Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 4986 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 4986 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 26/02/2025
SENTENZA
sul ricorso 29209-2019 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso da se stesso, nonché dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
COGNOME
-intimata – avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO di MILANO n. 2860/2019, depositata il 27 giugno 2019;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
lette le memorie del ricorrente;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20 febbraio 2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato NOME COGNOME per il ricorrente;
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Il Tribunale di Milano, decidendo sul ricorso proposto dall’Avv. NOME COGNOME nei confronti della signora NOME COGNOME per il pagamento del compenso dovuto di € 10.887,22 oltre interessi -oltre il maggior danno subito – o, in via subordinata, della diversa somma che dovesse risultare in corso di giudizio, per l’attività di mediazione e la collegata attività giudiziale prestata nella vicenda successoria legata al decesso di NOME COGNOME padre di NOME e NOME COGNOME, con sentenza n. 5647/2018, rigettava la domanda attorea, condannando il professionista alla rifusione delle spese di lite.
In particolare, il Tribunale ha preliminarmente escluso che fosse possibile disporre il mutamento del rito in quello sommario speciale di cui all’art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011, nonostante la causa fosse stata introdotta erroneamente con le forme del rito ordinario, sull’assunto che l’erronea individuazione del rito da parte dell’attore non poteva essere rilevata oltre la prima udienza, valendo pertanto il principio di conservazione degli atti processuali.
Inoltre, il giudice di prime cure, nel ritenere che il compenso per la prestazione professionale dovesse essere determinato ex art. 2233 c.c. in base alle tariffe di cui al D.M. n. 140/2012, data l’assenza di un precedente accordo sul punto, e che l’attività stragiudiziale potesse essere liquidata, in via analogica, secondo i parametri fissati per la fase di studio dell’attività giudiziale, considerava equo il compenso di € 3.867,18, già versato dalla convenuta quale corrispettivo per l’attività stragiudiziale, e satisfattivo quello corrisposto per il procedimento di ingiunzione, rigettando di conseguenza la domanda attorea.
L’Avv. NOME COGNOME interponeva appello in data 5 giugno 2018 avverso tale sentenza, chiedendo di dichiarare la sua nullità per esser stata decisa dal Tribunale in composizione monocratica anziché collegiale; in alternativa, chiedeva l’accoglimento della domanda previo accertamento e dichiarazione di un rapporto solidale passivo tra le sorelle COGNOME in ragione dell’inadempimento contrattuale posto in essere ai danni dell’avvocato e dell’associazione professionale cui apparteneva, nonché la condanna della sola convenuta al pagamento della differenza fra quanto preteso e quanto già ottenuto o della diversa somma dovuta, oltre al risarcimento del maggior danno.
A parere dell’appellante, il giudice di primo grado avrebbe errato nel calcolare il compenso dovuto, limitandosi, sulla base di una inesatta individuazione dello scaglione utilizzabile, ad una globale determinazione delle spettanze ed omettendo la valutazione della complessità delle materie trattate.
Si costitutiva in giudizio NOME COGNOME eccependo l’inammissibilità dell’impugnazione proposta, per non essere la sentenza, emessa ai sensi dell’art. 14 D. Lgs. n. 150/2011,
suscettibile di appello, ma esclusivamente di ricorso per cassazione.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 2860/2019, nel respingere l’appello, ha innanzitutto ribadito che il rilievo dell’erroneità del rito non può avvenire oltre la prima udienza in virtù del principio di conservazione degli atti giudiziari ritenuto inderogabile nel caso di specie, non essendo stato negato alcun diritto sostanziale di difesa delle parti.
La Corte territoriale evidenziava, poi, la corretta utilizzazione da parte del giudice di prime cure dello scaglione di valore ‘indeterminato’, data la mancanza di prova da parte dell’appellante dell’effettivo valore della causa. Inoltre, nel confermare la sentenza del Tribunale anche in ordine alla liquidazione delle spese a carico del soggetto soccombente, condannava quest’ultimo al risarcimento dei danni per lite temeraria ex art. 96, co. 3, c.p.c. per aver reiterato in appello la richiesta di pagamento di una somma di denaro, senza alcuna specificazione del calcolo del compenso e senza tener conto delle tabelle ministeriali applicabili.
