Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 3102 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3   Num. 3102  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 02/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22415/2021 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE,  in  persona  del  legale  rappresentante, NOME  COGNOME,  e  RAGIONE_SOCIALE,  in  persona  del  legale rappresentante, NOME COGNOME, rappresentate e difese dagli avvocati  NOME  COGNOME  (CODICE_FISCALE)  e  NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), pec:
EMAIL;
EMAIL;
contro
SCIBILIA NOME‘;
-intimato- avverso  la  SENTENZA  della  CORTE  D’APPELLO  di  FIRENZE  n. 119/2021 depositata il 22/01/2021.
-ricorrenti-
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 08/01/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato in fatto che :
NOME COGNOME conveniva in giudizio la RAGIONE_SOCIALE, assumendosi creditore nei suoi confronti di euro 2.548.191,35, per far dichiarare inefficace, ex art. 2901 cod.civ., l’atto di conferimento  immobiliare  del  16  gennaio  1989  a  favore  della costituenda società RAGIONE_SOCIALE;
per quanto ancora di rilievo in questa sede, ordinata l’integrazione del contraddittorio nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, con  ordinanza  del  19  giugno  2014,  il Tribunale assegnava  all’attore  termine  sino  al  30  luglio  2014  e  rinviava  la causa  per  la  prima  comparizione  della  RAGIONE_SOCIALE  all’udienza  del  23 dicembre 2014;
la prima notificazione tramite posta del 4 luglio 2014 non andava a buon fine in quanto il destinatario risultava irreperibile, nonostante  la  notifica  fosse  stata  tentata  presso  la  sede  della società risultante dall’atto costitutivo;
successivamente,  in  data  25  novembre  2014,  veniva  registra  la società  RAGIONE_SOCIALE,  costituita  in  data  16 gennaio 2009; detta registrazione si aggiungeva a quella di un’altra società omonima costituita in data 1 agosto 2013, avente la stessa sede,  lo  stesso  rappresentante,  ma  altra  partita  IVA;  l’attore all’udienza del 23 gennaio 2014 otteneva l’autorizzazione a rinnovare la notifica a tale società;
all’udienza del 12 maggio 2015, il Tribunale, riteneva regolare la notificazione a favore della società RAGIONE_SOCIALE, ne dichiarava la contumacia, e, con la sentenza n. 773/2015, accoglieva la domanda attorea;
la  Corte  d’Appello  di  Firenze  veniva  investita  del  gravame  dalla società  RAGIONE_SOCIALE,  già  RAGIONE_SOCIALE,  che,  tra
l’altro, lamentava l’erroneo rigetto dell’eccezione di estinzione del giudizio per inattività delle parti ex art. 307 cod.proc.civ., in conseguenza della mancata integrazione del contraddittorio nel termine perentorio di cui all’art. 102 cod.proc.civ.; nel giudizio si costituiva la società RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE, rimasta contumace nel giudizio di prime cure, la quale eccepiva la estinzione del giudizio, ex art. 307, 3° comma, cod.proc.civ., per la mancata applicazione del principio di diritto enunciato da Cass., Sez. Un., nn. 14594/2016 e 17352/2009; per la mancata ripresa del processo notificatorio da parte dell’attore, che aveva atteso l’udienza del 23 dicembre 2014 per essere autorizzato a rinnovare la notificazione;
la  RAGIONE_SOCIALE  RAGIONE_SOCIALE,  già  RAGIONE_SOCIALE  di  COGNOME  NOME,  proponeva appello  incidentale  sulla  medesima  questione,  anche  se  per  una ragione diversa;
la  Corte  d’appello  con  la  sentenza  n.  119/2021,  resa  pubblica  in data  22/01/2021,  ha  dichiarato  inammissibile  ed  infondata  la questione di estinzione del giudizio, sollevata dalle società appellanti per non aver ripreso né perfezionato la notifica dell’atto di  chiamata in causa dopo l’esito negativo della notifica del luglio 2014;
le  società  RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE ricorrono per la cassazione di detta sentenza, formulando cinque motivi;
nessuna attività difensiva risulta svolta da NOME  COGNOME, rimasto intimato;
la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.;
il Pubblico Ministero non ha formulato conclusioni.
