Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 31365 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 31365 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 17335/2019 r.g. proposto da:
Gentile NOME COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, la prima anche in proprio e tutti nella qualità di eredi di COGNOME NOME, deceduto il 9/2/2009, tutti rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura speciale in calce al ricorso, i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni e notifiche agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati.
-ricorrenti –
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura speciale in calce al controricorso, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni presso l’indirizzo di posta elettronica certificata indicato, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli n. 1808/2019 , depositata in data 1/4/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/11 /2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
COGNOME NOME e sua moglie NOME COGNOME convenivano dinanzi al tribunale di Nola le Ferrovie dello Stato (FFSS) al fine di accertare il loro diritto alla corresponsione di un’indennità ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865, ora art. 44 del d.P.R. n. 227 del 2001, non solo con riferimento al deprezzamento del fabbricato di loro proprietà, a seguito delle immissioni rumorose, ma anche per le conseguenze alla loro salute, a seguito dell’esecuzione del raddoppio ferroviario della linea Cancello-Sarno. Chiedevano, inoltre, accertarsi l’illegittimità della servitù costituita da RAGIONE_SOCIALE sul fondo a seguito dell’allocazione delle linee elettriche «invadenti i confini della latistante proprietà attorea».
In particolare, gli attori deducevano di essere proprietari di un fabbricato, a seguito di atto di donazione del 30/6/1956, nonché di successiva cessione del 14/9/1988.
Aggiungevano che avevano stipulato il 4/6/1992 con le FFSS un atto di cessione volontaria parziale con riferimento a mq 41 del complessivo fondo di mq 80, «destina a giardino» (vedi sentenza
d’appello, pag. 2), sul quale era stato complessivamente imposto vincolo espropriativo.
In precedenza, era stata stipulata il 18/5/1992 transazione tra le parti, con cui si era convenuto di restituire mq 39 di terreno e l’utilizzo per la realizzazione dell’opera pubblica di soli 41 mq, con il pagamento della somma di lire 5.792.000, relativi al prezzo di cessione di mq 41 e all’indennità di occupazione temporanea per la parte restituita di mq 39, oltre che per l’area di 41 mq.
La cessione volontaria parziale era stata stipulata «a misura».
Gli attori, proprietari del fabbricato contiguo al fondo, con autonoma identificazione catastale, «non insistente sul solo espropriato né su quello restituito», richiedevano per tale fabbricato un’indennità ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865, in conseguenza dell’intollerabilità dell’inquinamento acustico, «vibrazionale e magnetico», richiamando l’art. 844 c.c.
3.1. Inoltre, gli attori chiedevano il risarcimento dei danni per l’imposizione, non supportata da alcun titolo, «del posizionamento di linee elettriche aeree proiettate sul confine attoreo».
Si costituivano in giudizio le FFSS evidenziando che NOME COGNOME aveva richiesto ed ottenuto «l’autorizzazione a costruire in deroga alle distanze alla linea ferroviaria una cassa scala e un balcone delle primo piano», impegnandosi «a sollevare le Ferrovie dello Stato da qualsiasi molestia e pretesa in relazione alla vicinanza dell’esercizio ferroviario», risultando così improponibili le domande formulate.
In relazione alle linee elettriche le FFSS rilevavano che «le stesse non invadevano il confine attoreo, risultando contenute tutte all’interno della proprietà delle ferrovie».
In relazione al superamento dei limiti di rumorosità le stesse stavano «predisponendo misure atte a temperare ed abbattere il rumore».
Venivano espletate tre CTU, con accertamento del superamento dei limiti di inquinamento acustico sia per il diurno che per il notturno. Nella prima CTU (NOME COGNOME) veniva determinato il deprezzamento del fabbricato nella misura del 12%, mentre nella seconda CTU (arch. COGNOME) veniva individuato nel 30%.
Il CTU determinava il danno biologico subito dagli attori nella misura di «4-5 punti percentuali».
Con la sentenza non definitiva n. 1449 del 2013, pubblicata il 14/5/2013, il tribunale di Nola rigettava le domande proposte dagli attori di corresponsione dell’indennità ai sensi dell’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, e di declaratoria di illegittimità della servitù costituita dalla collocazione delle linee elettriche. Venivano respinte anche le domande di risarcimento del danno per la presenza di linee elettriche per diminuito valore commerciale dell’immobile.
Inoltre, il primo giudice qualificava la domanda come danno alla salute, ai sensi dell’art. 2043 c.c., disponendo un ulteriore accertamento peritale invitando il CTU ad eseguire un «rilievo fonometrico per 24 ore consecutive», soprattutto nelle stanze adibite a camera da letto.
In particolare, il tribunale evidenziava che l’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, doveva essere interpretato alla stregua della cessione parziale dell’immobile intervenuta il 4/6/1992.
Infatti, i proprietari avevano ricevuto dalla cessione parziale del fondo il pagamento del prezzo convenuto, non potendo «pretendere indennità ulteriori per danni alla residua proprietà invocando l’art. 46 legge citata».
A meno che la realizzazione dell’opera pubblica «non avesse integrato gli estremi del fatto costitutivo di responsabilità aquiliana».
Chiariva il primo giudice che l’indennità di cui all’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 era riferibile «ai soli proprietari dei fondi contigui a quello espropriato, estranei alla procedura ablatoria i quali avevano comunque risentito di un danno in dipendenza dell’esecuzione dell’opera pubblica».
Gli attori avevano stipulato atto di cessione volontaria «di parte del proprio terreno», sicché alcun indennizzo ulteriore era loro dovuto, mentre gli stessi nel medesimo atto di cessione «avevano dichiarato di rilasciare ampia e finale quietanza di saldo dichiarando, ora per allora, di non avere altro a che pretendere dall’ente RAGIONE_SOCIALE per la convenuta cessione dell’immobile oggetto del presente atto».
Inoltre, il giudice qualificava la domanda ex art. 2043 c.c., in relazione al danno alla salute, reputando utilizzabile «la normativa usualmente applicata nei rapporti tra privati».
Il danno veniva riconosciuto esclusivamente con riferimento alla salute, mentre la domanda risarcitoria di diminuzione del valore commerciale dell’immobile «oltre che implicitamente rinunciata, si atteggiava infondata», proprio in relazione alla cessione volontaria di porzione dell’immobile.
Con la sentenza definitiva n. 1671 del 5/6/2015 il tribunale, in parziale accoglimento delle domande attoree, condannava le FFSS al pagamento in favore di NOME COGNOME dell’importo liquidato all’attualità e comprensivo di accessori fino alla sentenza per euro 5500,00.
Condannava, poi, le FFSS in favore di NOME COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME
NOMECOGNOME quali eredi di COGNOME Sebastiano, al pagamento dell’importo di euro 2000,00, liquidato all’attualità.
In motivazione si evidenziava che dalla CTU era emerso il superamento del livello di ‘normale accettabilità’, ovvero il superamento del differenziale notturno, di cui al DPCM 1/3/1991 ed alla legge n. 447 del 26/10/1995. Inoltre, con riferimento alla ‘normale tollerabilità, il CTU aveva rilevato un superamento del limite di incremento del rumore di fondo.
Veniva accertato anche il superamento dei limiti di inquinamento acustico di cui al d.P.R. n. 459 del 2018.
Proponevano appello gli attori, insistendo, con il primo motivo, per la richiesta di riconoscimento del diritto all’indennità ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865.
Il tribunale avrebbe fatto riferimento alle regole valide in caso di espropriazione parziale, mentre nella specie era «stato espropriato solo un fondo di mq 41, di proprietà dell’Ardolino, avente un’autonoma identificazione catastale (catasto terreni, partita 6941, foglio 20, particella 321), con la destinazione orto irriguo». Al contrario, il fabbricato, pure di proprietà Ardolino-Gentile, non era «stato oggetto di esproprio», ed aveva una diversa identificazione catastale (catasto urbano, partita 2984, foglio 20, particelle 111, sub 1 e sub 2), «contiguo al fondo sul quale è stata realizzata l’opera pubblica».
Non era allora corretto ritenere che la cessione del fondo, unitamente alla dichiarazione di non avere null’altro a che pretendere dai cedenti, avesse «riguardato anche la questione oggetto di esame, che non attiene al fondo, ma al fabbricato».
Del resto, il fabbricato avrebbe riportato un danno non per il distacco della parte di fondo su cui era stata realizzata l’opera
pubblica, ma «proprio dall’opera medesima», dovendo competere agli attori l’indennizzo di cui all’art. 46 della legge n. 2359 delle 1865.
