Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 1232 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 1232 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 3543/2019 r.g. proposto da:
COGNOME NOME e NOME NOME, elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME da cui sono rappresentati e difesi per procura in calce al ricorso
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE già RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa ex lege
dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO
– controricorrente-
e
Prefettura di Reggio Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, e Socie tà RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore
-intimate-
avverso la sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria n. 411/2018 depositata in data 25/6/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 8/1/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
NOME COGNOME era proprietario delle particelle, di cui al foglio 12, numeri 281 (ex n. 72 di mq 150),238 (ex 73 di mq 7427), 279 (ex 24, di mq 5633), 246 (ex 25 di mq 480), 242 (ex 26 di mq 104), 240 (ex 77, di mq 1501), 244 (ex 91 di mq 3578), 158, di mq 200,159, di mq 280,160, di mq 30,161 di mq 1400,179 di mq 240.
NOME COGNOME era proprietario della particella n. 248 (ex 20) di mq 1774.
Tali terreni venivano coinvolti nell’espropriazione relativa alla variante tecnica per l’ammodernamento dell’autostrada SA-RG.
L’espropriazione riguardava alcune particelle facenti parte di un più vasto complesso fondiario «riconducibile all’azienda agraria dei due Vitale costituita da tre corpi immobiliari, il primo posto a nord ed in adiacenza alla carreggiata autostradale direzione SalernoReggio Calabria; il secondo, più grande, posto a sud ed adiacente alla carreggiata autostradale Reggio Calabria-Salerno; il terzo,
costituito dalla particella n. 26 del foglio di mappa 13, posto a sud rispetto alla strada provinciale che da Rosarno conduce a Laureana di Borrello, strada dalla quale si accede all’azienda».
L’Anas con delibera n. 365 del 24/12/1999 dichiarava l’opera di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza.
Con decreto n. 364 del 6/6/2000 la Prefettura di Reggio Calabria autorizzava l’occupazione temporanea ed urgente delle particelle sopra indicate fino al 23/12/2004, con la successiva proroga apportata dal decreto n. 28709 del 9/12/2004, fino al 22/11/2005.
In data 28/5/2004 la società RAGIONE_SOCIALE, in nome e per conto dell’Anas, comunicava la determinazione dell’indennità provvisoria pari ad euro 3,10 al metro quadrato, per la somma di euro 68.128,70, oltre all’indennità di occupazione pari a 1/12 ed oltre all’indennità per fabbricati, soprassuolo e danni.
Veniva offerta l’indennità provvisoria, al fine di giungere ad un accordo bonario, di euro 364.490,67, di cui euro 68.128,70 per il valore dell’area espropriata, per mq 21.977 X euro 3,10 al metro quadrato; euro 136.257,40 per la maggiorazione spettante al proprietario coltivatore diretto; euro 68.128,70 per l’occupazione temporanea dell’area agricola; euro 91.975,87 per indennità per soprassuolo.
L’offerta veniva respinta dagli attori.
La società RAGIONE_SOCIALE depositava la somma di euro 68.128,70 presso la Cassa depositi e prestiti.
In data 22/11/2005 il Prefetto di Reggio Calabria adottava il decreto di esproprio, su autorizzazione dell’Anas con provvedimento n. 40143 del 7/11/2005.
La società RAGIONE_SOCIALE notificava il decreto di esproprio ai proprietari il 19/5/2006.
A seguito di opposizione alla stima, la corte d’appello, dopo l’espletamento della CTU, determinava in complessivi euro 113.459,12 la somma totale dovuta a NOME COGNOME e in complessivi euro 10.156,76 la somma totale dovuta a NOME COGNOME a titolo di indennità di espropriazione ed indennità di occupazione legittima dei fondi.
2.1. Per quel che ancora qui rileva la Corte territoriale rilevava il difetto di legittimazione passiva della società italiana RAGIONE_SOCIALE, la quale aveva agito non in nome proprio, ma in nome e per conto della società appaltante, e quindi dell’Anas, «unica protagonista della vicenda».
2.2. Quanto all’intimazione nei confronti del Prefetto, si rilevava che tale adempimento assolveva ad una mera esigenza di informazione, senza porre detta autorità nella qualifica di parte formale, né sostanziale. Ne discendeva che la notifica alla Prefettura era stata effettuata da parte attrice a soli fini informativi ai sensi dell’art. 51 della legge n. 2359 del 1865, non essendo dunque necessario dichiarare il difetto di legittimazione della Prefettura.
2.3. Chiariva poi la Corte d’appello che, poiché la dichiarazione di pubblica utilità era avvenuta il 24/12/1999 con la delibera dell’Anas n. 365, il regime normativo applicabile era quello dettato dalla legge n. 2359 del 1865.
2.4. Venivano escluse le domande di indennizzo relative alle particelle nn. 158,159,160,161 e 179, del foglio di mappa 12, in quanto le stesse «non erano in proprietà di NOME NOME all’epoca dell’occupazione di urgenza per cui è causa (1999/2000), né all’epoca del decreto di espropriazione (2005), nonostante le diverse indicazioni testuali contenute nell’elenco delle ditte allegato al decreto di occupazione».
Per quel che ancora qui rileva, la Corte territoriale escludeva la sussistenza di un’ipotesi di espropriazione parziale.
Invero, secondo l’assunto dei ricorrenti occorreva tener conto «nella determinazione delle indennità di espropriazione, oltre che della parte materialmente ablata, anche del deprezzamento subito dalla porzione di fondo rimasta in proprietà, quale conseguenza diretta del distacco della prima dalla seconda, sostenendo in particolare che i lavori autostradali avrebbero sezionato l’esteso appezzamento di proprietà COGNOME, creando zone di interclusione o difficilmente raggiungibili, e determinando così una sicura diminuzione di valore della parte residua, non espropriata».
Per gli attori, infatti, «i terreni residui e quelli espropriati facevano parte dello stesso fondo, essendo tra loro contigui, e soprattutto erano utilizzati nella stessa azienda agricola, sussistendo tra loro un vincolo strutturale, funzionale ed economico; la diminuzione di valore della parte rimanente di azienda agricola sarebbe stata, nella specie, concreta ed obiettiva, e, pur tuttavia, non era stata presa in considerazione dall’ente espropriante al momento della quantificazione della relativa indennità».
Tale assunto – a giudizio della Corte di merito – non era fondato, in ragione della peculiarità del caso concreto.