Considerato in diritto che :
1) con il primo motivo è denunciata la violazione dell’art. 307, 3° e 4° comma, cod.proc.civ., dell’art. 345, 2° comma, cod.proc.civ., ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ.;
la  Corte  d’appello  avrebbe  errato  nel  dichiarare  inammissibile l’eccezione proposta dalla società RAGIONE_SOCIALE relativa all’estinzione del giudizio per il fatto dell’inerzia serbata dalla parte notificante, ovvero dall’attore, rispetto all’ordinanza di reintegrazione del contraddittorio, poi revocata;
in particolare, attinta da censura è la statuizione con cui il giudice a quo ha sostenuto che la parte contumace in primo grado non può proporre eccezioni che avrebbe dovuto e potuto proporre in primo grado  (p.  15);  la  Corte  non  avrebbe  tenuto  conto  che  detta eccezione,  ai sensi dell’art.  307,  4°  comma,  cod.proc.civ.,  è rilevabile d’ufficio e che può essere proposta in appello per la prima volta,  non  rientrando  tra  i nova vietati ex art.  345,  2°  comma, cod.proc.civ.;
peraltro, trattandosi di una questione sollevata per la prima volta in appello dalla appellante contumace in primo grado non avrebbe dovuto  essere  proposta  tramite  appello  incidentale  e  il  giudice d’appello avrebbe dovuto limitarsi a rilevare che l’appellante si era limitata  a  proporre  un’eccezione  rilevabile  d’ufficio  e  non  avrebbe dovuto dichiarare l’appello incidentale inammissibile per tardività;
le doglianze sono infondate;
è vero, infatti, che l’eccezione di estinzione del processo, per una delle cause indicate dall’art. 307, 3° comma cod.proc.civ., può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche in fase di impugnazione, a seguito della modifica dell’ultimo comma dell’art. 307 cod.proc.civ., perciò l’istanza di parte non è necessaria e ove ricorra, come in questo caso, deve essere considerata una sollecitazione all’esercizio del potere officioso da parte del giudice, alla quale non si attagliano le preclusioni processuali (cfr. Cass. 26/09/2019, n. 23989);
vero è , però, che sulla questione della regolare instaurazione del contraddittorio era stata svolta dall’appellante contumace in primo grado una  marcata  attività  di  introduzione  di  circostanze  di  fatto
nuove nel processo di appello; il che basta ad evidenziare l’esattezza della valutazione di novità formulata dalla Corte territoriale, giacché, se è vero che in sede di appello non è vietata la proposizione di eccezioni in senso proprio e lo svolgimento di argomentazioni in fatto nuove, tali attività, tuttavia: i) quanto alle prime debbono concretarsi solo nella rilevazione (possibile anche da parte del giudice, oltre che della parte) dell’efficacia giuridica del fatto integratore dell’eccezione di quanto già presente in primo grado e introdottovi nel rispetto delle preclusioni all’onere di allegazione dei fatti, che nella specie, essendosi il processo sommario evoluto in ordinario era conchiusa nei termini ultimativi dell’art. 183 cod.proc.civ. (a meno che il fatto emerga dall’istruzione probatoria), restando escluso che la proponibilità di eccezioni in senso lato in appello implichi anche l’introduzione, cioè l’allegazione ex novo del fatto integratore dell’eccezione, essendo possibile solo la «rilevazione» dell’efficacia del fatto purché già introdotto in primo grado (naturalmente con l’eccezione che si tratti di fatto sopravvenuto nel giudizio di appello), tanto significando la ‘proponibilità’ cui allude l’art. 345 cod.proc.civ.; ii ) quanto alle seconde incontrano anch’esse il limite della necessità che le circostanze di fatto risultino già introdotte sempre nel limite dell’art. 183 cod.proc.civ. o eventualmente dell’attività istruttoria in base al principio di acquisizione processuale; tanto rende infondata la seconda censura, mossa alla sentenza impugnata, atteso che quanto osservato riguarda tanto la posizione di chi sia rimasto contumace in primo grado quanto quella di chi si sia costituito: non possono essere allegati fatti che non si sono allegati e che erano deducibili in primo grado (Cass. 25/09/2023, n.27254);
essendo stata ritenuta inammissibile l’eccezione formulata dall’appellante  sulla  scorta  di  due rationes  decidendi ,  l’eventuale cassazione  di  una  di  esse  non  gioverebbe  alla  ricorrente,  in applicazione del principio per il quale l’impugnazione di  una