Si ribadiva che la quietanza liberatoria era limitata ai danni relativi al fondo espropriato, e non invece al fabbricato, trattandosi di due beni differenti.
8.2. Con il secondo motivo di impugnazione gli appellanti imputavano al tribunale di aver erroneamente valorizzato l’efficacia di una «rinunzia operata dall’Ardolino Sebastiano a richiedere danni, allorché avrebbe richiesto l’autorizzazione a costruire una cassa scala a distanza ridotta dalla linea ferroviaria».
Tale rinuncia era stata però formulata esclusivamente dall’COGNOME Sebastiano ed era specificamente finalizzata alla realizzazione in deroga alle distanze dalla sola cassa scala.
8.2. Con il terzo motivo di impugnazione gli appellanti si dolevano anche del fatto che il tribunale avesse in ogni caso ritenuto la domanda di risarcimento del danno «per il deprezzamento dell’immobile nuova o, addirittura, implicitamente rinunciata». Su tale deprezzamento, peraltro, erano state svolte due CTU.
8.4. Con il quarto motivo di impugnazione gli appellanti deducono l’errore del tribunale nella determinazione del quantum del danno, avendo omesso di quantificare «il danno morale e quello esistenziale».
8.5. Con il quinto motivo di impugnazione gli appellanti si dolevano anche delle spese poste a loro carico relative all’espletamento della seconda CTU (Arch. NOME COGNOME, in relazione all’accertato decremento di valore del fabbricato.
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 1/8/08 del 2019, depositata l’1/4/2019 rigettava, l’appello, trattando congiuntamente i motivi primo, secondo, terzo e quinto.
In particolare, trattavasi di «espropriazione parziale» che si configurava quando la parte espropriata e la parte non espropriata erano elementi di un «unitario complesso immobiliare», sotto il profilo «funzionale ed economico», e quando l’espropriazione di una parte, tuttavia, comportava «diminuzione di valore della residua porzione».
Sussisteva anche l’ulteriore presupposto dell’identità del proprietario.
Per la Corte territoriale era pacifico che «il terreno oggetto di esproprio ed il fabbricato contiguo appartenessero ai medesimi titolari».
Si evidenziava che in giurisprudenza era stata ricondotta all’espropriazione parziale anche quella di «un suolo antistante ad un’osteria di campagna o quella di una striscia di giardino che circonda una villa padronale».
Tra l’altro, si evidenziava anche che il deprezzamento del fabbricato era certamente imputabile al distacco dovendo considerarsi che «per effetto di ciò si è modificata la fascia di rispetto e vi è stata un’alterazione delle possibilità di utilizzazione ai fini abitativi del cespite rimasto nella disponibilità del proprietario, stante l’aumento di immissioni (tanto di rumori che di altro genere) superanti la normale tollerabilità» (si citava Cass., n. 20241 del 7/10/2016).
Per tale ragione, il tribunale aveva ritenuto applicabile alla fattispecie l’ulteriore principio di diritto, per cui l’indennità, e quindi anche il compenso accettato per la cessione volontaria di porzione dell’immobile, doveva tenere conto «di tutti i danni che incidono sulla parte residua del fondo, rimasta in proprietà del titolare assoggettato a provvedimento ablatorio, sia che traggano origine dall’espropriazione, sia che derivino dall’esecuzione dell’opera
pubblica o dall’esercizio del pubblico servizio cui l’opera sia destinata».
Pertanto, il proprietario, il quale abbia convenuto la cessione parziale del fondo, ricevendo il pagamento del prezzo convenuto, «non può pretendere indennità ulteriori per danni alla parte residua, invocando l’art. 46 legge 2359 del 1865» (si citava Cass., n. 4657 del 1997 e Cass., n. 4/2/01 del 2001).
Peraltro, le conclusioni non mutavano neppure ove l’indennizzo fosse quello di cui all’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, in quanto «in caso di cessione volontaria, è evidente che il compenso accertato per la cessione non può che tener conto di tutti i danni che incidono sul cedente, assoggettato al procedimento ablatorio».
Non era accoglibile neppure la richiesta degli appellanti in relazione all’indennizzo ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865, con riferimento alla richiesta di risarcimento «per la servitù e per il deprezzamento del fabbricato».
Infatti, ogni questione di responsabilità per colpa nei confronti della pubblica amministrazione era assorbita quando ricorrevano i presupposti di applicabilità dell’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 (si citava Cass., Sez.U., n. 2997 del 1009 62), trattandosi di norma speciale.
La Corte territoriale, poi, confermava la decisione del primo giudice in ordine alla quantificazione dei danni alla salute conseguenti alle immissioni sonore.
Trattavasi, infatti, di domanda risarcitoria fondata sugli articoli 2043 c.c. e 32 della Costituzione, «diversa rispetto a quella indennitaria di cui all’art. 46», essendo stati superati i limiti di tollerabilità delle immissioni sonore «sia riguardo al livello di normale accettabilità, sia prendendo a riferimento il concetto di normale tollerabilità».
La Corte territoriale dava atto che COGNOME NOME era deceduto dopo otto anni dalla proposizione del giudizio e che, al di fuori di NOME COGNOME, le altre parti si erano costituite nella sola qualità di eredi di NOME COGNOME e, di conseguenza, alcun danno poteva essere riconosciuto in proprio in favore degli stessi.
In ordine al quarto motivo di appello, la Corte evidenziava che il tribunale aveva correttamente operato una valutazione in via equitativa, in quanto «non è vero che in sede di CTU il danno alla salute patito dei ricorrenti sia stato puntualmente individuato», in considerazione del fatto che «il medico legale officiato dal CTU non ha visitato il ricorrente (essendo l’Ardolino deceduto) e si è limitato ad ipotizzare che ‘sul principio dell ‘id quod plerumque accidit (…) il danno biologico, in via equitativa e in accordo con gli attuali orientamenti, può essere valutato intorno ai 4-5 (…) punti percentuali’».
Del tutto corretto risultava dunque l’utilizzo di una «valutazione in via equitativa (come suggerito dallo stesso medico legale)».
Peraltro, neppure era «vero che nella fattispecie è emerso un superamento enorme delle singole soglie di tollerabilità», con la precisazione che gli attori si erano doluti «non già delle immissioni derivanti dal traffico ferroviario (essendo già da molto tempo confinanti con la linea ferroviaria, alla cui presenza erano verosimilmente abituati), bensì solo di quelli derivanti dal ‘raddoppio’ della linea e, quindi, all’aumento del traffico».
Tra l’altro, il tribunale aveva tenuto conto delle risultanze della relazione medico-legale, in quanto l’importo liquidato a titolo di danno biologico risultava in linea «con quello ipotizzato dal CTU (tenuto conto di 4 punti percentuali), secondo le tabelle del tribunale di Milano modificate nel 2009, salva la congrua decurtazione per l’Ardolino, deceduto già il 9/2/2009».
Peraltro, non era stata «sottoposta a visita neanche la Gentile», risultando dunque correttamente quantificato il danno «all’attualità», comprensivo di interessi e di rivalutazione.
Non era stata neppure provata la «cumulativa sussistenza» di danno morale ed esistenziale.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME la prima anche in proprio e tutti nella qualità di eredi di NOME COGNOME, depositando memoria scritta.
Ha resistito con controricorso la RAGIONE_SOCIALE depositando anche memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono « Error in iudicando art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Falsa applicazione della norma di cui all’art. 46 legge 2359/1865 il cui testo è riprodotto nell’art. 44 del d.P.R. n. 327/01 relativamente alla sua mancata applicazione alla fattispecie oggetto di causa congiuntamente al vizio pure connesso di falsa applicazione della suddetta previsione normativa nel senso di sua mancata applicazione in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta anche sotto il profilo della violazione dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
I ricorrenti non condividono l’affermazione della Corte d’appello per cui in caso di cessione volontaria parziale dell’immobile il compenso accertato per la cessione «non può che tener conto di tutti i danni che incidono sul cedente, assoggettato al procedimento ablatorio, sia che traggano origine dall’espropriazione, sia che derivino dall’esecuzione dell’opera pubblica o dall’esercizio del pubblico servizio cui l’opera sia destinata».
Ad avviso del ricorrente, invece, vi sarebbe stata una falsa applicazione dell’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, «nel senso di sua mancata applicazione».
