Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 28041 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 28041 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1870/2021 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in RAGIONE_SOCIALE, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato AVV_NOTAIOCOGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza DELLA CORTE D’APPELLO di RAGIONE_SOCIALE n. 2649/2020, pubblicata il 5/06/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8/10/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Civitavecchia rigettava l’opposizione proposta da NOME COGNOME, in qualità di rappresentante legale della società RAGIONE_SOCIALE, avverso l’ordinanza ingiunzione numero 196.100 del 2015 emessa dalla RAGIONE_SOCIALE – sulla base di un verbale di accertamento elevato il 14 settembre 2010 e notificato l’11 settembre 2015 – e con la quale le veniva irrogata una sanzione per un importo complessivo di euro 22.500,00.
I fatti oggetto di contestazione erano pacifici quanto alla provenienza dei prodotti e alla circostanza che gli stessi fossero destinati alla società opponente e che al momento del loro ingresso in Italia erano privi della necessaria indicazione circa la loro provenienza.
NOME COGNOME, in qualità di rappresentante legale della società RAGIONE_SOCIALE, proponeva appello avverso la suddetta sentenza.
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE resisteva al gravame.
La Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE accoglieva -con la sentenza richiamata in epigrafe – l’appello e, in riforma della pronuncia impugnata, annullava l’ordinanza ingiunzione.
Per quel che ancora rileva la Corte d’Appello riteneva fondato ed assorbente il secondo motivo riguardante l’elemento soggettivo dell’illecito.
L’opponente, infatti, aveva provato la circostanza dirimente di aver richiesto per iscritto nell’ordine al suo fornitore di apporre
Ric. 2021 n. 1870 sez. S2 – ud. 08/10/2025
l’etichettatura RAGIONE_SOCIALE in China e che, sulla base delle circostanze rappresentate, non era nelle condizioni obiettive né di essere presente in loco al momento della spedizione per verificare il corretto adempimento da parte del fornitore né di visionare la merce al momento dell’arrivo in Italia, tramite spedizioniere, né di aprire i colli prima che gli stessi fossero sdoganati. Pertanto, poteva affermarsi che l’appellante non aveva motivo di nutrire alcun dubbio sulla corretta etichettatura della merce ricevuta tramite la spedizione, realizzata peraltro da uno spedizioniere autorizzato previa sdoganamento e consegna al destinatario.
La merce, oltretutto, proveniva da un fornitore con il quale sussisteva un rapporto commerciale costante e, dunque, tenuto conto del comportamento complessivo dell’opponente, sussistevano i presupposti per ritenere mancante l’elemento soggettivo della colpa o per ricondurre la violazione nell’ambito del caso fortuito, imprevisto ed imprevedibile, essendo ravvisabile un errore del fornitore e avendo l’opponente agito in buona fede senza alcuna colpa o dolo nella commissione della violazione.
RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza di appello, sulla base di un motivo.
NOME COGNOME, in qualità di rappresentante legale della società RAGIONE_SOCIALE, ha resistito con controricorso illustrato da memoria depositata in prossimità dell’udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
In via preliminare va respinta l’eccezione pregiudiziale della controricorrente di inammissibilità del ricorso per tardività della sua proposizione, formulata sul presupposto che -non dovendosi
applicare la disciplina sulla sospensione feriale dei termini processuali al giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione in questione, siccome soggetto alle forme del rito del lavoro -il ricorso è stato proposto oltre il termine semestrale di cui all’ art. 327, co. 1, c.p.c.
Occorre, infatti, rilevare l’erroneità del presupposto appena riportato, poiché nel regime introdotto dall’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, la controversia di cui trattasi non rientra tra quelle (indicate dagli artt. 409 e 442 c.p.c.) per le quali l’art. 3 della l. n. 742 del 1969 dispone l’inapplicabilità della sospensione dei termini nel periodo feriale, assumendo (cfr. Cass. n. 8673/2018 e Cass. SU n. 2145/2021) rilievo a tali fini non il rito da cui la causa è disciplinata ma la sua natura, costituita, nella specie, in via diretta dall’accertamento dall’esistenza, o meno, delle condizioni per l’esercizio della potestà sanzionatoria (relativamente, nel caso di specie, ad illecito attinente alla materia doganale).