decisione basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il relativo dictum, per poter essere ravvisata meritevole di ingresso, deve risultare articolata in uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, tutti gli ordini di ragioni cennati, posto che la mancata critica di uno di questi o la relativa attitudine a resistere agli appunti mossigli comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbero il gravame dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (Cass. 19/05/2021, n. 13595);
 con  il  secondo  motivo  le  ricorrenti  censurano  la  sentenza impugnata per violazione dell’ art. 307, 3° e 4° comma, cod.proc.civ., dell’art.  345,  2°  comma,  cod.proc.civ.,  ai  sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ.;
avendo  la  società  RAGIONE_SOCIALE  sollevato,  con  la  comparsa conclusionale,  la  stessa  eccezione  proposta  dalla  RAGIONE_SOCIALE, contumace in primo grado, il giudice a quo avrebbe dovuto non già sostenere  che  all’appellante  era  precluso  proporre  e  sostenere motivi di impugnazione diversi e ulteriori rispetto a quelli contenuti nell’atto  di  appello,  ma  rilevare  che  si  trattava  di  una  eccezione rilevabile d’ufficio e proponibile anche per la prima volta in appello;
 con  il  terzo  motivo  è  dedotta  la  violazione  dell’  art.  307,  3° comma, cod.proc.civ., degli artt. 102 e 145 cod.proc.civ., ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ.,
dopo aver dichiarato inammissibile l’eccezione, la Corte d’Appello l’ha rigettata nel merito, ritenendo che, essendo la società RAGIONE_SOCIALE irregolare, non essendo registrata nel registro delle imprese,  non  avrebbe  potuto  l’attore  attivarsi  con  immediatezza per riprendere il processo notificatorio se non chiedendo al giudice,
alla successiva udienza del 23 dicembre 2014, di poter rinnovare la notifica;  peraltro,  risultava  costituita,  successivamente  alla  data dell’ordinanza di integrazione del contraddittorio, ma già iscritta nel registro delle imprese, un’altra società omonima che aveva indotto in errore il notificante;
la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto che l’ordinanza del 19 giugno 2014 aveva assegnato per l’integrazione del contraddittorio  il  termine  del  30  luglio  2014,  e  che  l’attore  non aveva  provveduto  a  riprendere  il  procedimento  notificatorio  non andato  a  buon  fine  nel  luglio  del  2014  per  quasi  cinque  mesi  e quindi superando il termine di cui all’art. 325 cod.proc.civ., pari a 30 giorni;
in precedenza, aveva effettuato – in data 19 novembre 2014 – la notifica a favore di NOME COGNOME quale legale rappresentante della nuova RAGIONE_SOCIALE, costituita con altro contratto sociale e identificata da diverso numero di partita Iva;
la Corte territoriale avrebbe erroneamente dato rilievo alla circostanza  che  la  società  RAGIONE_SOCIALE  non  fosse  ancora  iscritta  nel registro  delle  imprese,  stante  che  l’atto  di  cui  si  chiedeva  la declaratoria di inefficacia era quello, risultante dalla scrittura privata del 16 gennaio 2009, tra la società RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME;  quindi,  l’atto  avrebbe  potuto  essere  notificato  a  NOME COGNOME, ai sensi dell’art. 145, 1° comma, cod.proc.civ.;
il  fatto  che  la  prima  notificazione  non  fosse  andata  a  buon  fine non impediva al notificante di tentare la nuova notifica tempestivamente  nei  confronti  di  NOME  COGNOME:  notifica  che  era stata effettuata solo il 19 novembre 2014 nei confronti di NOME COGNOME, quale rappresentante legale di un’altra società;
né il notificante aveva verificato tramite una visura camerale che la  società  omonima  era  diversa  da  quella  destinataria  dell’atto notificando;
con il quarto motivo le ricorrenti assumono la violazione degli artt. 153 e 310 cod.proc.civ., ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4 cod.proc.civ.;
la  Corte  d’appello  avrebbe  erroneamente  ritenuto  legittima  la rimessione  in  termini  chiesta  da  controparte,  nonostante  non ricorressero i presupposti per disporre di cui all’art. 153 cod.proc.civ.,  mentre avrebbe dovuto dichiarare estinto il giudizio dal 30 luglio 2014;