La Corte d’appello si è limitata a reputare che la cessione avrebbe avuto ad oggetto esclusivamente la porzione di 41 mq, mentre ha omesso di ricostruire in fatto che «le ferrovie ebbero ad occupare 80 mq di fondo irriguo, di proprietà dei fratelli COGNOME NOME e COGNOME NOME e che a fronte degli 80 mq le ferrovie restituirono 39 mq poiché non asserviti all’opera pubblica».
L’espropriazione ha avuto ad oggetto «unicamente il fondo» e non il fabbricato, benché quest’ultimo pure di proprietà di «uno dei soggetti espropriati».
A giudizio della Corte territoriale, dunque, l’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 non sarebbe applicabile, sia perché richiedenti l’indennità sono i «soggetti espropriati», sia perché la cessione volontaria parziale (che peraltro ha previsto che l’indennità di esproprio fosse determinata «a misura») avrebbe comportato la rinuncia ad eventuali altre pretese, già ricomprese nell’indennità di esproprio.
Per i ricorrenti, invece, gli stessi «rispetto al fabbricato non sono soggetti espropriati», mentre l’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 è diretto alla tutela di soggetti che o sono rimasti totalmente estranei all’esproprio o hanno «subito un danno non per effetto della mera separazione (per esproprio) di una parte di suolo, ma in conseguenza dell’opera eseguita sulla parte espropriata e indipendentemente dall’espropriazione stessa».
In realtà, come emerge dall’atto pubblico di cessione del 14/9/1988 Ardolino Pasquale ha ceduto ad Ardolino Sebastiano la sua quota pari al 50% del fabbricato, sicché a quest’ultimo è stata «trasferita la proprietà di un bene già epurato dall’esproprio».
Inoltre, anche utilizzando l’orientamento giurisprudenziale per la onnicomprensività dell’indennità di esproprio, ricomprendente anche l’indennità di cui all’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, tuttavia ci si riferisce «ai danni al residuo», che nella fattispecie sono i metri quadrati 39 di fondo restituiti, non potendosi estendere anche all’indennità ex art. 46 «a meno che non sia espressamente contemplata».
Si precisa, poi, che non v’è stata «rinuncia dei ricorrenti ad esito della cessione volontaria di ulteriori poste», essendo erronea l’interpretazione della Corte di merito in ordine all’onnicomprensività dell’indennità di esproprio.
Del resto, il primo CTU, Ing. Isernia, ha determinato nel 12% il deprezzamento dell’immobile su un valore del fabbricato di euro 420.000,00, riducendola ad euro 353.000,00.
2. Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono «’Errori in iudicando violazione art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Errata e falsa applicazione della norma di cui all’art. 40 legge 2359/1865, relativamente alla sua applicazione ad una fattispecie estranea al suo ambito di previsione e/o comunque in assenza dei presupposti di legge congiuntamente al pure riscontrato vizio di errata e falsa applicazione della suddetta previsione normativa in ragione della carente, contraddittoria e illogica ricostruzione della fattispecie concreta anche sotto il profilo della violazione dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
In particolare, la Corte d’appello avrebbe «come petizione di principio» reputato sussistere un caso di espropriazione parziale.
Tuttavia, l’art. 40 della legge n. 2359 del 1865 è finalizzato alla «corresponsione di un’indennità di esproprio, ma con riferimento ad una procedura espropriativa attivata ab origine rispetto ad una porzione di bene, unitariamente collegata ad un’altra».
In realtà, nella fattispecie, le Ferrovie hanno occupato il fondo di proprietà di COGNOME NOME e di suo fratello COGNOME NOME di mq 80, e poi successivamente di tale estensione, hanno restituito 39 mq, poiché non asserviti all’opera pubblica, acquisendo, dunque, solo 41 mq di fondo.
Si sarebbe trattato, allora, di una «retrocessione parziale di un bene espropriato», quindi «non equiparabile ad un’ipotesi di esproprio parziale che fonda su diversi presupposti giuridici».
Doveva essere applicato, allora, l’art. 47 della legge n. 2359 del 1865.
È vero che prima della cessione del 4/6/1992, vi è stata una transazione del 18/5/1992, stipulata dalle parti, con la quale si provvedeva alla restituzione dei metri quadrati 41, pari alla porzione effettivamente occupata per il raddoppio della linea ferroviaria.
In tal caso, si è previsto che «la ditta COGNOME, con la sottoscrizione del presente atto, accetta la restituzione della superficie di 39 mq di terreno occupati a seguito del DOT del 22/12/1983 e ne entra fin d’ora nel pieno e formale possesso».
Tuttavia, da ciò emergerebbe che la fattispecie in esame «non può essere sussumibile nell’ipotesi di cui all’art. 40, con l’ineludibile inapplicabilità di tutto quanto ne discende».
Peraltro, NOME COGNOME sarebbe soggetto, comunque, estraneo alla procedura espropriativa, avendo acquistato, in qualità di coniuge in regime di comunione legale dei beni, con COGNOME NOME, «il fondo già epurato dalla parte espropriata».
Non sarebbe comunque condivisibile l’affermazione del giudice di secondo grado per cui «partendo da una premessa che si tratti di un esproprio parziale, fa discendere come conseguenza illogica che il danno al fabbricato deriverebbe dal distacco del fondo che avrebbe
comportato un avvicinamento di questo alla stazione ferroviaria, così da ridurne le capacità abitative».
Per il ricorrente, dunque, il procedimento espropriativo avrebbe «esaurito il suo percorso con la occupazione di un’estensione di mq 80 di fondo e con la restituzione di 39 mq e di acquisizione di mq 41, di talché alcuna rilevanza può avere avuto l’esaurito procedimento espropriativo rispetto al fabbricato che peraltro non insiste sul fondo espropriato così come su quello restituito».
Con il terzo motivo di impugnazione ricorrenti lamentano « Error in iudicando violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Errata e falsa applicazione della norma di cui all’art. 2043 c.c. in coordinato disposto con quella di cui all’art. 844 c.c. relativamente alla loro mancata applicazione alla fattispecie oggetto di causa, con riferimento al deprezzamento del fabbricato ed alla servitù imposta dall’opera pubblica congiuntamente al vizio pure connesso di erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta anche sotto il profilo della violazione dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
Il giudice d’appello ha ritenuto che era rimasta assorbita ogni questione di responsabilità per colpa nei confronti della pubblica amministrazione, ricorrendo i presupposti di applicabilità dell’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, «essendo questa norma speciale, dettata al fine di consentire l’indennizzo per i danni permanenti arrecati alla proprietà immobiliare non oggetto di espropriazione».
La Corte territoriale – a giudizio del ricorrente – «con percorso contraddistinto da contraddittorietà», pur ammettendo l’ammissibilità delle azioni ex art. 40 e 46 della legge n. 2359 del 1865, con quella di cui all’art. 2043 c.c., per alternatività, tuttavia non ne ha consentito l’ingresso «ritenendo che l’operatività di una fattispecie di esproprio parziale che identifica con quella larvata e la
corresponsione della rispettiva indennità e/o la sua rinuncia non ne consentirebbe l’ingresso».
Tuttavia, ribadiscono i ricorrenti, che il tenore testuale di cui all’art. 40 della legge n. 2359 del 1865, «inerisce il fondo espropriato e non invece quello non ablato», mentre solo l’art. 46 della medesima legge attiene alla proprietà rimasta fuori dall’espropriazione e «non può identificarsi affatto la fattispecie di esproprio parziale con quella di c.d. espropriazione larvata», sussumibile ai sensi dell’art. 46 citato.
La Corte di legittimità, infatti, non esclude nell’ipotesi anche di cessione parziale del fondo, la corresponsione di risarcimento ex art. 2043 c.c., quando «la realizzazione dell’opera pubblica abbia integrato gli estremi del fatto costitutivo di responsabilità aquiliana» (si cita Cass. n. 4657 del 1997).
Riguardo poi alla posizione delle linee elettriche, per i ricorrenti le stesse «sfuggono al procedimento espropriativo poiché non assistite da alcun titolo legittimante così che le stesse devono ritenersi delle servitù illecite».
Del resto, il muro delimitativo della proprietà delle RAGIONE_SOCIALE e della proprietà Ardolino, come emerge dalla transazione del 18/5/1992, poi trasfuso nell’atto di cessione volontaria, si trovava tra la sede FFSS e la proprietà degli attori (e non già sulla proprietà delle ferrovie), cosicché «le più vicine condotte aeree sono proiettate proprio sul suddetto muro determinando una violazione delle distanze legali e l’imposizione di una servitù», con deprezzamento del fabbricato, ai sensi dell’art. 2043 c.c.