3.1. La Corte territoriale muoveva dall’assunto per cui il CTU aveva spiegato «che le porzioni di terreno espropriate, nonostante la loro marginale ubicazione e la loro ridotta dimensione rispetto all’intero compendio aziendale avevano esplicato, sino al momento della occupazione e contestuale immissione in possesso, un ruolo funzionale importante per l’attività produttiva tutta, poiché su di esse, secondo la descrizione contenuta nel ‘verbale di accertamento dello stato di consistenza di immissione in possesso’ del 18/8/2000, ricadeva la gran parte delle strutture costituenti l’impianto e la rete
di distribuzione idrica a servizio di tutta l’azienda, divenute sostanzialmente inutilizzabili a seguito della procedura ablatoria di che trattasi».
Ed infatti, l’azienda era inizialmente dotata di n. 5 pozzi, di cui 2 ubicati sulla particella n. 73 (oggetto di esproprio per mq 7427), ora n. 238, immessi nel possesso dall’espropriante, unitamente alla cabina elettrica con quadri elettrici di comando, uno ubicato sulla particella 91, ora n. 244, di mq 3578, anch’esso immesso nel possesso dalla società espropriante, e 2 ubicati sulla particella n. 24, ora 279, per mq 56, posti in adiacenza ad una vasca di accumulo e dei quali solo uno era stato immesso nel possesso dall’espropriante.
Chiariva la Corte di merito che i pozzi «avevano rappresentato, sino all’immissione in possesso, la fonte essenziale di approvvigionamento di acqua per l’irrigazione di tutta l’area e, al momento dell’occupazione, si trovavano in condizioni di regolare emungimento, tale che il relativo apporto idrico, attraverso un sistema di irrigazione strutturato su uno schema ad anello (è costituito da vasche di raccolta di varie dimensioni, una condotta irrigua principale automatizzata, un impianto di irrigazione a baffo e condotta principale, delle strade interpoderali che giungevano sino al centro aziendale, dei fossi di scolo ed una cabina elettrica di comando per accensione automatica degli impianti), partendo dai pozzi situati a nord dell’azienda, si diramava per tutta l’azienda in modo circolare e serviva così tutte le piantagioni, in massima parte di natura irrigua (agrumeti, frutteti, non ceti, uliveti)».
Si evidenziava anche che, ad avviso del CTU, «sarebbe da ritenere esistente, in punto di fatto, un intimo collegamento tra la più vasta parte residua del fondo agricolo (rimasta in proprietà dei COGNOME) e la parte espropriata, essendo esse risultate unite tra loro da un vincolo strumentale ed obiettivo (tale, cioè, da conferire
all’intero immobile unità economica e funzionale), proprio per il dato costituito dalla presenza, nella parte espropriata, della maggior parte delle strutture costituenti l’impianto idrico a servizio dell’intera azienda, ed in particolare dei pozzi immessi in possesso dall’Ente, l’impossibilità di usare i quali dopo l’occupazione finalizzata all’espropriazione ha determinato la trasformazione del complesso aziendale da irriguo ad asciutto, compromettendo alquanto la capacità produttiva della restante estesa proprietà a causa proprio della carenza di irrigazione, fertilizzazione e potatura delle piante, in un contesto di estesa piantagione di agrumi, oltre che di susineti e pescheti, richiedenti tutti costante innaffiamento per la loro crescita e produzione».
Tuttavia, la Corte d’appello escludeva la sussistenza dell’espropriazione parziale, in quanto «nel caso concreto i pozzi che sono stati immessi in possesso dall’Ente espropriante non ricadevano all’interno dell’area espropriata, bensì, stando alle risultanze della sovrapposizione dell’esproprio sui luoghi di causa, si trovavano all’esterno rispetto al confine determinato dall’espropriazione, e dunque al di fuori delle porzioni delle rispettive particelle 73, di ubicazione dei pozzi numeri 1 e 2, con la cabina elettrica ed i quadri di comando), 92 (di ubicazione del pozzo n. 5) e 24 (di ubicazione dei pozzi numeri 3 e 4, di cui uno solo è stato immesso in possesso come si è detto sopra) oggetto di esproprio».
Ciò emergeva dal giudizio per risarcimento dei danni instaurato da NOME COGNOME dinanzi al tribunale di Reggio Calabria nel 2003, «riguardante i pretesi danni subiti dall’azienda agricola a seguito dell’occupazione di una parte di essa a fini di espropriazione».
Per tale ragione, l’ente espropriante si era impossessato «del cuore dell’impianto idrico costituito dai pozzi suddetti», senza «un titolo giuridico, essendo la dichiarazione di pubblica utilità non
riferibile (anche) a quelle porzioni di particelle in cui si trovava la maggior parte dei pozzi occupati e poi acquisiti dall’ente espropriante, con la conseguenza che, riguardo ad essi, la acclarata trasformazione del terreno non può che ritenersi di mero fatto, tutelabile, se del caso, in via risarcitoria, ma non certo valutabile ai fini della determinazione delle indennità di espropriazione».
Ai fini della configurazione dell’espropriazione parziale mancherebbe un presupposto essenziale, ossia «la regolare espropriazione dei siti in cui si trovavano i pozzi stessi, elementi essenziali dell’impianto idrico, la cui impossibilità di utilizzo avrebbe inciso in maniera negativamente pregnante sulla capacità produttiva dell’azienda tutta».
Quanto poi all’ulteriore aspetto relativo al cambiamento della viabilità all’interno dell’azienda, la Corte d’appello rilevava che su parti del fondo immesso nel possesso erano presenti delle stradine interpoderali che mettevano in comunicazione il relato sud con il lato nord dell’azienda, in particolare con le attuali particelle 280 (ex 24) e 282 (ex 72).
A seguito dell’espropriazione, invece, «per potervi accedere si è reso necessario attraversare, oltre agli scatolari con funzione idraulica e/o sottopassaggi autostradali, alcune strade in terra battuta di proprietà Anas s.p.a.»; sicché, «se in precedenza era necessario percorrere i sottopassi autostradali per raggiungere le aree poste a nord dell’azienda, a seguito dell’espropriazione, oltre ai sottopassi, il proprietario è obbligato a percorrere delle stradine divenute ora di proprietà del predetto Ente per raggiungere, dalla parte sud, le particelle ubicate a nord del compendio aziendale».