i motivi dal secondo  al quarto attengono, sia pure da prospettive parzialmente  differenti, al rigetto dell’eccezione di estinzione del giudizio per la mancata tempestiva riattivazione del processo notificatorio;
la Corte territoriale ha dato ampiamente atto delle ragioni per cui ha ritenuto  infondata  l’eccezione  di  estinzione  del  giudizio ex art. 307 cod.proc.civ.:
la prima notifica a NOME COGNOME, rappresentante legale della società  RAGIONE_SOCIALE,  era  avvenuto  presso  la  sua  residenza  il  20  luglio 2013;  di  talché -sostiene  la  Corte  territoriale -all’attore  non avrebbe  dovuto  neppure  essere  ordinata  la  rinnovazione  della notifica dell’atto di citazione entro il termine del 20 marzo 2014;
la rinnovazione dell’atto di citazione era stata eseguita, ad ogni modo, correttamente, perché l’atto di citazione in rinnovazione era stato consegnato in data 21 febbraio 2014 all’ufficiale giudiziario perché provvedesse alla notifica per posta; data la temporanea assenza del destinatario all’indirizzo di INDIRIZZO, in Viareggio, il plico era stato depositato all’ufficio postale, la ricevuta TARGA_VEICOLO era stata inviata il 27 dicembre 2014; la notifica nei confronti di NOME COGNOME si era perfezionata il 9 marzo 2014;
il litisconsorte necessario non era NOME COGNOME, ma la società RAGIONE_SOCIALE, perciò il Tribunale aveva revocato l’ordinanza dell’11 dicembre 2014 in data 19 giugno 2014: dato che l’ordinanza dell’11 dicembre  2014  era  stata  revocata  dallo  stesso  Tribunale  che
l’aveva emessa non poteva invocarsi l’estinzione del giudizio per il mancato rispetto del termine in essa stabilito (Cass. n. 1739/2013; Cass. n. 2672/2008);
 il  Tribunale  aveva  concesso  termine  per  la  notificazione  alla società RAGIONE_SOCIALE fino al 30 gennaio 2015, la notifica nei suoi confronti era avvenuta in data 28 gennaio 2015, non solo presso la sua sede legale, ma anche presso il suo legale rappresentante;
il tentativo di notifica del 4 luglio 2014 non era andato a buon fine per irreperibilità del destinatario, attestata dall’ufficiale giudiziario in data 9 luglio 2014;
 non  sarebbe  stato  possibile  riprendere  con  immediatezza  il procedimento notificatorio, in quanto la notifica era stata nuovamente tentata ai sensi dell’art. 145 cod.proc.civ., nei confronti della persona fisica che rappresentava l’ente, per posta, ma essa non era andata a buon fine perché NOME COGNOME era stato indicato  come  il  rappresentante  legale  di  una  omonima  società RAGIONE_SOCIALE costituitasi successivamente, ma registrata nel registro delle imprese;
si tratta di circostanze la cui singolarità è stata evidenziata dalla Corte territoriale: soprattutto il fatto che la società RAGIONE_SOCIALE destinataria dell’ordine di integrazione del contraddittorio non risultava iscritta nel registro delle imprese e quindi non aveva una sede legale legalmente iscritta ed opponibile a terzi, che all’indirizzo di Pistoia, INDIRIZZO indicato nell’atto costitutivo risultava operante una nuova società RAGIONE_SOCIALE costituita successivamente, ma regolarmente iscritta nel registro delle imprese ed avente il medesimo rappresentante legale , che l’attore si era attivato per dar corso all’ordinanza di integrazione del contraddittorio e che, pur avendo tempestivamente espletato l’adempimento posto a suo carico, non aveva conseguito il perfezionamento di tale notificazione, nel termine all’uopo fissato, a causa di eventi (l’irreperibilità della società RAGIONE_SOCIALE, il fatto che allo
stesso  indirizzo  avesse  fissato  la  sua  sede  legale  una  società omonima, avente diversa partita Iva, ma lo stesso rappresentante legale)  che  non  era  tenuto  a  conoscere  e  di  cui  era  venuto  a conoscenza  soltanto attraverso le relazioni di notifica;
la questione è se a fronte di ciò dovesse riprendere autonomamente  il  procedimento  notificatorio  ovvero  se  avesse diritto  all’assegnazione  di  un  ulteriore  termine,  perentorio,  per procedere all’integrazione del contraddittorio;