Per la cassazione di tale sentenza l’Avv. NOME COGNOME ha proposto ricorso sulla base di diciotto motivi, di cui i primi nove contrassegnati da numeri arabi ed i secondi nove da numeri romani.
COGNOME non ha compiuto attività difensiva in questa sede.
Il ricorrente ha depositato memorie in prossimità dell’udienza.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.
Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., per aver la Corte territoriale esaminato cumulativamente i motivi di gravame
distinti ed autonomi. A parere del ricorrente, il giudice di secondo grado, nel decidere cumulativamente sui motivi, avrebbe erroneamente ritenuto applicabile al caso di specie il principio di conservazione degli atti processuali.
Il motivo è manifestamente infondato, e ciò in quanto, anche alla luce della disamina dei successivi motivi di ricorso, che investono a vario titolo i profili procedurali del processo di primo grado, la risposta complessivamente offerta dalla Corte d’Appello appare del tutto idonea a contrastare le censure complessivamente mosse in quella sede, avendo chiarito sia perché non sussistesse alcuna violazione del principio del giudice naturale, sia perché non potesse più invocarsi la decisione collegiale da parte del Tribunale.
4. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 112 c.p.c., 25, co. 1, e 111 Cost., 6 e 13 Convenzione di Roma, 47 Carta di Nizza in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per aver la Corte territoriale erroneamente interpretato le eccezioni dedotte in merito alla decisione della controversia in primo grado da parte del giudice non designato dal Presidente del Tribunale.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 25, co. 1 e 111 Cost., 6 e 13 Convenzione di Roma, 47 Carta di Nizza in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., in merito alla decisione della controversia in primo grado da parte del giudice non designato dal Presidente del Tribunale.
I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili ex art. 360 bis n. 1 c.p.c., avendo la Corte d’Appello deciso la controversia in conformità della giurisprudenza di questa Corte, e senza che i motivi di ricorso offrano argomenti per indurre la Corte a mutare il proprio orientamento.
Il ricorrente nella sostanza si duole del fatto che la controversia era stata inizialmente affidata al giudice Dott. NOME COGNOME ma che la successiva udienza era stata tenuta dalla dott.ssa COGNOME che era poi subentrata nella titolarità del fascicolo, senza che risulti emesso un formale provvedimento di sostituzione.
La sentenza impugnata ha richiamato però il costante orientamento di questa Corte secondo cui il difetto di costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 del codice di rito è ravvisabile unicamente quando gli atti giudiziari siano posti in essere da persone estranee all’ufficio e non investite della funzione esercitata, mentre non è riscontrabile quando si verifichi una sostituzione tra giudici di pari funzione e pari competenza appartenenti al medesimo ufficio giudiziario, anche se non siano state osservate al riguardo le disposizioni previste dal c.p.c. ovvero dalle norme sull’ordinamento giudiziario, costituendo l’inosservanza del disposto dell’art. 174 dello stesso codice e 79 delle relative disposizioni di attuazione, in difetto di una espressa sanzione di nullità, una mera irregolarità di carattere interno, che non incide sulla validità dell’atto e non è causa di nullità del giudizio o della sentenza. (Cass. n. 29281/2024; Cass. n. 12982/2022).
La critica del ricorrente non si confronta affatto con tale principio e sostiene, senza nemmeno addure una specifica ragione che possa indurre a rimeditare la detta regola, che la mera sostituzione sarebbe di per sé causa di nullità del procedimento, richiamando a sostegno della sua tesi la diversa prassi seguita presso gli uffici giudiziari della Romagna.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., per omessa motivazione
di una questione di nullità dell’ iter procedimentale ex art. 14 D. Lgs. n. 150/2011. In particolare, a parere del ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe fornito alcuna motivazione in merito alla mancata remissione degli atti al Presidente del Tribunale per il mutamento del rito e per la designazione di un collegio.
Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione di legge ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per omessa motivazione di una questione di nullità dell’ iter procedimentale ex art. 14 D. Lgs. n. 150/2011 ed in particolare della mancata remissione degli atti al Presidente del Tribunale per il mutamento del rito e per la designazione di un collegio.
Il sesto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., per la violazione degli artt. 3, 24, 25, 111 Cost., nonché gli artt. 6 e 13 Convenzione di Roma e 47 Carta di Nizza, per aver il giudice di secondo grado, nel confermare il rito per il principio di conservazione degli atti, violato il diritto di difesa dell’attore. In particolare, la Corte territoriale avrebbe omesso di fornire la motivazione sulla mancata remissione degli atti al Presidente del Tribunale per il mutamento del rito e la designazione di un collegio, facendo errata applicazione del detto principio di conservazione.
Il settimo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 3, 24, 25, 111 Cost., nonché gli artt. 6 e 13 Convenzione di Roma e 47 Carta di Nizza, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per aver il giudice di merito confermato il rito anziché rimesso gli atti al Presidente del Tribunale per il mutamento dello stesso e la designazione di un collegio, violando in tal modo il diritto di difesa dell’attore.
L’ottavo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., per la violazione degli artt. 156, 161, 281sexies, 353, 354 in relazione all’art. 112 c.p.c. e 702-bis c.p.c., nonché degli artt. 3, 4, 14 D. Lgs. n. 150/2011 e 50-bis, 50-ter, 50-quater c.p.c. per apparente ed omessa motivazione del provvedimento del giudice di secondo grado in merito alla mancata remissione degli atti al Presidente del Tribunale per il mutamento del rito e per la designazione di un collegio.
Il nono motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 156, 161, 281 sexies, 353, 354 in relazione all’art. 112 c.p.c. e 702 -bis c.p.c., nonché degli artt. 3, 4, 14 D. Lgs. n. 150/2011 e 50-bis, 50-ter, 50quater c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver la Corte d’Appello erroneamente applicato, nel decidere di mantenere il rito originario, il principio di conservazione degli atti. A parere del ricorrente, infatti, nel caso di specie il suddetto principio non troverebbe applicazione in quanto in contrasto con i principi di accelerazione del processo.
I motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che l’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2011 ha fissato un rigido sbarramento per il mutamento del rito, attraverso la previsione di un termine perentorio coincidente con la prima udienza di comparizione delle parti, non essendo il detto mutamento privo di conseguenze per le parti in relazione al regime di impugnazione; mentre, infatti, l’ordinanza collegiale che conclude il procedimento speciale è ricorribile per cassazione, in base all’art. 14, comma 4,
del menzionato decreto, la sentenza è impugnabile con l’appello (Cass. n. 186/2020).
Siffatta regola è stata poi ribadita in motivazione anche da Cass. S.U. n. 758/2022, che ha affermato che l’irretrattabilità del rito dopo la prima udienza di comparizione ex art. 4, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2011, in mancanza dell’ordinanza di mutamento, è un effetto sistematicamente coerente; la regola del consolidamento del rito, nel caso in cui il giudice, non provvedendo al mutamento, ometta di rilevare la difformità dell’atto introduttivo dal modello legale astratto, si impone alla luce del dettato del citato art. 4, e ciò in quanto le regole sul rito processuale non hanno copertura costituzionale quando non incidano negativamente sul contraddittorio e sull’esercizio del diritto difesa: è significativo che dall’adozione di un rito erroneo non deriva alcuna nullità, né la stessa può essere dedotta quale motivo di gravame, a meno che l’errore non abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o non abbia, in generale, cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte.