Ciononostante, per la Corte di merito, «il parziale mutamento nelle caratteristiche di collegamento viario verificatosi a seguito dell’esproprio, l’esiguità della porzione di proprietà residua rimasta
interclusa porta a ritenere che non si possono configurare, in relazione ad essa, i presupposti dell’espropriazione ‘parziale’, sotto il profilo sia dell’intimo collegamento tra le parti non espropriate e quelle espropriate attraverso un vincolo strumentale ed obiettivo, che dell’influenza negativa del distacco di una parte del fondo dal resto, tenuto conto anche che, in via di fatto, è risultato comunque tollerato l’attraversamento da parte del Vitale delle stradine (ora) in proprietà RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE onde raggiungere le particelle 280 e 282».
La Corte d’appello, poi, respingeva la richiesta dell’indennità aggiuntiva fondata sulla circostanza della lavorazione diretta del suolo da parte degli attori e sul fatto di trarre il loro reddito proprio dall’azienda agricola menomata dall’espropriazione.
Non risultava provato, infatti, l’elemento fattuale relativo alla lavorazione diretta del suolo. Anzi, dagli elementi raccolti emergeva, «anche in considerazione della vastità dell’azienda», che i COGNOME erano «’imprenditori agricoli’ quali soggetti che esercitano la coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale sul lavoro e con impegno prevalente di manodopera subordinata», non aventi quindi diritto alla pretesa indennità aggiuntiva.
Nelle more, peraltro, interveniva la pronuncia del Consiglio di Stato n. 978 del 2012 che accoglieva in parte l’appello proposto da NOME COGNOME NOME COGNOME reputando l’illegittimità del decreto di proroga n. 28709 del 9/12/2004 nella parte in cui aveva autorizzato l’occupazione eccedente il quinquennio scadente il 18/8/2005, in quanto «considerato che la proroga ha operato sino al 22 novembre 2005, il decreto non vale ad attribuire idoneo titolo per i 3 mesi successivi, periodo durante il quale l’occupazione è da ritenersi illecita e produttiva di danno».
Di qui la quantificazione «in via equitativa nella misura degli interessi legali sulla somma pari al valore venale degli immobili, considerando come congruo e ragionevole il prezzo di euro 6,00 per metro quadrato (somma dichiarata dall’appellante non contestata) per un risultato finale di euro 867,04 a favore di NOME NOME di euro 70,00 a favore di NOME NOME».
Inoltre, nelle more veniva pronunciata sentenza da parte del tribunale di Reggio Calabria n. 806/2014 depositata il 13/5/2014.
Avverso la sentenza della Corte d’appello hanno presentato ricorso per cassazione NOME COGNOME e NOME COGNOME depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con controricorso l’RAGIONE_SOCIALEora Ente Nazionale per le Strade).
Sono rimaste intimate la prefettura di Reggio Calabria e la RAGIONE_SOCIALE
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione ricorrenti deducono la «violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per violazione dell’art. 40 legge 2359/1865 in relazione al mancato riconoscimento della maggiore indennità di esproprio della parte residua della proprietà non espropriata per violazione dei principi in ordine al criterio di unitarietà e con particolare riferimento all’art. 1027 e 1031 c.c., in materia di costituzione della servitù di passaggio».
In particolare, ai fini dell’individuazione dell’esplorazione parziale non poteva non farsi riferimento al «frazionamento di un’azienda agricola».
Ad avviso dei ricorrenti, il CTU aveva dato atto dell’esistenza dell’unitarietà aziendale, evidenziando che «l’espropriazione ha comportato, di fatto, una serie di problematiche che hanno influito negativamente sulla produttività dell’intera azienda agraria residua,
conducendo, inevitabilmente e repentinamente alla diminuzione totale del suo valore di mercato».
Il CTU ha indicato – a giudizio del ricorrente – due criteri oggettivi per dimostrare l’esistenza dell’unitarietà aziendale e la perdita di valore della parte residua causa dell’esproprio. Essi erano identificabili, da un lato, nella impossibilità di utilizzare i pozzi e dall’altra nelle strade interpoderali.
Per la Corte d’appello, invece, tali criteri, pur se oggettivamente individuati per dimostrare la preesistente unitarietà aziendale ed il successivo danneggiamento della parte residua, erano inidonei «a determinare l’unitarietà e il diritto all’indennizzo del Vitale, per inesistenza dell’unitarietà aziendale».
Si sarebbe dunque in presenza di «un’erronea applicazione delle norme di diritto in materia di valutazione dell’indennizzo, servitù ed interclusione».
La Corte di merito ha dichiarato che le particelle n. 280 e n. 282 non espropriate e rimaste intercluse, lo sarebbero solo in via di diritto, dovendo gli attori per raggiungere loro proprietà «obbligatoriamente attraversare la proprietà Anas, rimanendo di fatto interclusione».
E tuttavia, gli attori potrebbero comunque di fatto passare attraverso i terreni di proprietà dell’Anas, per raggiungere una porzione esigua di terreno.
Sul punto, gli attori evidenziano che «detta interclusione era inesistente prima dell’esproprio e riguarda un’estensione di mq 32.000,00».
Non rileva in alcun modo quanto affermato dalla Corte territoriale per cui la «mera interclusione» sarebbe ininfluente in quanto «l’Anas (espropriante) di fatto tollera il passaggio e la superficie è esigua».
Infatti, per i ricorrenti «l’interclusione di un fondo può essere vinta solo con la costituzione di una servitù a carico del fondo servente, diversamente, il fondo interclusione è privo di un accesso costituito per titolo».
Insomma, per i ricorrenti «l’unitarietà del bene originario non può essere esclusa utilizzando un principio contro diritto, cioè la negazione della necessità di una servitù costituita per titolo»; sicché «i fondi interclusi non possono essere raggiunti con la ‘tolleranza’ dell’Anas atteso che la tolleranza può cessare in qualsiasi momento».
Tra l’altro, non può dimenticarsi che «all’interno dei fondi interclusi, come evidenziato anche dalla Corte d’appello insistono due pozzi per l’emungimento dell’acqua di irrigazione, detti pozzi sono rimasti in proprietà NOME, ma a causa dell’interclusione sono inutilizzabili, perché irraggiungibili».
Di qui l’evidenza della «unitarietà aziendale ante esproprio» come pure del «deprezzamento della proprietà residua a seguito della perdita di unitarietà, quale conseguenza dell’esproprio».