Il motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 3 della l. n. 689 del 1981 – anche alla luce della violazione, disapplicazione e falsa applicazione dell’articolo 58 del d.P.R. n. 43 del 1973 e della previsione della circolare del MISE n. 124.898 del 2009 riguardo alla prevista attestazione – nonché la falsa applicazione delle norme e dei principi in tema di esimenti della buona fede -implicitamente della forza maggiore – e del caso fortuito (anche per violazione dei princi pi desunti dall’art. 1228 c.c.).
La ricorrente evidenzia che la società RAGIONE_SOCIALE era stata sanzionata in relazione alla violazione prevista dall’articolo 4, comma 49 bis, della l. n. 350/2003 per non aver accompagnato
l’utilizzo del marchio con le indicazioni precise ed evidenti sull’origine provenienza estera della merce e, comunque, con elementi identificativi sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento con l’effetto di indurre il consumatore a ritenere che il prodotto fosse di origine italiana.
La RAGIONE_SOCIALE sostiene che la Corte d’Appello avrebbe operato una commistione indebita tra ipotesi di mancanza di colpa e di caso fortuito e, in ogni caso, riguardo alla buona fede, avrebbe applicato erroneamente i principi che regolano la fattispecie non ricorrendo nella specie i presupposti per escludere la responsabilità. Infatti, la società non aveva fatto tutto il possibile per conformarsi alla legge in modo tale che nessun rimprovero le potesse essere rivolto. Invero, sarebbe stato possibile sia verificare la merce prima della partenza dalla Cina sia al suo arrivo a Fiumicino antecedentemente allo sdoganamento, in considerazione anche della rilevanza dell’ordine.
In particolare, si deduce che la merce poteva essere visionata prima RAGIONE_SOCIALE sdoganamento da parte RAGIONE_SOCIALE spedizioniere che operava per conto della società. Sotto tale ultimo profilo, la ricorrente richiama l’articolo 58 del d.P.R. n. 43 del 1973 e pone in risalto che su richiesta del proprietario prima della presentazione della dichiarazione la dogana può permettere che le merci siano scaricate e verificate alla presenza di un funzionario per verificarne la qualità e la quantità. Tale prassi è molto diffusa al fine di evitare dichiarazioni non veritiere o contraddette dalle caratteristiche dei prodotti.
2.1. Il motivo è infondato.
Per una chiara esposizione delle ragioni del rigetto del motivo in esame è opportuno partire dal dato normativo.
L’illecito amministrativo previsto dall’art. 4, comma 49-bis, della l. n. 350 del 2003 riguarda l’illecito uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, qualora lo stesso avvenga con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana per l’assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione, a trarre in inganno anche un consumatore esperto sull’effettiva origine del prodotto.
Il comma 49 bis dell’art. 4 sopra citato è stato aggiunto dall’art. 16, comma 6, della legge 5/09/2009, n. 135 recante ‘ RAGIONE_SOCIALE in RAGIONE_SOCIALE e prodotti interamente italiani’ che ha, contestualmente, abrogato l’articolo 17, comma 4, della legge 23 luglio 2009, n. 99, che aveva modificato l’art. 49 della l. n. 350 del 2003 aggiungendo la medesima fattispecie a quelle punite ai sensi dell’art. 517 cod. pen. La norma sanzionatoria, dunque, ha immediatamente depenalizzato la medesima condotta che pochi mesi prima era stata ricondotta alla fattispecie di cui all’art. 517 cod. pen.
L’art. 17, comma 4, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante disposizioni per lo RAGIONE_SOCIALE e l’RAGIONE_SOCIALE delle imprese nonché in materia di energia, infatti, nel modificare l ‘articolo 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, aveva introdotto una norma dedicata specificatamente alla tutela del ‘ RAGIONE_SOCIALE ‘. Detta norma aveva esteso la tutela penale anche alle ipotesi di utilizzo ‘ingannevole’ del marchio senza specificazioni sulla provenienza della merce aggiungendo tali condotte a quelle già
ricondotte all’art. 517 cod. pen. dal medesimo art. 49 nella precedente formulazione.