La regola della immutabilità del rito una volta celebrata la prima udienza, con specifico riferimento al procedimento di cui al citato art. 14, è stata poi di recente ribadita da Cass. n. 19228/2024 nonché da Cass. n. 23783/2024 che, di converso, ha affermato che è una tardiva ordinanza di mutamento del rito a determinare un pregiudizio al diritto di difesa delle parti, avendo precluso alle stesse, che potevano legittimamente confidarvi, la possibilità di ottenere la concessione dei termini dell’art. 190 c. p.c. e di meglio illustrare le rispettive difese mediante lo scambio di comparse e memorie, privandole di una facoltà difensiva, avendo, infine, modificato il regime di impugnabilità della decisione, sostituendo
all’appello, mezzo di impugnazione esteso al merito, la ricorribilità in cassazione per i soli vizi di cui all’art. 360 c.p.c., non occorrendo, ai fini dell’ammissibilità della censura, che il ricorrente individui lo specifico pregiudizio processuale derivato dalla descritta violazione processuale (cfr. Cass. 186/2018; Cass. S.U. n. 36596/2021).
Infine, è stato precisato che il riscontro, in sede di appello, dell’erronea trattazione della causa fin dal momento della sua introduzione con il rito ordinario, anziché con il rito ex artt. 28 della l. n. 794 del 1942 e 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, impone al giudice d’appello unicamente di valutare gli effetti sostanziali e processuali della domanda introduttiva, secondo le norme del rito seguito, ormai consolidatosi, avendo dunque riguardo alla data di notifica della citazione, senza spiegare effetti invalidanti sull’attività processuale in precedenza compiuta, né comportare la nullità della sentenza di primo grado o, comunque, la rimessione al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c. (Cass. n. 10864/2023).
Alla luce di tali principi i motivi in esame si palesano infondati, avendo il Tribunale deciso la controversia secondo le forme del rito ordinario di cognizione, avendo lo stesso ricorrente adottato la forma dell’atto di citazione per l’introduzione del giudizio, e non essendo intervenuta alcuna ordinanza di mutamento del rito entro la barriera preclusiva posta dal citato art. 4 del D. Lgs. n. 150/2011. Correttamente anche la decisione è stata assunta secondo le forme e con le regole dettate per il processo ordinario, essendo esclusa una tardiva resipiscenza del Tribunale in ordine al rito da seguire, essendo quindi anche escluso che il giudice
istruttore dovesse rimettere gli atti al Presidente del Tribunale per la designazione del Collegio.
Poiché la controversia era destinata a restare incanalata nel binario del processo ordinario di cognizione, resta anche esclusa la sussistenza del vizio derivante dalla violazione della norma di cui all’art. 50 quater c.p.c., attesa l’impossibilità di invocare la riserva di collegialità posta invece dall’art. 14 citato.
Incensurabile è poi la scelta del Tribunale di definire la controversia avvalendosi della previsione di cui all’art. 281 sexies c.p.c., la cui violazione deriverebbe, a detta del ricorrente sempre in ragione della attribuzione della decisione al Collegio e non al giudice monocratico.
Il consolidamento del rito rende quindi la decisione del Tribunale incensurabile quanto alle forme procedimentali seguite, non potendosi invocare alcuna nullità tale da determinare la rimessione della causa al giudice di primo grado.
Il decimo motivo di ricorso denuncia l’omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione 360, co. 1, n. 5, c.p.c., per non aver la Corte territoriale esaminato tutti i beni oggetto della controversia.
Il motivo è inammissibile ex art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., avendo la sentenza impugnata deciso conformemente alla sentenza appellata, sulla base delle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione del Tribunale.
Il motivo appare in ogni caso del tutto generico, così come generica appare l’individuazione dell’oggetto della domanda che il ricorrente assume avere patrocinato per conto dell’intimata nelle due procedure per le quali richiede il compenso.