Del resto, il tribunale di Reggio Calabria, con sentenza n. 806 del 2014, ha affermato che «l’interclusione delle due particelle non dipende dalle attività materiali di esecuzione lavori, ma dall’esproprio parziale delle particelle del Vitale In definitiva i profili irreversibili di danno subiti dalla parte residua della proprietà a seguito dell’interclusione della medesima dopo l’espropriazione, non possono che trovare riconoscimento nei concetti di occupazione e di espropriazione parziale e danno diritto ad un’unica indennità».
Nella zona di interclusione insistono due pozzi per l’emungimento delle acque da destinare all’irrogazione dell’azienda. Si tratta dei pozzi numeri 3 e 4, insistente sulla particella 280, ex 24. Tale interclusione non consente l’accesso dei pozzi.
Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la «violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per violazione dell’art. 40 legge 2359/1865 in relazione al mancato riconoscimento della maggiore indennità di esproprio della parte residua della proprietà non espropriata per violazione dei principi in ordine al criterio di unitarietà con riferimento all’esistenza dell’impianto irriguo».
La Corte d’appello ha escluso l’esistenza dell’unitarietà dell’azienda agricola in quanto «nel caso concreto i pozzi che sono stati immessi nel possesso dell’ente espropriante non ricadevano all’interno dell’area espropriata, bensì, all’esterno rispetto al confine determinato dall’espropriazione».
In realtà, però, l’oggettiva unitarietà dell’azienda agricola è l’elemento che determina il diritto alla percezione dell’indennizzo di esproprio ex art. 40 della legge n. 2359 del 1865.
Ad avviso dei ricorrenti, allora, «la Corte d’appello stravolge il concetto di unitarietà, laddove ritiene che l’ubicazione dei pozzi di emungimento sia elemento idoneo a determinare la suddetta unitarietà».
In realtà, «l’unitarietà non è data dal pozzo, che può rappresentare un elemento, ma non il criterio, ma l’unitarietà deve essere valutata in maniera oggettiva per verificare quanto e come prima dell’esproprio l’azienda rappresentasse un tutt’uno e dopo l’esproprio l’ablazione di una superficie ha determinato un deprezzamento ed una diminuzione di valore del residuo, rispetto al suo valore ante esproprio».
Ciò che deve rilevare, ai fini della sussistenza dell’unitarietà aziendale, è costituito «dalla preesistenza di un impianto idrico ad anello che interessava l’intero compendio aziendale, il pozzo è un elemento dell’impianto, non è l’unico, è il sistema di irrigazione
diffuso su tutta azienda in maniera inscindibile che determina l’unitarietà».
Esisteva dunque un impianto di irrigazione unitario che, a seguito dell’esproprio, non era più funzionante.
Ciò che rileva – proseguono i ricorrenti – «è la complessità dell’impianto ai fini della sua ramificazione all’interno dell’intera azienda, per conferire alla stessa unitarietà».
Va considerato che «l’impianto senza tubazione non può funzionare» mentre «sono state divelte e mai ripristinate tutte le tubazioni che ricadevano in tutta la zona di esproprio».
Senza dimenticare l’esproprio dell’impianto viario, in quanto le tubazioni principali dell’impianto idrico non si snodano in zone coltivate, «ma sempre in corrispondenza delle strade interpoderali per facilitare le opere di manutenzione». È stato dunque eliminato l’impianto idrico sottostante al sistema viario.
I motivi primo e secondo, che vanno esaminati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono fondati.
3.1. La Corte d’appello, nel reputare l’assenza dell’unità funzionale dell’azienda agraria, ha violato il costante orientamento giurisprudenziale in tema di espropriazione parziale, non avendo tenuto conto, da un lato, dell’ormai avvenuta totale interclusione della parte residua dei fondi degli attori, e quindi delle particelle n. 280, ex 24, sulla quale peraltro erano insediati i pozzi numeri 3 e 4, nonché della particella n. 282, ex 72, entrambe posizionate al nord, dall’altra parte dell’autostrada, e dall’altro, ha omesso di considerare che l’impianto di irrigazione era uno soltanto, unitario, coinvolgente l’intera azienda agricola, e pur muovendo dai 5 pozzi di emungimento delle acque (collocati appunto nella parte Nord), si dipanava ad anello per irrogare tutte le piante che si trovavano nel territorio aziendale, sia nella parte centrale che a Sud dell’azienda.
4. Per questa Corte, infatti, in tema di espropriazione per pubblica utilità, quella parziale per la quale l’indennità va determinata sulla base della differenza fra il valore dell’unico bene prima dell’espropriazione ed il valore della porzione residua secondo l’art.40 della l. n. 2359 del 1865 (oggi art. 33 del d.P.R. n. 227 del 2001), si verifica quando la vicenda ablativa investa parte di un complesso immobiliare appartenente allo stesso soggetto e caratterizzato da un’unitaria destinazione economica, implicando per il proprietario un pregiudizio diverso da quello ristorabile mediante l’indennizzo calcolato con riferimento soltanto alla porzione espropriata, per effetto della compromissione o comunque dell’alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione e del connesso deprezzamento di essa (Cass., sez. 1, 15 luglio 2020, n. 15040; Cass., sez. 1, 2/7/2020, n. 13598; Cass., sez. 1, 11 ottobre 2021, n. 27555). L’indennizzo non può riguardare soltanto la porzione espropriata, ma anche la compromissione o l’alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione del bene rimasta nella disponibilità del proprietario, in tutti i casi in cui il distacco di una parte del fondo e l’esecuzione dell’opera pubblica influiscano negativamente sulla parte residua (Cass., sez. 1, 15/6/2017, n. 14891).
Pertanto, è necessario, da un lato, che ai fini della configurazione dell’espropriazione parziale, che la parte residua del fondo sia intimamente collegata con quella espropriata da un vincolo strumentale ed obiettivo, tale da conferire all’intero immobile il carattere di unità economica e funzionale (Cass., 10/7/1998, n. 6722) e, dall’altro, che il distacco di una parte di esso abbia influito, oggettivamente (con esclusione, dunque, di ogni valutazione soggettiva), in modo negativo sulla parte residua (Cass. n. 14891
del 2017; Cass., sez. 1, 3/7/2013, n. 16616; Cass., 4/11/2005, n. 21401).
