessazione del rapporto di lavoro, compresi i licenziamenti. L’applicazione dei canoni interpretativi dettati dall’ ordinamento (art. 12 preleggi al c.c.) consente agevolmente di ricavare il principio, di applicazione generale, del divieto di monetizzazione ‘ in ogni caso ‘ e la precisazione che segue ‘ anche in caso di… ‘ si aggiunge al precetto, di carattere per l’appun to – generale, del primo periodo, al fine di specificare che il principio si applica anche nelle ipotesi di vicende estintive alle quali il dipendente ha concorso attivamente (cfr. in tal senso, parere del Dipartimento della Funzione pubblica, n. 40033 del 2012). Tale esegesi è rispettosa della ratio della norma, tesa a
contenere la spese pubblica e l’abusivo ricorso alla richiesta dell’indennità sostitutiva delle ferie. L’intervento del giudice delle leggi ha consentito di correggere l’interpretazione nel senso di escludere le ipotesi in cui il godimento delle ferie sia stato impedito da ragioni indipendenti dalla volontà del lavoratore (come la malattia).
In sintesi, gli orientamenti giurisprudenziali, nazionali e comunitari (come ampiamente esposti) impongono di consentire l’operatività del divieto (di monetizzazione) ove il lavoratore (anche dirigente) abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare il diritto fondamentale delle ferie e vi abbia consapevolmente rinunciato. La Corte territoriale -addossando al dirigente l’onere della prova di non avere potuto fruire del riposo a causa di necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive -non si è conformata a questa interpretazione e ai più recenti orientamenti elaborati da questa Corte.
Il terzo motivo di ricorso, concernente il riparto delle spese di lite, è assorbito.
In conclusione, i primi due motivi di ricorso vanno accolti per quanto di ragione; la sentenza impugnata (che ha richiamato l’orientamento di questa Corte precedente a quello successivamente, e in via consolidata, elaborato in quanto maggiormente consa pevole dell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria) va cassata e rinviata alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, affinchè accerti -con onere della prova a carico del datore di lavoro – se la lavoratrice, deliberatamente e con piena cognizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate, si è astenuta dal fruire delle ferie annuali retribuite dopo essere stata posta in condizione di esercitare in modo effettivo il suo diritto alle stesse. La Corte deciderà, altresì, in
ordine alle spese di lite, applicando il seguente principio di diritto:
P.Q.M.
La Corte accoglie, per quanto di ragione, i primi due motivi di ricorso, assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, la quale