In sostanza, si voleva punire l’uso di marchi di aziende italiane che potevano indurre in inganno il consumatore su prodotti o merci non originari dell’Italia senza l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del Paese o del luogo di fabbricazione o di produzione.
A seguito della immediata depenalizzazione di tale fattispecie la condotta di utilizzo del marchio con modalità tali da rendere equivoca l’origine dei prodotti qualora, a causa di indicazioni di provenienza insufficienti o imprecise e non necessariamente ingannevoli, il consumatore possa essere indotto in errore sulla effettiva origine dei prodotti, oggi integra l’illecito amministrativo previsto dal citato art. 4, comma 49-bis, della l. n. 350 del 2003.
A tal proposito la giurisprudenza penale di questa Corte ha affermato il seguente principio di diritto: In tema di tutela penale dei prodotti dell’RAGIONE_SOCIALE e del RAGIONE_SOCIALE, integra l’illecito amministrativo previsto dall’art. 4, comma 49-bis, della legge n. 350 del 2003 – e non il reato di cui all’art. 517 cod. pen. l’importazione dall’estero di prodotti recanti un’etichetta raffigurante un marchio (…) idoneo, in assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione, a trarre in inganno anche un consumatore esperto sull’effettiva origine del prodotto (Cass. pen., Sez. III, Sentenza, 06/11/2014, n. 52029) .
Così ricostruito il quadro normativo deve osservarsi come la ricorrente, con la censura in esame, non tenga conto delle circostanze del caso concreto e della possibilità riconosciuta dalla
norma sanzionatoria al titolare o licenziatario del marchio di accompagnare la merce con un’attestazione circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto.
La sentenza, infatti, ha correttamente ritenuto sotto il profilo soggettivo la mancanza di colpa, in quanto nella specie la società importatrice aveva fatto un’ordinazione specificando che la merce doveva recare l’etichetta made in china e, di conseguenza, non aveva motivo di attivarsi al momento RAGIONE_SOCIALE sdoganamento della merce per formulare l’attestazione di cui sopra, anche tenuto conto della ulteriore possibilità prevista dalla legge di poter accompagnare comunque la merce con un’attestazione circa le informazioni che in fase di commercializzazione avrebbero potuto rendere identificabile l’effettiva origine estera del prodotto. Peraltro, in disparte il fatto che non è condivisibile l’interpretazione secondo cui tale attestazione poteva e doveva effettuarsi al momento RAGIONE_SOCIALE sdoganamento della merce, nel caso di specie deve comunque ritenersi corretta la sentenza nella parte in cui ha ritenuto giustificato l’affidamento della società importatrice circa la possibilità di identificare la provenienza del prodotto.
La stessa circolare del 9 novembre 2009, n. 124898 esplicativa sull’art. 4, comma 49 -bis, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, come introdotto dall’art. 16 del decreto legge 25 settembre 2009, n. 135 emanata dal RAGIONE_SOCIALE precisa che : la nuova disposizione, eliminando il riferimento al Paese o al luogo di fabbricazione o di produzione, di cui all’abrogato art. 17, comma 4, legge n. 99/2009 ed avendo di mira una corretta informazione
al consumatore, consente di accompagnare il prodotto sul quale il marchio e apposto da una appendice informativa, escludendo pertanto la fattispecie della fallace indicazione. Tale appendice informativa (che, oltre ad essere direttamente applicata sul prodotto o sulla confezione, nei casi concreti può assumere anche le forme di cartellino o targhetta applicata allo stesso) può concretizzarsi, a titolo meramente esemplificativo, in una delle seguenti diciture (…..).