La ratio di tale disciplina – che muove dai principi di cui all’art. 40 della legge n. 2359 del 1865, qui applicabile ratione temporis – è quella di tenere conto della circostanza che quando, come spesso accade, l’esproprio ha ad oggetto soltanto una parte della proprietà, la porzione residua, pur non interessata, può però subire un significativo deprezzamento; per la dottrina, dunque, l’indennità per la parte espropriata deve tenere conto, oltre che del valore della stessa in sé, anche della diminuzione di valore che l’ablazione della porzione proietta sul bene residuo.
Pertanto, il pregiudizio provocato al proprietario di un fondo unitario dall’espropriazione parziale viene compensato con il riconoscimento, in sede di quantificazione dell’indennizzo, dell’effettivo diminuito valore del bene complessivamente considerato, avendo a riferimento ogni alterazione della potenzialità di utilizzo della porzione residua.
La previsione dell’art. 33 del d.p.r. n. 327 del 2001 (art. 40 della legge n. 2359 del 1865), dunque, è in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale ed europea, i quali esigono non solo che l’indennizzo sia commisurato al valore venale del bene espropriato, ma anche che esso, in tutti i casi in cui il distacco di una parte del fondo e l’esecuzione dell’opera pubblica influiscano negativamente sulla parte residua, sia calcolato tenendo conto della compromissione o alterazione delle possibilità di utilizzazione di quest’ultima, in modo da compensare il pregiudizio ad essa arrecato dall’ablazione.
Ai fini della determinazione dell’indennizzo deve farsi riferimento non solo all’esistenza di una connessione funzionale tra la parte oggetto dell’espropriazione e quella non interessata, sicché le due
parti – appartenenti allo stesso proprietario – siano considerate come un’ unicum sotto il profilo funzionale di economico (Cass., sez. 1, 23/11/2004, n. 2210; Cass., sez.1, 9/4/1997, n. 561), ma anche l’effettivo ‘degrado’ della parte non espropriata, non essendo sufficiente la mera esecuzione di un’opera integrale tale requisito.
Nella specie, emerge dalla stessa motivazione della sentenza della Corte d’appello che la porzione residua di proprietà in capo ai COGNOME, costituita dalle particelle n. 280, ex 24, e n. 282, extra 72, è rimasta del tutto interclusa, a seguito dei lavori effettuati dall’Anas per l’ammodernamento dell’autostrada Salerno Reggio Calabria.
Tali terreni, che si trovano a nord dell’apprezzamento complessivo, erano prima collegati attraverso sottopassaggi autostradali, mentre ora, pur essendo ancora disponibili tali sottopassaggi, tuttavia i terreni siti a nord ed a sud di tale sottopassaggi sono divenuti di proprietà esclusiva dell’Anas; ne consegue la assoluta interclusione di tali appezzamenti di terreno, ove sono situati due pozzi di emungimento, con riferimento alla particella n. 280, ex 24.
Deve anche precisarsi che, attraverso l’espropriazione, solo uno dei due pozzi è stato immesso nel possesso, mentre l’altro pozzo è rimasto nella disponibilità dei proprietari, ma, essendo stata distrutta l’intera rete di distribuzione idrica, che si trovava al di sotto dei terreni espropriati, anche tale pozzo è risultato inservibile, con la conseguente perdita di produttività dell’intero compendio espropriato e anche della parte non espropriata (per un’ipotesi di espropriazione parziale di un’azienda agricola cfr. Cass., sez. 1, 14/9/1995, n. 9586, in cui la diminuzione dell’azienda agricola era avvenuta per il frazionamento dei terreni e la maggiore onerosità della gestione; si è ritenuto sussistere, poi, un’espropriazione parziale di immobili a destinazione industriale, in relazione al
deprezzamento dei beni mobili facenti parte dell’attrezzatura industriale, in relazione ai costi legati alla rimozione e reimpianto ovvero per il fatto di non essere altrimenti utilizzabili; vedi Cass., Sez. U., 8/6/1998, n. 5609).
Neppure può essere condivisa l’affermazione della Corte di merito per cui i fondi siti a nord, e precisamente quelli sopra indicati di cui ai numeri 280 e 282, sarebbero comunque raggiungibili, di fatto, in virtù della mera tolleranza dell’Anas.
Come ricordato dai ricorrenti, infatti, tale tolleranza potrebbe venir meno in ogni momento, con la definitiva interruzione di ogni possibile attività intrapresa per lo sfruttamento agricolo dei fondi.
6. Con riferimento alla mancanza di interclusione, dunque, risulta erronea l’affermazione contenuta nella motivazione della sentenza della Corte d’appello per cui «il parziale mutamento nelle caratteristiche di collegamento viario verificatosi a seguito dell’esproprio, l’esiguità della porzione di proprietà residua rimasta interclusa porta a ritenere che non si possano configurare, in relazione ad essa, i presupposti dell’espropriazione ‘parziale’, sotto il profilo sia dell’intimo collegamento tra le parti non espropriate e quelle espropriate attraverso un vincolo strumentale d’obiettivo, che dell’influenza negativa del distacco di una parte del fondo dal resto, tenuto conto anche che, in via di fatto, è risultato comunque tollerato l’attraversamento da parte dei Vitale delle stradine (ora) in proprietà RAGIONE_SOCIALE onde raggiungere le particelle 280 e 282».
È sufficiente, con riguardo all’interclusione sicuramente avvenuta dei fondi di cui alle particelle n. 280 e 282, poste al nord rispetto all’appezzamento di terreno espropriato ed all’autostrada, osservare, da un lato, che si è in presenza di un’unica azienda agricola che concerneva tutti i terreni di proprietà dei COGNOME, anche e soprattutto attraverso un sistema di distribuzione idrico particolarmente
raffinato, con la presenza di ben 5 pozzi di emungimento delle acque, e, dall’altro, che i due terreni posti a nord sono divenuti irraggiungibili, con una interclusione totale degli stessi, non superabile certo con la mera tolleranza da parte dell’Anas del passaggio dei ricorrenti per accedere ai terreni di loro proprietà.
