Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 28931 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 28931 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 02/11/2025
Oggetto: arbitrato
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14912/2024 R.G. proposto da COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi da ll’ AVV_NOTAIO
– ricorrenti principali –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’ AVV_NOTAIO
– controricorrente, ricorrente in via incidentale – avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli n. 5257/2023, depositata il 13 dicembre 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 settembre 2025 dal Consigliere NOME COGNOME;
RILEVATO CHE:
NOME COGNOME e NOME COGNOME propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli, depositata il 13 dicembre 2023, di reiezione della impugnazione per nullità del lodo
arbitrale nella parte in cui erano state respinte le loro domande di: accertamento della legittimità della sospensione della loro prestazione di versamento del residuo importo derivante dalla sottoscrizione dell’aumento di capitale della RAGIONE_SOCIALE; accertamento della invalidità dei provvedimenti con cui erano stati esclusi dalla compagine di tale società per morosità ed erano state estinte le quote da loro sottoscritte, con riduzione del capitale sociale per un valore corrispondente e ritenzione delle somme già versate ed imputate a riserva; declaratoria di risoluzione del contratto di sottoscrizione dell’aumento di capitale per inadempimento esclusivo della società; condanna della società alla restituzione del capitale sociale da essi già versato in esecuzione di detto contratto; in via subordinata, condanna della RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni per condotta sleale e in mala fede;
-la Corte di appello ha riferito che l’Arbitro unico aveva disatteso tali domande osservando, tra l’altro, che la delibera di esclusione dei soci dalla società non era invalida, sussistendone tutti i suoi presupposti costitutivi e, in ogni caso, gli attori avevano manifestato disinteresse a rimanere nella detta società, e che la sottoscrizione dell’aumento di capitale del 26 aprile 2016 non configurava un contratto di scambio, per cui non si applicavano alcuni dei rimedi tipici dei contratti sinallagmatici, quali la risoluzione per inadempimento;
-ha dato che atto che l’Arbitro unico aveva, invece, parzialmente accolto la domanda (subordinata) di risarcimento dei danni, liquidati in complessivi euro 594.750,00, da ripartirsi tra gli attori in ragione della diversa entità del capitale versato (euro 305.000,00 in favore di NOME COGNOME ed euro 289.750,00 in favore di NOME COGNOME), derivanti dalla condotta illecita dell’amministratore e degli altri organi della società consistente nell’abuso dell’inadempimento dei soci COGNOME, nell’omissione della procedura di vendita delle quote dei soci, così ingenerando nei soci il legittimo affidamento sulla mancata
applicazione della sanzione di cui all’art. 2466 c od. civ ., e nell’adozione della delibera di esclusione dalla società dei soci morosi, con l’immediata ritenzione delle somme da questi ultimi già versate e con assunzione di un nuovo aumento di capitale sociale offerto in sottoscrizione ai soci esistenti in proporzione alle quote già possedute;
il ricorso è affidato a sette motivi;
resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE, la quale propone ricorso incidentale, affidato a un motivo;
avverso tale ricorso incidentale i ricorrenti principali non spiegano alcuna difesa;
-a seguito di proposta di definizione del giudizio a norma dell’art. 380 bis cod. proc. civ., la ricorrente chiede la decisione della causa;
-le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 380 -bis
-.1 cod. proc. civ.;
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo i ricorrenti principali deducono la violazione art. 2466, commi 2 e 3, cod. civ., per aver la sentenza impugnata ritenuto valida la delibera di esclusione dalla compagine sociale in ragione del solo dato della rilevata morosità, senza considerare che la società non aveva minimamente rispettato la procedura di cui all’art. 2466, secondo comma, cod. civ., in relazione al mancato tentativo di vendita delle quote ai soci o a terzi;
con il secondo motivo formulano censura sostanzialmente analoga con riferimento al diverso paradigma rappresentato da ll’art. 112 cod. proc. civ. in ordine alla omessa pronuncia sul quarto motivo di impugnazione vertente sulla invalidità della delibera in ragione del mancato tentativo di vendita delle quote;
con il terzo motivo si dolgono della violazione degli artt. 1223, 2377, 2466 e 2479ter cod. civ., per aver la Corte di appello respinto la domanda di risarcimento danni -almeno limitatamente al danno emergente pari a ll’entità dei versamenti che ciascuno degli attori aveva effettuato -derivante dalla invalidità della delibera di esclusione;
con il quarto motivo criticano la decisione impugnata per violazione dell’ art. 36 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, nella parte in cui ha erroneamente ritenuto che l’Arbitro Unico avesse deciso la domanda risarcitoria secondo diritto, anziché secondo equità e, conseguentemente, respinto il primo motivo di impugnazione vertente sul punto;
con il quinto motivo lamentano la violazione dell’ art. 1223 cod. civ., per aver la Corte territoriale liquidato il danno secondo il criterio della cd. perdita di chance, senza considerare che questa costituisce solo una delle voci di danno emergente, in quanto tale inidonea a determinare la reintegra integrale del danno sofferto;
con il sesto motivo censura la sentenza impugnata per violazione art. 132, secondo comma, n. 5, cod. proc. civ. con riferimento al quinto motivo di impugnazione con il quale si lamentava la mancata statuizione nel lodo della condanna della società al pagamento del danno accertato;
-con l’ultimo motivo deducono la violazione artt. 91 e 92 cod. proc. civ., per aver la Corte di appello riconosciuto loro la ripetizione solamente del 15% delle spese di arbitrato sostenute e compensato integralmente le competenze legali, benché vittoriosi per una delle domande proposte;
la proposta di definizione del giudizio ha ritenuto che tutti i motivi di ricorso fossero inammissibili;
ha, in particolare, osservato, quanto al primo e al terzo mezzo, che «l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime
contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass., Sez. Un., 28 ottobre 2020, n. 23745).