Nella narrazione dei fatti di causa, alla pag. 3 del ricorso, l’avv. COGNOME riferisce di una complessa vicenda successoria che coinvolgeva NOME COGNOME a seguito del decesso del padre, ma omette di specificare quale fosse la domanda specificamente dedotta anche nella procedura di mediazione. Viceversa, quanto al procedimento per ingiunzione, il ricorrente si limita a riferire che atteneva alla richiesta di condanna della banca Unicredit S.p.A. alla consegna della documentazione bancaria, verosimilmente relativa a rapporti intrattenuti in vita dal de cuius. Si riferisce dell’esistenza di una serie di immobili caduti in successione nonché di una donazione di denaro effettuata in favore del coerede NOME, ma, in assenza di più puntuali indicazioni, necessarie al fine di accertare quale fosse l’oggetto del contendere, e quindi il valore della controversia sul quale parametrare il compenso, appare del tutto incerta e non suscettibile di verifica la denuncia circa la dedotta violazione dei criteri che presiedono alla liquidazione dei compensi tra cliente ed avvocato. Né appare di per sé risolutivo il richiamo al fatto che nella procedura di mediazione NOME NOME avesse sostenuto che le sorelle avevano a loro volta ricevuto delle donazioni di rilevante importo economico, non avendo chiarito in che modo tale allegazione fondasse delle domande riconvenzionali da parte del germano nei confronti, tra le altre, dell’odierna intimata (e ciò anche a tacere del fatto che il ricorrente pretenderebbe di cumulare il valore della asserite domande riconvenzionali con quello della domanda principale, in violazione del principio per cui, in tema di liquidazione del compenso per l’esercizio della professione forense, per la determinazione del valore della controversia, la domanda riconvenzionale, non essendo proposta
contro
il medesimo soggetto convenuto, non si cumula con la domanda principale dell’attore, ma, se di valore eccedente quello di quest’ultima, può comportare l’applicazione dello scaglione superiore poiché la proposizione di una riconvenzionale amplia il ” thema decidendum ” ed impone all’avvocato una maggiore attività difensiva, sì da giustificare l’utilizzazione del parametro correttivo del valore effettivo della controversia sulla base dei diversi interessi perseguiti dalle parti, ovvero del criterio suppletivo previsto per le cause di valore indeterminabile, cfr. da ultimo Cass. n. 23406/2023).
Tale ultima considerazione consente di rigettare anche l’undicesimo motivo di ricorso che denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 61 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver il giudice di secondo grado, nel determinare il valore della controversia, erroneamente individuato lo scaglione indeterminabile. A parere del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe fatto malgoverno del principio per cui nel caso di pluralità di domande, alcune di valore determinato ed altre di valore indeterminabile, trova applicazione lo scaglione tariffario per queste ultime solo laddove comporti il riconoscimento di un compenso maggiore rispetto a quello che deriverebbe dall’applicazione dello scaglione derivante dal cumulo delle domande di valore determinato.
Rilievo assorbente riveste il carattere del tutto generico delle allegazioni difensive del ricorrente che omette di precisare il contenuto della domanda coltivata sia in sede stragiudiziale che giudiziale per conto dell’intimata, nonché l’erronea pretesa di cumulare al valore della domanda principale quello di alcune, nemmeno specificate, domande riconvenzionali.
Infine, appare inammissibile la denuncia circa l’omessa nomina del CTU per determinare il valore della controversia, in quanto oltre ad attingere una valutazione rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, appare volta a supplire, mediante la nomina di un CTU, alle evidenti carenze di allegazione della parte.
Il dodicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 D.M. 140/2012 in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non aver la Corte territoriale, nella valutazione del compenso adeguato spettante al ricorrente per l’attività stragiudiziale, tenuto in considerazione quanto disposto dalla norma sui criteri di determinazione dello stesso.