I motivi primo, secondo e terzo, che vanno esaminati congiuntamente, per strette ragioni di connessione, sono infondati.
4.1. Questi in sintesi i fatti di causa.
Con provvedimenti n. 905 del 29/4/1983 e n. 2089 del 2/8/1985 si procedeva alla dichiarazione di pubblica utilità per il raddoppio della linea ferroviaria Cancello-Sarno.
L’espropriazione riguardava la superficie complessiva di mq 80 di proprietà dei fratelli NOME COGNOME e NOME COGNOME. Si trattava dell’area circostante il fabbricato, identificata con la particella n. 321 distinta in catasto rustico del Comune di Nola alla partita 36941 foglio n. 20.
Con atto del 14/9/1988 COGNOME NOME cedeva al fratello COGNOME NOME il cespite «fabbricato di antichissima costruzione, e quasi diruto, a seguito degli eventi sismici verificatisi dagli anni 62 al 1981 composto di due vani terranei, in ragione della metà».
Pertanto, COGNOME NOME diveniva unico titolare dell’immobile.
Successivamente veniva stipulata in data 18/5/1992 transazione tra l’Ente Ferrovie dello Stato e Ardolino Sebastiano, nella quale si dava atto che prima della scadenza del termine quinquennale per l’occupazione temporanea e prima dell’emissione del decreto di esproprio (allo stato non ancora intervenuto) era stata emessa sentenza dal pretore di Nola «che ha accertato l’irreversibile trasformazione degli 80 m quadri occupati per i lavori».
L’Ente Ferrovie dello Stato evidenziava di non aver alcun interesse ad acquisire la porzione di 39 metri quadrati di terreno («non è più oggetto di occupazione»), rispetto agli 80 metri quadrati occupati inizialmente.
Tra l’altro – si prevedeva nella transazione – «l’attuale muro di confine costruito tra la sede FS e la proprietà degli attori, prova inequivocabilmente l’esclusione dei 39 metri quadrati dalla superficie
effettivamente occupata, trasformata in maniera irreversibile in sede stabile della ferrovia».
Pertanto, l’indennizzo riguardava la sola parte effettivamente occupata pari a metri quadri 41 «come da tipo di frazionamento n. 6073».
Nella transazione, che prevedeva la corresponsione di un indennizzo quale prezzo di cessione volontaria della superficie di metri quadrati 41 di suolo, ed un altro per l’occupazione temporanea sia della superficie di metri quadrati 41 sia di quella di metri quadrati 39.
Peraltro, «la ditta proprietaria si dichiara completamente tacitata e soddisfatta di ogni suo diritto Di non avere più nulla a pretendere dall’Ente FS comprendendo, detta somma, il prezzo per la cessione di metri quadrati 41, l’indennità per l’occupazione temporanea della parte restituita, di metri quadrati 39 comprensivi di rivalutazione ed ogni altro aggiornamento monetario».
Successivamente in data 4/6/1992, in attuazione della transazione, si procedeva alla cessione parziale del fondo per metri quadrati 41. NOME COGNOME e la moglie NOME COGNOME «coniugati in regime di comunione dei beni», hanno ceduto in favore dell’Ente FFSS l’immobile «costituito da complessivi mq 41».
Con adeguato e sufficiente giudizio meritale la Corte d’appello ha reputato sussistere i presupposti dell’espropriazione parziale, in ragione dell’appartenenza della titolarità dell’intero fondo, sia di quello originariamente espropriato di mq 80, sia di quello su cui era costruito l’edificio, ai medesimi proprietari, oltre che per la riconosciuta sussistenza del nesso di unità funzionale ed economica tra i due fondi, in quanto il terreno costituiva la porzione collocata dinanzi al fabbricato.
5.1. L’art. 33, primo comma, del d.P.R. n. 327 del 2001 – che ha sostituito l’art. 40 della legge n. 2359 del 1865, del medesimo tenore – prevede (espropriazione parziale di un bene unitario) che ‘nel caso di esproprio parziale di un bene unitario, il valore della parte espropriata è determinato tenendo conto della relativa diminuzione di valore’.
Ai sensi dell’art. 40 della legge n. 2359 del 1865, infatti, «nei casi di occupazione parziale, l’indennità consisterà nella differenza tra il giusto prezzo che avrebbe avuto l’immobile avanti occupazione, ed il giusto prezzo che potrà avere la residua parte di esso dopo l’occupazione».
Per questa Corte l’espropriazione parziale si verifica quando la vicenda espropriativa investa parte di un complesso immobiliare appartenente allo stesso soggetto e caratterizzato da un unitaria destinazione economica ed inoltre implichi per il proprietario un pregiudizio diverso da quello ristorabile mediante l’indennizzo calcolato con riferimento soltanto alla porzione espropriata, per effetto della compromissione o comunque dell’alterazione delle possibilità di utilizzazione della restante porzione e del connesso deprezzamento di essa (Cass., sez. 1, 12 giugno 2012, n. 9541; Cass., sez. 1, 15 luglio 2020, n. 15040; Cass., sez. 1, 15 settembre 2021, n. 25005, che applica l’istituto esclusivamente ai fondi frazionati, poiché la diminuzione di valore è indennizzabile solo nel caso in cui sussista un rapporto immediato e diretto tra la parziale ablazione e il danno).
Due sono, dunque, i presupposti per l’applicazione dell’istituto dell’espropriazione parziale: la parte residua del fondo deve essere intimamente collegata con quelle espropriata da un vincolo strumentale ed obiettivo, tale da conferire all’intero immobile unità economica e funzionale; il distacco di una parte di esso influisce
oggettivamente in modo negativo sulla parte residua (Cass., sez. 1, 3 luglio 2013, n. 16616). Si è anche affermato che, in caso di terreno su cui insisteva un’azienda agricola, era applicabile l’istituto dell’espropriazione parziale solo se vi fosse stato un pregiudizio conseguente ad una diminuzione o perdita di un valore in precedenza proprio dell’immobile stesso, e direttamente ricavato dalla sua peculiare ed oggettiva destinazione agricola (Cass., sez. 1, 25 novembre 2010, n. 23967).
5.2. Nella specie, la Corte territoriale ha con chiarezza accertato che, non solo il terreno ed il fabbricato appartenevano ai medesimi titolari (NOME COGNOME ed NOME COGNOME, quale moglie, in regime di comunione legale dei beni), ma anche ricondotto la fattispecie all’espropriazione parziale, richiamando gli esempi del «suolo antistante ad un’osteria di campagna o quella di una striscia di giardino che circonda una villa padronale o, come nel caso, un fabbricato unifamiliare, abbia o meno questo i connotati della pertinenza di cui all’art. 817 c.c.».
Trattasi, dunque, di un giudizio fattuale, fondato sull’esame analitico degli elementi istruttori in atti, aderente alla giurisprudenza di legittimità richiamata, che non può essere ulteriormente oggetto di valutazione in questa sede.
Se, dunque, trattasi di espropriazione parziale, che ha riguardato solo una parte dell’intero compendio immobiliare, ancora occupato, per una parte di mq 39, restituiti, quale terreno, e per l’altra dal fabbricato, deve tenersi conto anche dell’atto di cessione volontaria parziale dei mq 41 di terreno, da parte degli originari attori NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Prima di addentrarci nell’esame della cessione volontaria parziale del terreno, è, però, necessario soffermarsi anche sull’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, che riguarda l’ipotesi
dell’espropriazione c.d. larvata, ossia relativa a terreni non oggetto di espropriazione, ma che appartengono a soggetti terzi, che, pur non essendo espropriati, subiscono pregiudizi dall’opera realizzata su terreni di altri.
Si reputa che la perdita di un’utilità in questa ipotesi prescinde da una formale espropriazione «ed anzi presuppone che non sia intervenuto esproprio e che il proprietario abbia conservato la titolarità dell’immobile» (Cass., sez., 3, 17/7/2024, n. 19806, in motivazione; Cass., sez. 1, 23/11/2015, n. 23865; Cass., sez. 1, 30/4/2014, n. 9488).
L’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 prevede che «è dovuta una indennità ai proprietari dei fondi, i quali dall’esecuzione dell’opera di pubblica utilità vengano gravati di servitù, o vengano a soffrire un danno permanente derivante dalla perdita o dalla diminuzione di un diritto».