Nel caso in esame siffatto adempimento, consistente nel raffronto tra il precetto posto dalla norma impugnata e la ratio decidendi adottata dal giudice di merito, è totalmente mancante, ed è palese che la censura, lungi dal cimentarsi con il significato e la portata applicativa della norma richiamata in rubrica, attinge la valutazione di merito operato dalla corte d’appello in ordine alla validità della delibera assembleare menzionata»;
– in ordine al secondo motivo ha evidenziato che «Il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato comporta il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda di merito. In giurisprudenza è stato in tal senso più volte affermato che il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del petitum, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (Cass. 19 giugno 2004, n. 11455; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19475; Cass. 11 gennaio 2011, n. 455; Cass. 24 settembre 2015, n. 18868). Va da sé
che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica, in particolare, quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione (Cass. 4 ottobre 2011, n. 20311; Cass. 20 settembre 2013, n. 21612; Cass. 11 settembre 2015, n. 17956).
Nel caso in esame la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto il pronunciato non ha nulla a che vedere con la vicenda processuale, palese essendo il diniego di accoglimento della censura su cui secondo i ricorrenti la pronuncia sarebbe stata omessa»;
il quarto e il quinto motivo sono stati ritenuti inammissibili in quanto « volti a rimettere in discussione l’accertamento della corte d’appello in ordine alla qualificazione della decisione come decisione secondo diritto e non secondo equità»;
in ordine al sesto motivo ha osservato che «la corte territoriale ha accertato, interpretando il lodo, che esso recasse una pronuncia di condanna, e siffatto accertamento, motivato, si sottrae al controllo di legittimità»;
-infine, quanto all’ultimo motivo, ha così argomentato: «È inammissibile il settimo mezzo: essa difatti pone in discussione la statuizione sulle spese di lite rimettendo in discussione l’interpretazione della domanda, spettante invece al giudice di merito, secondo cui si trattava di domanda articolata in più capi»;
il Collegio condivide tali considerazioni, non investite da specifiche critiche nell’istanza di opposizione;
con riferimento al primo e al terzo motivo, su cui maggiormente si sofferma la memoria depositata dai ricorrenti ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ., può, inoltre, aggiungersi che nel ricorso non vi è l’allegazione della sottoposizione della questione dedotta in tali motivi
relativa alla invalidità della delibera per mancata osservanza dell’ iter procedimentale previsto la vendita delle quote dei soci morosi previsto dall’art. 2466 cod. civ. all’esame dell’Arbitro unico o della Corte di appello;
-anzi, dall’esame della sentenza impugnata sembra emergere che in sede di merito il tema del contendere verteva piuttosto sull’esistenza o meno della morosità, contestata dai ricorrenti in ragione della convinzione della legittimità della sospensione del pagamento delle loro prestazioni e che i provvedimenti di esclusione dei soci siano stati contestati unicamente sotto il profilo dell’assenza della morosità, la cui insussistenza avrebbe fatto venir meno, nella tesi dei ricorrenti, il presupposto per l’applicazione dell’art. 2466 cod. civ.;
poiché non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità le questioni non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, né rilevabili di ufficio (cfr. Cass. 25 ottobre 2017, n. 25319; Cass. 9 luglio 2013, n. 17041; Cass. 30 marzo 2007, n. 7981), parte ricorrente avrebbe dovuto allegare la avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito onde consentire a questa Corte di poter verificare l’ammissibilità delle censure, sotto il profilo dell’as senza di novità, oltre che la sua fondatezza;
per le suesposte considerazioni, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile, mentre va dichiarato inefficace il ricorso incidentale in quanto tardivo, ai sensi dell’art. 334 cod. proc. civ.;
le spese del giudizio seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
poiché il giudizio è definito in conformità della proposta, va disposta condanna della parte istante a norma dell’art. 96, terzo e quarto comma, cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. Un., 13 ottobre 2023, n. 28540);
i ricorrenti principali vanno, dunque, condannati, nei confronti della controricorrente, al pagamento di una somma che può equitativamente
determinarsi in euro 7.800,00 , oltre che al pagamento dell’ulteriore somma di euro 2.500,00 in favore della Cassa delle ammende;
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso principale inammissibile e quello incidentale inefficace; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 7.800,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, euro 200,00 per esborsi e accessori di legge.
Condanna parte ricorrente al pagamento della somma di euro 7.800,00 in favore della parte controricorrente e dell’ulteriore somma di euro 2.500,00, in favore della Cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , t.u. spese giust., dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principali , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 17 settembre 2025.
Il Presidente