La censura è inammissibile in quanto, pacifica l’applicabilità nella fattispecie del DM n. 140/2012, così come incontestato il contenuto della previsione tariffaria quanto alla remunerazione delle attività stragiudiziali, la critica si risolve in un immotivato rilievo di inadeguatezza della liquidazione effettuata, in contrasto con la valutazione in fatto operata dal giudice di merito (in maniera conforme nei due gradi), secondo cui la somma già versata dalla COGNOME risultava idonea a compensare in maniera congrua l’avvocato COGNOME dovendosi commisurare il dovuto a quanto previsto dalle disposizioni parametriche per l’attività giudiziale relativamente alla fase di studio.
Il tredicesimo motivo di ricorso denuncia l’omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., e, al contempo, la violazione dell’art. 3, co. 3, D. M. n. 140/2012, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non aver il giudice di secondo grado considerato nella liquidazione del compenso l’aumento dovuto per la conciliazione raggiunta nella controversia.
Anche tale motivo va disatteso.
La sentenza impugnata ha liquidato il compenso per la fase stragiudiziale facendo riferimento al valore ed alla natura dell’affare, concludendo per la congruità della somma già corrisposta, ed esprimendo quindi una valutazione che presuppone evidentemente operata la valutazione degli elementi che presiedono alla liquidazione dei compensi per l’attività stragiudiziale.
La difesa del ricorrente peraltro riporta un motivo di appello che faceva evidentemente richiamo al dettato dell’art. 4 del DM n. 55/2014 che, come correttamente sottolineato dai giudici di merito, è inapplicabile nella fattispecie, essendo l’attività difensiva terminata già nel 2012.
Inoltre, viene richiamato il testo dell’art. 4 del richiamato DM che fa riferimento ai criteri di liquidazione per le prestazioni giudiziali, così che è in relazione a tale attività che la norma accorda il riconoscimento di un incremento del compenso in caso di conciliazione della lite.
E’ pur vero che l’art. 3, co. 3, del DM n. 140 del 2012, per le prestazioni stragiudiziali dispone che: Quando l’affare si conclude con una conciliazione, il compenso è aumentato fino al 40 per cento rispetto a quello altrimenti liquidabile a norma dei commi che precedono, ma la sentenza impugnata ha sottolineato che l’importo accordato (e già versato) era superiore a quello che sarebbe spettato in base ai valori tariffari (e cioè € 3.000,00), a conferma del fatto che nella liquidazione si era tenuto conto anche delle peculiarità del caso. Infine, non va trascurato che il ricorrente riferisce di una avvenuta conciliazione della lite tra i
germani COGNOME ma omette di specificare quando ed in che termini tale intesa sia stata effettivamente conclusa.
9. Il quattordicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 91 c.p.c. e 713 e ss. c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver la Corte territoriale erroneamente determinato il valore della controversia in base alla quota ereditaria anziché alla massa ereditaria.
Il motivo è infondato.
Rileva in primo luogo la già evidenziata genericità delle allegazioni del ricorrente, che omette di specificare quale specifica domanda sia stata proposta per conto della cliente sia nella fase stragiudiziale che nella procedura monitoria, il che rende impossibile verificare la correttezza dell’assunto sostenuto nel mezzo in esame.
L’assunto del ricorrente appare poi evidentemente correlato al dettato dell’art. 5 del DM n. 55/2014 che, in punto di determinazione del valore della controversia, prevede che nei giudizi di divisione si ha riguardo alla quota o ai supplementi di quota o all’entità dei conguagli in contestazione, e che quando nei giudizi di divisione la controversia interessa anche la massa da dividere, si ha riguardo a quest’ultima.
Tuttavia, trascura di considerare che nella fattispecie risulta applicabile l’art. 5 del DM n. 140 del 2012 che prevede che invece si tenga conto nei giudizi di divisione, del valore della quota o dei supplementi di quota in contestazione.