Tale norma è stata trasposta nell’art. 44 del d.P.R. n. 327 del 2001, in base al quale «è dovuta una indennità al proprietario del fondo che, dalla esecuzione dell’opera pubblica o di pubblica utilità, sia gravato da una servitù o subisca una permanente diminuzione di valore per la perdita o la ridotta possibilità di esercizio del diritto di proprietà».
La disposizione, dunque, ricomprende due diverse ipotesi: quella dell’asservimento e quella della diminuzione di valore del bene derivante dalla perdita o dalla ridotta possibilità di esercizio del diritto di proprietà.
Il legislatore, quindi, ha ricompreso nell’ambito delle ablazioni reali non solo l’ipotesi della radicale espropriazione, ma anche le vicende che comprimono le facoltà insite nella proprietà, senza giungere all’azzeramento del diritto del proprietario.
La pretesa indennitaria di cui all’art. 46 della legge n. 2359 del 1865, si fonda sulla sussistenza di tre distinte condizioni:1) un’attività lecita della pubblica amministrazione (Cass., sez. 1, 16/5/1996, n. 4561; Cass., sez. 1, 23/7/1998, n. 7210; Cass., sez. 2, 20/8/1999, n. 8/8/02); 2) l’imposizione di una servitù o la produzione di un danno permanente consistente nella perdita o diminuzione di un diritto; 3) il nesso di causalità tra l’esecuzione dell’opera pubblica e il danno (Cass., sez. 1, 12/12/1996, n. 11080).
In giurisprudenza si è ritenuto che il diritto all’indennizzo non è operativo nell’ipotesi in cui l’esecuzione dell’opera pubblica costituisca un fatto illecito nei confronti del danneggiato (Cass., sez. 1, 30/3/1979, n. 1833).
Inoltre, il danno permanente va inteso non già nel senso che deve essere perpetuo ed irreparabile, ma nel senso che deve essere non transitorio, cioè che deve avere una durata uguale a quella della situazione di fatto creata dall’opera pubblica (Cass., n. 1833 e 1979). Il requisito della permanenza del danno sussiste anche qualora non vi siano elementi per ritenere che la deminutio del diritto sia temporanea (Cass., sez. 3, 3/7/2014, n. 15223).
La nuova norma, che non è ovviamente applicabile alla fattispecie ratione temporis , ha previsto, in luogo del ‘danno permanente’ la ‘permanente diminuzione del valore’.
Proprio la deminutio del valore ‘d’uso’ o ‘di scambio’ del bene oggetto del diritto di proprietà, conseguente alla esecuzione dell’opera pubblica, integra gli estremi dell’espropriazione larvata, suscettibile di tutela indennitaria (Cass., sez. 2, 20/8/1999, n. 8802).
La sfera dominicale, dunque, pur non essendo scalfita sotto il profilo dell’integrità materiale, restando il bene nella disponibilità del proprietario, rimane però compressa sotto il profilo delle facoltà ad
essa strettamente connesse. Tanto è vero che è indennizzabile anche il danno che si produce periodicamente o a intervalli (Cass., Sez.U., 29/10/1992, n. 11782; più recentemente Cass., sez. 1, 12/3/2020, n. 7112).
Sorge a questo punto la necessità di distinguere l’espropriazione parziale di cui all’art. 40 della legge n. 2359 del 1865 (ora art. 33 del d.P.R. n. 327 del 2001) da quella larvata di cui all’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 (ora art. 44 del d.P.R. n. 327 del 2001).
8.1. Per questa Corte l’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 (espropriazione larvata) non richiede necessariamente che la situazione contemplata venga a determinarsi in conseguenza di un procedimento espropriativo o di occupazione, ma è diretta alla tutela di soggetti che (quand’anche un procedimento espropriativo vi sia stato) o ne siano rimasti completamente estranei (in quanto proprietari di suoli contigui a quelli sui quali è stata eseguita l’opera) o abbiano subito un danno non per effetto della mera separazione (per esproprio) di una parte di suolo, ma in conseguenza dell’opera eseguita sulla parte espropriata ed indipendentemente dall’espropriazione stessa (Cass., sez. 1, 29/11/2000, n. 15305).
Pertanto, si è precisato che l’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 (espropriazione larvata) non costituisce né una ripetizione, né un’integrazione di quella di cui all’art. 40 della stessa legge (espropriazione parziale), ma sancisce il principio in base al quale chi esegue un’opera di pubblica utilità deve indennizzare i singoli proprietari che da quell’esecuzione abbiano subito un certo tipo di pregiudizi, a prescindere dal fatto che parte dei loro immobili siano stati espropriati per l’esecuzione dell’opera (Cass., n. 15305 del 2000).
L’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 prende in considerazione solo i terzi estranei alla vicenda ablatoria, mentre, nei confronti del soggetto espropriato, ogni indennizzo conseguente all’evento espropriativo per atti legittimamente compiute dalla PA, tanto nella fase di espropriazione che in quella di esecuzione dell’opera, viene ricondotto e deve essere ricompreso nell’indennità di esproprio. La quale, nel caso di espropriazione parziale, corrisponde ex art. 40 della legge n. 2359 del 1865, alla differenza tra il giusto prezzo che avrebbe avuto l’intero immobile prima dell’occupazione e il giusto prezzo che potrà avere la parte residua dopo l’occupazione. In tal modo inglobando tale indennità sia il ristoro della perdita del diritto dominicale sulla parte espropriata sia il ristoro della diminuzione di valore, per ogni aspetto, del fondo residuo (Cass., sez. 1, n. 4/2/01 del 2001).
Inoltre, si è precisato che, in tema di espropriazione, l’indennizzo di cui agli artt. 46 della l. n. 2359 del 1865 e 44 del d.lgs. n. 327 del 2001 spetta se l’opera pubblica abbia realizzato una significativa compressione del diritto di proprietà conseguente alla riduzione della capacità abitativa, che può verificarsi sia per effetto di immissioni intollerabili di rumori, vibrazioni, gas di scarico e simili, sia in tutti i casi in cui il bene subisca un’oggettiva ed apprezzabile riduzione della luminosità, panoramicità e godibilità, purché idonea a tradursi in una altrettanto oggettiva riduzione del suo valore economico (Cass., sez. 1, 26/5/2017, n. 13368; Cass., sez. 1, 25/9/1990, n. 9693; anche Cass., sez. 1, 9/9/2004, n. 18172; Cass., sez. 2, 9/3/1988, n. 2366).
Non va dimenticato, poi, che all’indennizzo per l’irreversibile diminuzione del godimento di un immobile, per effetto di immissioni intollerabili che siano dovute ad un’opera pubblica ed alla attività pubblicistica ad essa connessa e che risultino di durata
prevedibilmente ” sine die “, va applicata la disciplina dell’art. 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (” ratione temporis ” applicabile ed ora sostituito dall’art. 44 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327), e non l’art. 844 cod. civ., cui può farsi rinvio solo al fine dell’apprezzamento della intollerabilità delle immissioni, che ha carattere speciale rispetto a quella codicistica, in ragione della qualità pubblica dei soggetti che interferiscono con la proprietà e alla natura e finalità pubblicistica dell’attività posta in essere e, dunque, della riconducibilità della fattispecie alla dinamica delle relazioni autorità-libertà e non a quella dei rapporti tra privati (Cass., sez. 3, 3/7/2014, n. 15223).
Con la precisazione che l’indennizzo spetta in tutti i casi in cui il bene subisca un’oggettiva e apprezzabile riduzione della luminosità, panoramicità e godibilità, purché idonea a tradursi in una oggettiva riduzione del suo valore economico (Cass., sez. 1, 3/7/2013, n. 16619).
Tuttavia, nella specie, v’è stata cessione parziale dell’area, a seguito di espropriazione parziale della stessa, in quanto gli attori erano proprietari di un fondo di dimensioni ben più consistenti della parte espropriata, pari a metri quadrati 80.
In sostanza, sull’intero fondo, occupato per una parte (mq 80) dal terreno e per l’altra dal fabbricato, si è proceduto all’espropriazione parziale, prima della superficie di mq 80, successivamente ridotta mq 41, con restituzione di mq 39, mentre il fabbricato – ed il terreno sul quale sorgeva – non è stato interessato dall’espropriazione.