con  un  accertamento  di  fatto  che  non  è  possibile  mettere  in discussione la Corte territoriale ha dato però atto che il notificante aveva  svolto tutti gli accertamenti  necessari per riattivare il procedimento  notificatorio,  senza  riuscirvi  per  causa  a  lui  non imputabile, per la ricorrenza di circostanze eccezionali di cui aveva dato prova rigorosa (Cass. 31/07/2017, n. 19059; Cass. 09/08/2018, n. 20700; Cass. 21/08/2020, n. 17577);
la  ricorrenza  di  dette  cause  non  poteva  che  determinare  la riattivazione  del  procedimento  notificatorio  mediante  istanza  al giudice,  volta a domandare la fissazione di un termine perentorio per il relativo completamento (Cass. 30/03/2023, n. 8983);
di qui l’infondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata, anche in considerazione del fatto che una diversa conclusione dovrebbe ritenersi contrastante con gli artt. 3 e 24 Cost., sia perché equiparerebbe situazioni processuali affatto diverse (ponendo sullo stesso piano l’inerzia rispetto all’ordine di integrazione e la tempestiva esecuzione di questo, non completata per cause indipendenti dalla volontà della parte procedente e non rientranti nella normale prevedibilità), sia perché si risolverebbe in una irragionevole compressione del diritto di difesa, atteso che la detta parte si vedrebbe addebitato l’esito parzialmente intempestivo del procedimento notificatorio per un fatto in concreto sottratto ai suoi poteri d’impulso, in quanto dalla stessa non conosciuto;
la ragione fondamentale sulla quale si basa la sentenza impugnata è che, nella specie, l’assegnazione di un secondo termine perentorio per integrare il contraddittorio, successivamente alla scadenza del primo, era rituale perché il mancato rispetto del termine originariamente assegnato e la ripresa del procedimento notificatorio erano dipesi da circostanze non imputabili al notificante; l’argomentazione della Corte territoriale è corretta ed è sufficiente a giustificare la conclusione; ciò stando, è irrilevante l’eventuale erroneità delle ragioni sottese alla declaratoria di inammissibilità dell’appello incidentale;
5.)  con  il  quinto  ed  ultimo  motivo  le  ricorrenti  censurano  la sentenza d’appello per averle condannate al pagamento di complessivi  euro  20.000,00,  ai  sensi  dell’art.  96  cod.proc.civ.,  in riferimento all’art. 360, 1° comma, , n. 4 cod.proc.civ. nonostante l’assenza di loro malafede e in assenza di motivazione;
il motivo  va  disatteso,  perché  con  esso  non  si  assume  la violazione in  iure dell’art.  96  cod.proc.civ.,  ma  si  contesta  la ricorrenza di un proprio comportamento processuale improntato a mala fede;
ciò che viene imputato alla Corte territoriale non è, infatti, l’erronea ricostruzione della quaestio facti che l’avrebbe indotta in ultima analisi ad applicare erroneamente la norma di diritto alla fattispecie dedotta in giudizio: il che avviene solo allorché si rimproveri al giudice di avere fatto ricorso ad una norma di diritto errata, perché spintovi da una inesatta sussunzione della vicenda concreta in quella astratta regolata dalla norma di diritto, originata da una fallace ricostruzione dei fatti di causa; parte ricorrente lamenta solo l’esito dell’apprezzamento del comportamento processuale tenuto;
né può accogliersi la censura per difetto di motivazione in ordine alla  quantificazione  della  somma  liquidata  ai  sensi  dell’art.  96 cod.proc.civ., perché in tema di responsabilità processuale
aggravata, l’art. 96, 3° comma, cod.proc.civ., nel disporre che il soccombente può essere condannato a pagare alla controparte una “somma equitativamente determinata”, non fissa alcun limite quantitativo, né massimo, né minimo, al contrario dell’art. 385, comma 4, c.p.c., che, prima dell’abrogazione ad opera della l. n. 69 del 2009, stabiliva, per il giudizio di cassazione, il limite massimo del doppio dei massimi tariffari; pertanto, la liquidazione in concreto della somma in via equitativa rientra nel potere discrezionale del giudice e non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, quando la motivazione dia adeguatamente conto del processo logico e valutativo seguito (Cass. 18/03/2022, n. 8943);
ne consegue il rigetto del ricorso;
 nulla  deve  essere  liquidato  per  le  spese  non  avendo  NOME COGNOME svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.pr. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Camera di Consiglio dell’08/01/2024 dalla Terza