7. Sempre nella motivazione della sentenza della Corte d’appello si rinviene la sussistenza di un’unica azienda agricola. Ed infatti, è lo stesso giudice di merito ad affermare con granitica evidenza che i pozzi e le adduzioni idriche «avevano rappresentato, sino all’immissione in possesso, la fonte essenziale di approvvigionamento di acqua per l’irrigazione di tutta l’area e, al momento dell’occupazione, si trovano in condizioni di regolare emungimento, tale che il relativo apporto idrico, attraverso un sistema di irrigazione strutturato su uno schema d’anello (e costituito da vasche di raccolta di varie dimensioni, una condotta irrigua principale automatizzata, un impianto di irrigazione a baffo e condotta principale, delle strade interpoderali che giungevano sino al centro aziendale, dei fossi di scolo ed una cabina elettrica di comando per accensione automatica degli impianti), partendo dai pozzi situati a nord dell’azienda, si diramava per tutta l’azienda in modo circolare serviva così tutte le piantagioni, in passi ma parte di natura irrigua (agrumeti, frutteti, noceti, uliveti)».
Prosegue la Corte d’appello nel riferire che, sulla scorta del giudizio del CTU, «sarebbe da ritenere, in punto di fatto, un intimo collegamento tra la più vasta parte residua del fondo agricolo (rimasta in proprietà dei COGNOME) e la parte espropriata, essendo esse risultati unite tra loro da un vincolo strumentale d’obiettivo (tale, cioè, da conferire all’intero immobile unità economica e funzionale), proprio per il dato costituito dalla presenza, nella parte espropriata, della maggior parte delle strutture costituenti l’impianto idrico a
servizio dell’intera azienda, e in particolare dei pozzi immessi in possesso dall’ente, l’impossibilità di usare i quali dopo l’occupazione finalizzata all’espropriazione ha determinato la trasformazione del compendio aziendale da irrigua da asciutto, compromettendo alquanto la capacità produttiva della restante estesa proprietà causa proprio della carenza di irrigazione, fertilizzazione e potatura delle piante, in un contesto di estesa piantagioni di agrumi, oltre che di susineti e pescheti, richiedenti tutti costante annaffia mento per la loro crescita e produzione».
La perfetta ricostruzione in fatto delle circostanze relative all’espropriazione ed alle caratteristiche essenziali del fondo utilizzato dall’impresa agricola non può poi essere messa in disparte semplicemente con l’affermazione per cui «i pozzi che sono stati immessi in possesso dall’ente espropriante non ricadevano all’interno dell’area espropriata, bensì, stando alle risultanze della sovrapposizione dell’esproprio sui luoghi di causa, si trovavano all’esterno rispetto al confine determinato dall’espropriazione, e dunque al di fuori delle porzioni delle rispettive particelle 73 (di ubicazione dei pozzi numeri 1 e 2, con la cabina elettrica dei quadri di comando), 91 (di ubicazione del pozzo n. 5) e 24 (di ubicazione dei pozzi numeri 3 e 4, di cui uno solo è stato immesso in possesso come si è detto sopra) oggetto di esproprio».
La presenza di un unitaria azienda agricola, perfettamente funzionante, poi sostanzialmente completamente distrutta a seguito dell’esproprio, non può perdere i caratteri della unitarietà esclusivamente perché i pozzi di emungimento si trovavano all’interno di particelle che non risultavano espropriate, in quanto ciò che rileva è proprio la sussistenza di un impianto idrico unitario, costituito non solo dai pozzi, ma anche dalle condotte irrigue, sia da quella principale automatizzata, sia dall’impianto di irrigazione a
baffo, sia dalla condotta principale, sia dalle strade interpoderali, sia dei fossi di scolo, sia dalla cabina elettrica di comando.
Sul punto, va considerato proprio quanto riportato dal CTU, e trascritto ritualmente nel motivo di ricorso per cassazione (a pagina 9), ove si chiarisce perfettamente che «sebbene l’ubicazione dei terreni oggetto di esproprio sia marginale, ovvero sebbene dette particelle siano collocate tutte nella zona dell’azienda posta più a nord, lungo un tratto della già esistente autostrada, l’espropriazione ha comportato di fatto, una serie di problematiche che hanno influito negativamente sulla produttività dell’intera azienda agraria residua, conducendo inevitabilmente repentinamente alla diminuzione totale del suo valore di mercato» (cfr. pagina 120 della CTU).
A pagina 15 del ricorso per cassazione si richiama quanto riportato dal CTU a pagina 121 e, dunque, che «l’azienda, che basava la sua redditività su colture che necessita obbligatoriamente di interventi irrigui per poter crescere fruttificare, e che quindi proprio per questo era dotata di pozzi ed impianti irrigui, si è trovata repentinamente in una condizione di siccità, non potendo più i proprietari utilizzare l’acqua proveniente dai pozzi».
Allo stesso modo, a chiarire l’esistenza dell’unitarietà aziendale, nel motivo di ricorso, a pagina 15, si riporta quanto affermato dal CTU a pagina 125, e quindi che «in seguito, poi, all’inizio dei lavori sono intervenuti problemi con alcuni tubi di adduzione che sono stati tranciati. Sono state riscontrate otturazioni degli impianti di irrigazione. Insomma, nei fatti l’azienda non ha più potuto essere irrigata. Il sistema di irrigazione dell’intera azienda agraria era costituito e basato su di uno schema ad anello che si dipartiva dai pozzi diramandosi in tutta l’azienda in modo circolare».
Sempre ad evidenziare l’unitarietà aziendale nel motivo di ricorso per cassazione, a pagina 15, si riportano anche ulteriori affermazioni
del CTU, indicate nelle pagine 103,100 e 105, ove si chiarisce in modo inoppugnabile che «sull’area insistono le seguenti costruzioni cabina elettrica con quadri elettrici di comando Sull’intera azienda agricola esiste un sistema di filtraggio delle acque l’azienda è titolare di quattro contratti Enel per uso irriguo Vasca di raccolta acqua In funzione di tutto questo, l’importanza dei terreni in oggetto per tutta l’azienda agricola diventa fondamentale, poiché essi di fatto, ricoprivano un ruolo primario e finalizzato alla gestione economico produttiva e quindi all’esercizio di tutta l’azienda».