Pertanto, è stata correttamente valorizzata dalla Corte territoriale la giurisprudenza di questa Corte per cui nel caso di espropriazione parziale, l’indennità (e dunque anche il compenso accettato per la cessione volontaria, che in quanto negozio di diritto pubblico deve produrre risultati non diversi dall’espletamento del
procedimento espropriativo) deve tener conto di tutti i danni che incidono sulla parte residua del fondo, rimasta in proprietà del titolare assoggettato al provvedimento ablatorio, sia che traggano origine dall’espropriazione, sia che derivino dall’esecuzione dell’opera pubblica o dall’esercizio del pubblico servizio cui l’opera sia destinata. Ne consegue che il proprietario, il quale abbia convenuto la cessione parziale del fondo, ricevendo il pagamento del prezzo convenuto, non può pretendere indennità ulteriori per danni alla parte residua, invocando l’art. 46 legge 2359 del 1865, a meno che la realizzazione dell’opera pubblica non abbia integrato gli estremi del fatto costitutivo di responsabilità aquiliana (Cass., sez. 1, 26/5/1997, n. 4657).
Si è, infatti, ritenuto che «naturalmente è sempre fatta salva, in ragione del permanere del dovere di osservanza del fondamentale principio del neminem laedere , la risarcibilità dei danni derivati a terreni o cose di privati espropriati, in conseguenza dell’inosservanza, nell’esecuzione dell’opera pubblica del dovere di osservare quelle specifiche norme di prudenza e diligenza poste a tutela dell’integrità dell’altrui patrimonio».
Si è successivamente confermato che nei confronti del soggetto espropriato, ogni indennizzo conseguente all’evento espropriativo, per atti legittimamente compiuti dalla P.A., tanto nella fase di esecuzione dell’opera che in quella di esercizio di pubblico servizio cui l’opera è destinata, viene ricondotto e deve essere ricompreso nell’indennità di esproprio, senza che residui spazio per l’applicazione dell’art. 46 della legge n. 2359 del 1865. Di conseguenza, detta norma risulta riferibile solo ai proprietari dei fondi contigui a quello espropriato (a soggetti, cioè, estranei alla procedura ablatoria), i quali abbiano comunque risentito un danno e siano risultati gravati di servitù in dipendenza dell’esecuzione dell’opera pubblica – nella
specie, la SRAGIONE_SOCIALE ha confermato la sentenza impugnata che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta contro l’ANAS da un privato, il quale, avendo subito l’espropriazione di parte del suo fondo per la realizzazione di una strada, lamentava danni al resto del fondo rimasto in sua proprietà, derivanti dalla realizzazione dell’opera pubblica (Cass., sez. 1, 17/5/2000, n. 6388).
10. Nella specie, dunque, la Corte d’appello, con piena valutazione di merito, ha ritenuto sussistere gli estremi dell’espropriazione parziale, applicando, di conseguenza, la giurisprudenza di legittimità in tema di cessione parziale del bene, con inclusione nell’indennizzo pagato anche dei pregiudizi relativi alla porzione di immobile rimasto in proprietà dell’espropriato.
La Corte di merito ha ritenuto che la PA abbia espropriato inizialmente metri quadrati 80 della più ampia superficie che ricomprendeva anche quella su cui era stato realizzato il fabbricato, con restituzione successiva di metri quadrati 39, rispetto ai metri quadrati 80, con definitiva acquisizione da parte delle FFSS, a seguito della transazione del 18/5/1992, di mq 41.
Tra l’altro, la Corte d’appello, per escludere il deprezzamento del fabbricato costruito sulla porzione di fondo contigua a quella espropriata, pur nelle limite di mq 39, in luogo dei precedenti 80, ha anche chiarito che tale deprezzamento «è certamente imputabile al distacco – in aggiunta alla realizzazione del raddoppio della linea ferroviaria -, considerato che per effetto di ciò si è modificata la fascia di rispetto e vi è stata un’alterazione delle possibilità di utilizzazione ai fini abitativi del cespite rimasto nella disponibilità del proprietario, stante l’aumento di immissioni (tanto di rumori che di altro genere) superanti la normale tollerabilità».
10.1. Non può, allora, condividersi la tesi dei ricorrenti, per i quali l’espropriazione non avrebbe mai riguardato il terreno sul quale era
costruito l’edificio, ma esclusivamente la porzione di metri quadrati 80 (perlomeno inizialmente prima della transazione del 18/5/1992), collocata dinanzi al fabbricato stesso.
In realtà, il terreno dei ricorrenti, pur distinto catastalmente in modo differente, era unico, sicché – come acclarato dalla Corte d’appello con giudizio di merito – si è verificata un’espropriazione parziale.
Non è condivisibile, allora, la tesi del ricorrente per cui il procedimento espropriativo «ha esaurito il suo percorso con la occupazione di un’estensione di mq 80 di fondo e con la restituzione di 39 mq e di acquisizione di mq 41, di talché alcuna rilevanza può avere avuto l’esaurito procedimento espropriativo rispetto al fabbricato che peraltro non insiste sul fondo espropriato così come su quello restituito».
10.2. Tra l’altro, nella motivazione della sentenza della Corte d’appello si è fatto riferimento anche al contenuto dell’atto di cessione del 4/6/1992, peraltro ripetitivo dell’atto di transazione del 18/5/1992, nel quale si legge che i ricorrenti (in quel caso cedenti porzione del terreno di mq. 41) dichiarano di rilasciare «ampia e finale quietanza di saldo, dichiarando, ora per allora, di non avere altro a pretendere dall’ente RAGIONE_SOCIALE per la convenuta cessione dell’immobile oggetto del presente atto».
Quanto alla pretesa sussistenza di una retrocessione parziale del bene espropriato, si rileva, da un lato, la novità della domanda, che non risulta in alcun modo prospettata in sede di merito (tale questione non risulta evidenziata nella sentenza d’appello), e dall’altro, che l’istituto della retrocessione parziale di cui all’art. 47 del d.P.R. n. 327 del 2001, attiene alla ben distinta ipotesi in cui v’è stata emanazione del decreto di esproprio e l’opera non è stata però realizzata cominciata entro il termine di 10 anni.
Anche gli articoli 60 e 63 della legge n. 2359 del 1865 muovevano dal presupposto, a monte, di un procedimento espropriativo conclusosi con l’emanazione del decreto di esproprio (Cons. Stato., sez. IV, 11/6619).
Si è, infatti, ritenuto che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, nelle controversie soggette al regime giuridico previgente al d.lgs. n. 327 del 2001 (per essere la dichiarazione di pubblica utilità intervenuta prima del 30 giugno 2003), il decreto di esproprio validamente emesso è idoneo a far acquisire al beneficiario dell’espropriazione la piena proprietà del bene e ad escludere qualsiasi situazione di fatto e di diritto con essa incompatibile, con la conseguenza che, anche quando all’adozione del menzionato decreto non segua l’immissione in possesso, la notifica o la conoscenza effettiva di detto decreto comportano ugualmente la perdita dell'” animus possidendi ” in capo al precedente proprietario, il cui potere di fatto – nel caso in cui continui ad occupare il bene – si configura come mera detenzione, che non consente il riacquisto della proprietà per usucapione se non a seguito di un atto di interversione del possesso, fermo restando il diritto di chiedere la retrocessione totale o parziale del bene (Cass., Sez.U., 12/1/2023, n. 651).
Inoltre, in tema di espropriazione per pubblica utilità, la retrocessione parziale prevista dagli artt. 60 e 61 della legge n. 25 giugno 1865, n. 2359, richiede la formale manifestazione di volontà dell’amministrazione (spontanea o sollecitata dagli interessati) in ordine all’inservibilità dei beni per l’esecuzione dell’opera pubblica (dichiarazione del Prefetto o, in alternativa, pubblicazione da parte dell’espropriante dell’avviso indicante i beni che non servono più all’opera pubblica) e, in mancanza di una dichiarazione formale, l’Autorità giudiziaria non può accertare l’inservibilità, stante la natura discrezionale della valutazione della P.A. in ordine all’esistenza o
meno di un rapporto di utilità tra il relitto e l’opera compiuta, ma può riconoscere valore equipollente alla dichiarazione formale d’inservibilità ad un comportamento dell’amministrazione dal quale possa desumersi la scelta di mettere in vendita dei beni, in quanto non più necessari alla realizzazione dell’opera per la quale essi furono espropriati (Cass., Sez.U., 5/6/2008, n. 14826).