Rimane, quindi, impregiudicata la facoltà per il titolare del marchio o il licenziatario di provvedere ad indicazioni più puntuali circa l’origine o la provenienza del prodotto, sia esplicitando anche il Paese di produzione o fabbricazione sia provvedendo alle indicazioni suddette direttamente sul prodotto o la confezione, laddove sia possibile. Nei casi in cui tali attività non fossero materialmente possibili anteriormente alla fase della commercializzazione (anche per ragioni dimensionali, produttive o distributive) il titolare o il licenziatario del marchio può comunque far ricorso ad una specifica attestazione (nella fase di transito presso gli uffici doganali) il cui moRAGIONE_SOCIALE è allegato alla presente circolare, con cui si impegna a rendere, in fase di commercializzazione, le informazioni ai consumatori sull’effettiva origine estera del prodotto.
D’altra parte, deve osservarsi come solo la diversa fattispecie prevista dall’art. 49 della legge 24 dicembre 2003, n. 350 prevede che l’illecito è commesso sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio.
Come si è detto, nel caso in esame è contestata la diversa ipotesi di illecito amministrativo, che riguarda non la falsificazione (di rilievo penale) ma la possibile induzione in errore del consumatore circa la provenienza della merce quando l’utilizzo del marchio è fatto con modalità tali da indurre appunto il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana anche per l’ assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione.
Tale dichiarazione nella specie, dunque, doveva ritenersi ancora possibile non avendo l’importatore ancora contezza della mancata ottemperanza da parte della ditta fornitrice cinese alla richiesta di apporre l’etichetta made in china .
Non è fondato neanche il richiamo all’art. 58 del d.P.R. n.43 del 1973. Tale norma prevede che s u richiesta del proprietario e prima della presentazione della dichiarazione, la dogana può permettere che le merci siano scaricate e ne siano da questi verificate, alla presenza di un suo funzionario, la qualità e la quantità.
Tale facoltà è finalizzata alla dichiarazione doganale e, infatti, il secondo comma prevede che la dichiarazione doganale è immutabile, tranne che per le ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 58 d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43 (nel testo vigente prima della riforma apportante riordinamento degli istituti doganali e revisione delle procedure di accertamento e controllo in attuazione delle direttive C.E.E.) e nei limiti previsti da tale disposizione normativa.
Non risulta e non è contestato, infatti, che fosse stata fatta una dichiarazione falsa circa la provenienza della merce in
Ric. 2021 n. 1870 sez. S2 – ud. 08/10/2025
violazione dell’art. 303 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, che punisce “le dichiarazioni relative alla qualità, alla quantità ed al valore delle merci destinate alla importazione definitiva” non corrispondenti all’accertamento degli Uffici finanziari.
Questa Corte, infatti, nell’interpretazione della norma sopra indicata ha ritenuto che nel suo ambito applicativo ricadono anche le dichiarazioni sull’origine (o la provenienza) della merce stessa, in quanto sintomatiche della specificità del prodotto, poiché nel concetto di “qualità” di una merce rientra qualsiasi caratteristica, proprietà o condizione che serva a determinarne la natura ed a distinguerla da altre simili (Cass. civ. Sez. 5, 14/02/2014, n. 3467 e Cass. civ. Sez. 5, 20/12/2018, n. 32956).
In altri termini, non risulta contestata la falsa o difforme dichiarazione sull’origine, la provenienza e la destinazione delle merci e, dunque, è erroneo il richiamo all’art. 58 del d.P.R. n. 43 del 1973 con riferimento alla diversa condotta di cui all’ar t. 49 bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350.
In definitiva, alla stregua delle argomentazioni complessivamente esposte, il ricorso va rigettato.
In virtù della complessità della materia, dell’incertezza interpretativa derivante dal susseguirsi di modifiche delle norme sanzionatorie e, quindi, della obiettiva controvertibilità delle questioni trattate, si ritiene che ricorrano i presupposti per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio, anche alla luce dei principi affermati dalla sentenza n. 77 del 2018 della Corte Costituzionale.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis RAGIONE_SOCIALE stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis RAGIONE_SOCIALE stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in RAGIONE_SOCIALE, nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile in data 8 ottobre 2025.
IL PRESIDENTE NOME COGNOME
Ric. 2021 n. 1870 sez. S2 – ud. 08/10/2025