Sempre nel motivo di ricorso per cassazione, a pagina 16 ed a pagina 17 del ricorso, si riportano stralci della CTU (pag. 136), da dove emerge continuamente il richiamo all’unitarietà aziendale, con la precisazione per cui «per la determinazione del valore di mercato della proprietà rimasta in ditta, in seguito all’esproprio, occorre premettere che d) il sistema irriguo dell’intera azienda agraria che si ripartiva dai pozzi ubicati nella zona posta a nord dell’azienda, e che con uno schema ad anello andava a raggiungere e quindi ad irrigare tutta la vegetazione arborea presente nell’azienda, a causa dell’immissione in possesso dei predetti pozzi da parte dell’ente espropriante, conducendo quindi l’intera azienda nell’impossibilità di essere produttiva e quindi compromettendo nella sua redditività; e) le particelle facenti parte dell’azienda residua, sulle quali insistevano agrumeti e frutteti produttivi, dovranno essere in massima parte espiantati e reimpiantati», con la precisazione per cui l’espropriazione ha comportato «un’interclusione di alcune particelle rimaste in proprietà attorea. Più precisamente, le particelle che risultano ubicate a nord del tracciato autostradale. Detta interclusione, viene così configurata: gli attori, per poter giungere alla particella 280 (ex particella 24) ed alla particella n. 282 (ex
particella 72), devono obbligatoriamente percorrere le superfici che sono state oggetto di esproprio che sono in ditta RAGIONE_SOCIALE e che si trovano nel lato nord e nel lato sud del tracciato autostradale»
Per il CTU, dunque, la diminuzione di valore di dette particelle coincide esattamente con la totale perdita di valore di mercato, non potendo le stesse essere apprezzare dal mercato in mancanza assoluta di domanda delle stesse nelle condizioni attuali.
Senza che si possa dimenticare anche quanto affermato dal tribunale di Reggio Calabria nel procedimento n. 2955 del 2003, con la sentenza n. 806 del 2014, per cui l’interclusione delle due particelle non dipende dall’attività materiale di esecuzione dei lavori ma dall’esproprio parziale delle particelle del COGNOME. Pertanto «i profili irreversibili di danno subiti dalla parte residua della proprietà a seguito dell’interclusione della medesima dopo l’espropriazione, non possono che trovare riconoscimento nei concetti di occupazione e di espropriazione parziale ed hanno diritto ad un’unica indennità».
Neppure è condivisibile l’affermazione dell’Anas per cui sarebbe ancora possibile provvedere alla sistemazione dell’impianto irriguo, sicché non vi sarebbe una perdita di valore definitiva dell’area rimasta in proprietà degli attori.
Infatti, sul punto è sufficiente osservare che due pozzi, fondamentali per l’emungimento delle acque e per la distribuzione idrica a tutta la porzione residua, sono in realtà su due fondi del tutto interclusi ed irragiungibili; sicché anche provvedendo al rifacimento complessivo dell’impianto idrico ad anello, mancherebbe l’acqua derivante dai pozzi ubicati sui fondi integralmente interclusi.
Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la «violazione a 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in relazione all’art. 40 del d.p.r. n. 327 del 2001, in relazione all’applicazione della maggiorazione dell’indennità ai ricorrenti quali imprenditori agricoli».
La Corte d’appello ha escluso la sussistenza dei requisiti per riconoscere agli attori il compenso aggiuntivo relativo alla coltivazione dei terreni in forma diretta. Ciò ha fatto, sia in assenza della prova della qualifica di coltivatore diretto in capo a NOME COGNOME e da NOME COGNOME, sia perché l’attività non è esercitata con «il lavoro diretto prevalente».
Per i ricorrenti, invece, che sono imprenditori agricoli, la maggiorazione sarebbe comunque dovuta, proprio in relazione a tale qualifica.
Dovrebbe cioè trovare applicazione l’art. 40 del d.P.R. n. 327 del 2001 che ha abrogato le norme precedenti.
Trattasi di una norma che disciplina le modalità di liquidazione dell’indennità di esproprio e, dunque, deve essere applicata ai procedimenti in corso.
Del resto, tale norma era vigente al momento in cui è stato emesso il decreto di determinazione della stima provvisoria.
8.1. Il motivo è infondato.
Trova applicazione, infatti, nella fattispecie in esame l’art. 17 della legge n. 865 del 22/10/1971, vigente ratione temporis .
L’art. 17 della legge 22/10/1971, n. 865, stabilisce, al primo comma, che «nel caso che l’area da espropriare sia coltivata dal proprietario diretto coltivatore, nell’ipotesi di cessione volontaria ai sensi dell’art. 12, primo comma, il prezzo di cessione è determinato in misura tripla rispetto all’indennità provvisoria, esclusa la maggiorazione prevista dal suddetto articolo».
Pertanto, al proprietario coltivatore diretto non spetta una indennità aggiuntiva, ma la disposizione si limita, nell’ipotesi di cessione volontaria, ad aumentare il prezzo di cessione in misura tripla rispetto all’indennità provvisoria.
Successivamente, la giurisprudenza di legittimità ha esteso l’aumento del prezzo anche alle ipotesi di perdita del terreno in virtù di decreto di esproprio o di occupazione espropriativa, non limitandolo più esclusivamente all’ipotesi della cessione volontaria del cespite (di recente Cass., sez. 1, 3/10/2024, n. 25972).
Questa Corte ha chiarito, con varie pronunce, la natura di coltivatore diretto, che consente la liquidazione dell’indennità aggiuntiva in favore dei soggetti non proprietari, operando una distinzione rispetto alla qualifica di imprenditore agricolo, cui non spetta tale indennità (Cass., n. 25972 del 2024).
9.1. Si è, infatti, escluso dal novero dei soggetti aventi diritto all’indennizzo aggiuntivo di cui all’art. 17 della legge n. 865 del 1971, l’imprenditore agricolo, il quale esercita la coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale sul lavoro e con impegno prevalente di manodopera subordinata, senza che tale esclusione possa ritenersi in contrasto con il principio di uguaglianza, avuto riguardo alla differenza esistente tra il predetto ed i soggetti menzionati dall’art. 17 della legge n. 865 del 1971 (Cass., sez. 1, 31/7/2019, n. 20658: che richiama Cass. n. 3706 del 24/2/2015; Cass., n. 12306 del 15/5/2008; Cass. n. 2477 del 19/2/2003).
Nella giurisprudenza più datata, la nozione di imprenditore agricolo viene rinvenuta nel combinato disposto degli articoli 2083, 2135 e 2751bis c.c., trascurando altre definizioni ad efficacia settoriale.
L’elemento qualificante della coltivazione diretta sussiste, invece, in tutte quelle ipotesi in cui la coltivazione del fondo da parte del titolare avviene con la prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia, in presenza di uno dei rapporti agrari tipici previsti dalla norma, con onere della prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., a capo
del soggetto che intende trarre conseguenze favorevoli (Cass., n. 11013 del 2013; anche Cass., sez. 1, 12/12/2002, n. 17714).