Nella specie, invece, il decreto di esproprio non è stato mai emanato, si è verificata l’irreversibile trasformazione del fondo, ed è stata conclusa la transazione del 18/5/1992, sia in ordine al prezzo di cessione volontaria della superficie di mq 41 di suolo, per lire 3.976.000,00 sia per l’indennità di occupazione temporanea di mq 41 e dell’altra parte di mq 39 del terreno, per lire 1.816.000,00.
È vero che per questa Corte l’istituto della retrocessione trova applicazione anche quando i beni di proprietà privata sono stati acquisiti dall’amministrazione pubblica non in forza di un provvedimento espropriativo, ma di una cessione volontaria, assimilata al decreto di esproprio ai sensi dell’art. 45, comma 3, del d.P.R. n. 327 del 2001 (Cass., Sez.U., n. 28343 del 2011; Cons. Stato, sez. II, n. 624 del 2020), e tuttavia, nella specie, la restituzione della porzione del fondo pari a metri quadrati 39, su metri quadrati 80 complessivi, per i quali era stata emessa la dichiarazione di pubblica utilità ed il vincolo preordinato all’esproprio, è avvenuta in concomitanza e all’interno dell’atto di cessione volontaria.
La retrocessione parziale poteva verificarsi solo successivamente all’atto di cessione volontaria dell’area, ma non contestualmente allo stesso.
Tra l’altro, mentre con riferimento alla retrocessione totale sussiste un vero e proprio diritto soggettivo perfetto del proprietario ad ottenere la restituzione del bene inutilmente espropriato, come
tale tutelabile davanti al giudice ordinario (Cass., Sez.U., 134 del 2000), in caso di retrocessione parziale il diritto alla restituzione nasce solo se ed in quanto l’amministrazione, nel compimento di una valutazione discrezionale, tutelabile avanti al giudice amministrativo, in ordine alla quale il privato è titolare di un mero interesse legittimo, abbia formalmente manifestato la volontà di non utilizzare uno o più fondi espropriati per gli scopi cui l’espropriazione era finalizzata (Cass., Sez.U., n. 1520 del 2014).
Del resto, ai fini della retrocessione, che costituisce un nuovo acquisto a titolo derivativo, sarebbe stato necessario individuare il prezzo del bene restituito, circostanza non verificatasi nella specie.
12. Va poi condivisa anche l’ulteriore affermazione della Corte d’appello per cui la richiesta di indennizzo ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865 e la domanda di risarcimento danni ex art. 2043 c.c. sono strumenti alternativi, che quindi non possono essere utilizzati contemporaneamente, con riferimento alla richiesta di deprezzamento del fabbricato ed alla servitù imposta all’opera pubblica.
Pertanto, una volta escluso l’indennizzo spettante ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865, in quanto v’è stata cessione volontaria parziale di una porzione del fondo, che ha comportato il venir meno di tale indennizzo, per la medesima ragione la Corte d’appello ha escluso ogni forma di ristoro per quanto concerne il deprezzamento del valore del fabbricato e la realizzazione della servitù imposta attraverso le linee elettriche.
Ed infatti, si è ritenuto che il nostro ordinamento ammette bensì, nei confronti della PA, il concorso delle due azioni di responsabilità per atti legittimi e per colpa, cioè dell’azione fondata sull’art.46 della legge sulle espropriazioni (legge 25 giugno 1865, n.2359) e di quella aquiliana di cui all’art.2043 cod.civ., ma in senso alternativo, quando
cioè alcuni fatti danno luogo all’una responsabilità ed altri fatti all’altra, per cui è impossibile parlare di preminenza dell’una o dell’altra responsabilità rispetto al medesimo fatto. Se è possibile, infatti, il concorso delle due azioni, non è, invero, concepibile la loro unificazione, per la diversità dei loro presupposti esse differiscono, difatti sia per il petitum , che nell’azione di risarcimento per fatto illecito si estende a tutto il pregiudizio derivato dall’altrui sfera giuridico-patrimoniale, e non soltanto al detrimento arrecato dalla esecuzione dell’opera pubblica al patrimonio immobiliare, sia per la causa petendi , e cioè per il fatto giuridico costitutivo dell’azione (Cass., Sez.U., 29/4/1964, n. 1039; anche Cass., Sez.U., 2/4/2001, n. 4790).
Pertanto, si è chiarito che ogni questione di responsabilità per colpa nei confronti della pubblica amministrazione è assorbita quando ricorrano i presupposti di applicabilità dell’art. 46 della legge n. 2359 del 1865 (Cass., Sez.U., 16/10/1962, n. 2997).
13. Con il quarto motivo di impugnazione i ricorrenti deducono « Error in iudicando violazione art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Errata e falsa applicazione delle norme di cui all’art. 1226 c.c. e 2056 c.c. relativamente all’applicazione alla fattispecie oggetto di causa, con riferimento al danno non patrimoniale riconosciuto agli istanti per le immissioni acustiche illecite derivanti dall’opera pubblica del c.d. criterio di equità puro congiuntamente alla violazione di cui agli articoli 132 c.p.c. e 118 disposizione di attuazione c.p.c. per apparente motivazione della sentenza di appello con riferimento alla determinazione-quantificazione dell’importo anche in relazione al collegato vizio di personalizzazione del danno ex art. 2059 c.c. con conseguente sua nullità».
14. Il motivo è infondato.
14.1. Anzitutto, si rileva che la sentenza della Corte d’appello reca una motivazione presente non solo in senso grafico, ma anche nella indicazione precisa delle ragioni logico-giuridiche che hanno condotto il giudice di secondo grado alla soluzione adottata.
Con assoluta chiarezza la Corte territoriale ha ritenuto, sia pure in via equitativa, ma agganciata a precisi parametri indicati dalla CTU medico-legale, che il danno non patrimoniale doveva essere liquidato per euro 5500,00 in favore di NOME e di euro 2000,00 in favore degli eredi di NOME COGNOME.
In particolare, la Corte d’appello ha dato atto del superamento dei livelli di rumorosità legislativamente consentiti, con riferimento sia alla «normale accettabilità» sia alla «normale tollerabilità», invocando i criteri di cui al DPCM del 14/11/1997, che è basato sulla differenza tra il rumore ambientale quello residuo.
Il giudice d’appello ha anche richiamato le risultanze provenienti dal «medico-legale officiato dal CTU», che peraltro non ha visitato i ricorrenti. Il medico-legale ha valutato il danno biologico, in via equitativa, «intorno ai 4-5 (…) punti percentuali, considerando sia il nocumento derivante dalla sintomatologia psichica ‘ stricto sensu ‘ sia quello derivante dalle somatizzazioni in senso lato».
Con piena valutazione di merito, poi, la Corte territoriale ha ritenuto che non era emerso un «superamento enorme delle soglie di tollerabilità».
Ha aggiunto, poi, la Corte d’appello che i ricorrenti si trovavano, comunque, già vicini al passaggio della linea ferroviaria, mentre le nuove opere avevano riguardato il raddoppio della stessa. Gli attori, dunque, erano «già da molto tempo confinanti con la linea ferroviaria, alla cui presenza erano verosimilmente abituati».
Con l’ulteriore argomentazione per cui la valutazione del tribunale e l’importo in concreto erogato era risultati «in linea con
quello ipotizzato dal CTU (tenuto conto di 4 punti percentuali), secondo le tabelle del tribunale di Milano».
Anche in questo caso, trattasi di valutazione pienamente meritale, non suscettibile di nuova interpretazione in questa sede.
16. Va, poi, evidenziato che questa Corte, sezioni unite, ha escluso la sussistenza della voce di danno ‘esistenziale’, distinguendo solo tra danno patrimoniale danno non patrimoniale (Cass., Sez.U., n. 26972 del 2008).
Il danno non patrimoniale si rinviene non solo nei casi specificatamente previsti dalla legge, ma anche in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata per lesione di specifici diritti inviolabili della persona tutelati dalla costituzione.
Il danno morale, invocato dai ricorrenti, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato autonomamente, ma solo ove dimostrato.
Il danno morale, infatti, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale alla pari del danno biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato a parte, ove però in concreto dimostrato, con criterio equitativo che tenga debito conto di tutte le circostanze del caso.
Il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello cd. esistenziale, non può essere considerato ” in re ipsa “, ma deve essere provato secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell’alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell’esistenza del soggetto. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico nella specie, la SRAGIONE_SOCIALE. ha confermato la sentenza di merito che aveva
rigettato la domanda di risarcimento del danno esistenziale, conseguente a immissioni intollerabili di rumori e polveri, in assenza di allegazioni specifiche e circostanziate sul punto (Cass., sez. 2, 9/11/2018, n. 28742).
Inoltre, in tema di risarcimento del danno alla persona, ai fini della liquidazione del danno morale, ontologicamente diverso dal danno biologico, ben possono essere utilizzate le Tabelle milanesi, nelle versioni successive al 2008, laddove comprendono nell’indicazione dell’importo complessivo del danno anche una quota diretta a risarcire il danno morale, secondo il criterio logicopresuntivo di proporzionalità diretta tra gravità della lesione e insorgere di una sofferenza soggettiva, a condizione che nel caso concreto tale liquidazione sia giustificata da un corretto assolvimento dell’onere di allegazione e prova e senza riconoscere ulteriori importi, altrimenti incorrendosi in una duplicazione risarcitoria (Cass., sez. 3, 12/7/2023, n. 19922).
La Corte d’appello ha affermato, in modo condivisibile, che le ulteriori voci del danno non patrimoniale, e quindi il danno morale quella esistenziale, «nella specie non risulta provat» nella loro cumulativa sussistenza.
Correttamente, poi, la Corte d’appello ha liquidato il danno all’attualità.
Infatti, l’obbligazione risarcitoria costituisce debito di valore e deve reintegrare per equivalente, alla data di determinazione del dovuto, le perdite ed i mancati guadagni, conseguendone che, in aggiunta alla rivalutazione, sulla somma liquidata alla data di consumazione dell’illecito, da rivalutare anno per anno fino alla decisione, potranno spettare gli interessi compensativi per il ritardato pagamento di quanto dovuto, sempre che i mancati guadagni siano provati dal creditore (Cass., 9 luglio 2014, n. 15604;
Cass., 21 aprile 2006, n. 9410). Il pregiudizio derivante dal ritardato conseguimento del risarcimento del danno deve dunque essere liquidato mediante gli interessi legali computati sulla somma originaria rivalutata anno per anno ovvero su tale somma rivalutata in base ad un indice medio (Cass., 9 luglio 2014, n. 15604; Cass., 3 agosto 2010, n. 18028; Cass., 14 ottobre 2013, n. 23232).
Inoltre, la presunzione di danno da lucro cessante per ritardato pagamento nei debiti di valore è correlata esclusivamente all’impiego mediamente remunerativo del denaro, in ipotesi suscettibile di offrire un'” utilitas ” superiore, in termini percentuali, al tasso di rivalutazione. Il riconoscimento di interessi costituisce in tale ipotesi una mera modalità liquidatoria, cui è consentito al giudice di far ricorso col limite costituito dall’impossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dell’illecito. Non è invece inibito al giudice di riconoscere interessi anche al tasso legale su somme progressivamente rivalutate; ovvero, sempre sulla somma rivalutata e con decorrenza dalla data del fatto, ma con un tasso medio di interesse, in modo da tener conto che essi decorrono su una somma che inizialmente non era di quell’entità e che si è solo progressivamente adeguata a quel risultato finale (Cass., 17 maggio 2005, n. 10354).
18. Le Sezioni Unite della Cassazione (17 febbraio 1995 n. 1712) hanno stabilito che il risarcimento del danno da fatto illecito deve ricomprendere sia l’equivalente del bene perduto (e quindi la rivalutazione monetaria al momento del fatto) sia l’equivalente del mancato godimento di quel bene e del suo controvalore monetario per tutto il tempo che intercorre tra il fatto e la liquidazione (interessi). La giurisprudenza ha adottato la categoria degli interessi compensativi, allargando la fattispecie di cui all’art. 1499 c.c., i quali prescindono dalla mora e dai presupposti di liquidità ed esigibilità di
cui all’art. 1282 c.c.. Gli interessi (che ristorano il danneggiato del mancato guadagno) vanno calcolati sulla somma via via rivalutata di anno in anno. Infatti, deve escludersi che gli interessi siano applicati sulla somma già interamente rivalutata, perchè si attribuirebbe al creditore un valore a cui egli non ha diritto.
19. Tuttavia, va condivisa la giurisprudenza di legittimità per cui nei debiti di valore gli interessi compensativi costituiscono una modalità liquidatoria del danno causato dal ritardato pagamento dell’equivalente monetario attuale della somma dovuta all’epoca dell’evento lesivo. Tale danno sussiste solo quando, dal confronto comparativo in unità di pezzi monetari tra la somma rivalutata riconosciuta al creditore al momento della liquidazione e quella di cui egli disporrebbe se (in ipotesi tempestivamente soddisfatto) avesse potuto utilizzare l’importo allora dovutogli secondo le forme considerate ordinarie nella comune esperienza oppure in impieghi più remunerativi, la seconda somma sia maggiore della prima, solo in tal caso potendosi ravvisare un danno da ritardo, indennizzabile in vario modo, anche mediante il meccanismo degli interessi, mentre in ogni altro caso il danno va escluso (Cass., 24 ottobre 2007, n. 22347). Il giudice del merito è tenuto a motivare il mancato riconoscimento degli interessi compensativi solo quando sia stato espressamente sollecitato mediante l’allegazione della insufficienza della rivalutazione ai fini del ristoro del danno da ritardo secondo il criterio sopra precisato (Cass., sez. L, 20/1/2020, n 1111), non essendovi alcun automatismo nel riconoscimento degli interessi compensativi (Cass., sez. 3, 13/7/2018, n. 18564). È necessaria, dunque, la prova, anche in via presuntiva, del mancato guadagno derivante dal ritardato pagamento, analogamente a quanto richiesto, sul piano probatorio, la dimostrazione del maggior danno
nell’obbligazione di valuta, ma criteri differenti (Cass., sez. 3, 8/11/2016, n. 22607).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha proceduto alla liquidazione dell’indennizzo in via equitativa, calcolandolo «all’attualità», quindi con una somma ricomprensiva di interessi e rivalutazione fino al momento della decisione.
Ovviamente, una volta determinato l’ammontare del risarcimento «all’attualità», si converte in obbligazione di valuta, sulla quale decorrono gli ordinari interessi legali dalla data della decisione fino al saldo definitivo (Cass., sez. 1, 20/4/2023, n. 10634).
Tale allegazione (della insufficienza della rivalutazione) non v’è stata da parte dell’appellante.
Con il quinto motivo di impugnazione ricorrenti si dolgono di « Error in iudicando art. 360, primo comma, numeri 3 e 4, c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c. in ordine al governo delle spese giudiziali anche con riferimento all’imputazione agli attori-appellanti di quelle della CTU dell’architetto COGNOME che ha valutato tra l’altro anche il decremento del valore del fabbricato di proprietà degli stessi, queste ultime spese anche per quel che attiene l’illogicità dell’imputazione».
In sostanza i ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte territoriale ha posto a carico di essi le spese della seconda CTU, espletata dall’architetto NOME COGNOME con cui era stata individuata la percentuale di deprezzamento dell’immobile nella misura del 12%.
La Corte d’appello ha ritenuto che la relazione redatta dal CTU sul quesito relativo alla diminuzione di valore del fabbricato ritenuto superfluo dovesse rimanere a carico dei ricorrenti.
In realtà, però, a giudizio del ricorrente, la Corte d’appello ha omesso nella ricostruzione fattuale che la diminuzione del valore del fabbricato era stata oggetto di quesito anche con riferimento alla prima CTU redatta dall’ingegnere Isernia.
Sarebbe dunque illogico che a fronte di situazioni omogenee si applichino «conseguenze differenti».
22. Il motivo è infondato.
In realtà, la Corte d’appello ha spiegato in modo adeguato che le spese della CTU «finalizzata alla determinazione e quantificazione dell’eventuale deprezzamento del fabbricato, sollecitata da parte attrice è risultata superflua» sono state poste a carico di parte attrice in modo corretto da parte del tribunale.
Poiché la richiesta di indennizzo da deprezzamento dell’immobile è stata rigettata, è corretta la decisione della Corte di appello che ha confermato quella di prime cure in ordine alla indicazione della parte su cui gravano le spese della seconda CTU.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico dei ricorrenti e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti a rimborsare in favore della controricorrente le spese del giudizio di legittimità, facendo delle stesse liquidazione in complessivi euro 4.000,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, oltre Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 27 novembre