Resta escluso dal novero degli aventi diritto l’imprenditore agricolo, ossia colui che eserciti la coltivazione e la produzione agricola professionalmente mediante coordinamento dei fattori della produzione ex art. 2082 c.c., e non svolga dunque attività di diretta utilizzazione agraria del terreno (Cass., sez. 1, 19/2/2003, n. 2477).
Si è inoltre chiarito che tale ragionamento, se vale per l’imprenditore individuale, a maggior ragione deve valere quando il soggetto sia costituito in forma di società commerciale.
Nessun dubbio con riferimento alle società di capitali, munite di personalità giuridica e costituenti, perciò, enti del tutto distinti dalle persone dei soci, ma ad analoghe conclusioni deve giungersi per le società commerciali costituite in forma di società di persone, perché anche tali organismi, ancorché privi di personalità giuridica, sono soggetti di diritto distinte le persone dei soci, (Cass., sez. 1, 19/2/2003, n. 2477).
La qualità di imprenditore agricolo deve, invece, essere provata dal convenuto che la invochi in via di eccezione (Cass., sez. 1, 15/5/2008, n. 12306).
10. Solo con l’art. 40, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001 si è previsto che «al proprietario coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale spettano indennità aggiuntiva, determinata in misura pari al valore agricolo medio corrispondente al tipo di colture effettivamente praticate».
Tale norma, però, non può essere utilizzata per fattispecie ricadenti nel regime normativo anteriore al d.p.r. n. 327 del 2001. Infatti, in tema di espropriazione per pubblica utilità, ai fini della individuazione della disciplina applicabile si applica alle controversie il regime giuridico previgente al d.lgs. n. 327 del 2001, in caso di
dichiarazione di pubblica utilità intervenuta prima del 30 giugno 2003 (Cass., Sez.U., 12/1/2023, n. 651).
Ed infatti, nei giudizi aventi ad oggetto la determinazione dell’indennità di espropriazione, relativi a procedimenti in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata emessa prima del 30 giugno 2003, data di entrata in vigore del d.P.R. n.327 del 2001, opera la disciplina transitoria prevista dall’art. 57 dello stesso d.P.R., secondo cui le disposizioni del testo unico non si applicano ai progetti edilizi per i quali, alla data di entrata in vigore del decreto, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, cui continuano invece ad applicarsi tutte le normative vigenti a quella data (Cass., sez. 1, 6/9/2019, n. 22373).
Nella specie, la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dei lavori è stata effettuata dall’Anas con delibera n. 365 del 24/12/1999, mentre la Prefettura di Reggio Calabria con decreto n. 364 del 6/6/2000 ha autorizzato l’occupazione temporanea.
11. Con il quarto motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la «violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in relazione all’art. 324 c.p.c. in materia di giudicato, con conseguente errata indicazione del prezzo di esproprio, nonché in relazione alla violazione dell’art. 40 della legge 2359/1865 e 40 d.P.R. 327 del 2001 sempre in relazione alla determinazione del prezzo di esproprio».
La Corte d’appello ha fatto proprie le risultanze della CTU, evidenziando che era eccessivo «oltre che non adeguatamente riscontrata con dati oggettivi il maggior valore di euro 6,00/mq specificamente invocato da parte attrice in sede di comparsa conclusionale».
Tale affermazione sarebbe erronea in quanto la sentenza del Consiglio di Stato n. 978 del 2012, affermato che « valore venale
degli immobili, considerando come congruo e ragionevole il prezzo di euro 6,00 per metro quadrato (somma dichiarata dall’appellante non contestata) ».
Per la Corte d’appello tale statuizione non sarebbe utilizzabile in quanto tale decisione sarebbe stata emessa, incidentalmente, in altro giudizio.
Per il ricorrente, invece, tale decisione sarebbe stata emessa nel giudizio di opposizione all’esproprio, svoltosi tra le stesse parti, con l’autorità decidente che ha accolto, parzialmente, il ricorso proprio in relazione ad una statuizione relativa alla determinazione del valore del terreno, fini dell’esproprio.
Si tratterebbe di decisione assunta dal giudice amministrativo, «vincolante nel presente giudizio, in quanto è suscettibile di formare cosa giudicata, in tutte le sue componenti essenziali ed opponibili, cosicché la determinazione del valore del terreno, costituisce un elemento essenziale, coperta dal giudicato che deve essere applicato».
Il motivo è infondato, ma va corretta la motivazione, tenendo conto dei limiti oggettivi del giudicato effettivamente formatosi.
12.1. A prescindere dalla circostanza che i ricorrenti neppure hanno trascritto la motivazione della sentenza del Consiglio di Stato citata, tuttavia il giudice amministrativo ha dichiarato l’illegittima del provvedimento di proroga del termine di occupazione, di cui al decreto n. 28709 del 9/12/2004. Il termine quinquennale scadeva il 18/8/2005, mentre con tale provvedimento il termine è stato prorogato sino al 22/11/2005, con un’occupazione illecita e produttiva di danno esclusivamente per i tre mesi successivi al 18/8/2005.
Per tale ragione, il Consiglio di Stato ha quantificato «in via equitativa» nella misura degli interessi legali su una somma pari al
valore venale degli immobili, «considerando come congruo e ragionevole il prezzo di euro 6,00 per mq. (Somma dichiarata dall’appellante non contestata) per un risultato finale di euro 867,04 a favore di NOME NOME di euro 70,00 a favore di NOME NOME».
L’odierno giudizio, però, non ricade nei limiti oggettivi del quel giudicato; mentre il presente giudizio è relativo alla determinazione del controvalore per un atto lecito della PA, l’accertamento del giudicato amministrativo è relativo ad un fatto illecito, al quale non può estendersi la problematica del giudicato esterno, che presuppone la distinzione (propria dell’ambito negoziale) fra un rapporto fondamentale e la singola coppia diritto/obbligo, perché nel fatto illecito i relativi elementi (causalità, requisito soggettivo, danno) sono allineati sullo stesso piano e dunque concernono solo la fattispecie oggetto di giudizio.
13. La sentenza impugnata deve, dunque, essere cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie i motivi primo e secondo di ricorso; rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata in ordine motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Il Presidente NOME COGNOME