Nel motivo si sostiene apoditticamente che la domanda riguardava il valore dell’intera massa e che si palesava la necessità di dover procedere alla riunione fittizia, ma trattasi di affermazioni che appaiono prive di ogni possibilità di riscontro, in
assenza della precisa specificazione delle domande avanzate per conto della cliente. Infine, non può trascurarsi l’ulteriore argomento già valorizzato dal Tribunale, per cui era stato lo stesso ricorrente ad allegare che il valore delle quote delle sorelle COGNOME fosse contenuto nello scaglione cui i giudici di merito si erano rifatti, essendo quindi frutto di un’inammissibile modificazione della domanda l’allegazione in appello di un maggiore valore rispetto a quello già indicato sia dinanzi al COA che nell’atto introduttivo del presente giudizio.
10. Il quindicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 3, 24, 111 Cost., nonché degli artt. 6, 13 Convenzione di Roma e 47 Carta di Nizza in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver il giudice di merito errato nel determinare il valore della causa. In particolare, la Corte territoriale avrebbe erroneamente definito indeterminabile il valore dei beni immobili.
Il sedicesimo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. per non aver la Corte territoriale fatto ricorso al notorio ed in particolare per non aver determinato il valore degli immobili tramite la consultazione dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare presso l’Agenzia delle Entrate.
I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.
Assume il ricorrente che, una volta avvenuta l’indicazione dei beni immobili caduti in successione, il giudice avrebbe dovuto determinare il valore della massa sulla base del loro valore venale, evincibile per tabulas ovvero in base ai richiamati indici OMI.
Le censure, in primo luogo, appaiono destituite di fondamento, alla luce del segnalato profilo di genericità dell’allegazione in ordine alle domande patrocinate, che impedisce di poter individuare quale fosse l’effettivo valore della controversia, e, anche a voler ipotizzare che si trattasse di una domanda di divisione, se la controversia avesse ad oggetto l’intera massa.
In secondo luogo, l’art. 15 c.p.c. prevede che, ove non possano operare i criteri di determinazione del valore sulla base del reddito dominicale o della rendita catastale, il valore possa essere determinato sulla base di quanto emerge dagli atti ed in via residuale si debba ritenere la causa di valore indeterminabile.
Il ricorrente si è limitato ad allegare un elenco dei beni asseritamente caduti in successione, ma ha omesso di riferire se fosse stata prodotta la documentazione idonea ad attestare la rendita catastale.
Quanto al richiamo ai dati OMI, va qui ricordato che la stessa giurisprudenza tributaria di questa Corte ha affermato che il valore del bene risultante delle quotazioni OMI pubblicate sul sito web dell’Agenzia delle Entrate non ha efficacia vincolante, atteso che queste non costituiscono fonte di prova del valore venale in comune commercio, il quale può variare in funzione di molteplici parametri (quali l’ubicazione, la superficie, la collocazione nello strumento urbanistico), limitandosi a fornire indicazioni di massima Cass. n. 21813/2018; Cass. n. 24550/2020; Cass. n. 22804/2024). A ciò deve aggiungersi che il ricorrente si è limitato a riprodurre a pag. 38 un elenco dei beni che sarebbero caduti in successione, riportandone uno stato conservativo normale, ma senza però indicare quale sia la loro superficie, elemento
necessario al fine di poter risalire, anche in base ai detti valori, a quello che è il valore unitario di ogni singolo bene immobile.
Ne consegue che appare incensurabile la conclusione cui sono giunti i giudici di merito di considerare il valore della causa patrocinata come indeterminabile.
Il diciassettesimo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 91 e 92, co. 2, c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per aver la Corte territoriale erroneamente statuito sulle spese. In particolare, secondo il ricorrente, il giudice di secondo grado avrebbe dovuto determinare la condanna della controparte alla refusione delle spese di lite per aver revocato -in violazione del dovere di lealtà e probità -il mandato del professionista nonostante il raggiungimento di un accordo tra le parti in causa.
Il motivo è manifestamente infondato, in quanto non si confronta con la regola dettata dall’art. 2237 c.c. che prevede che il cliente, fatta salva una diversa espressa volontà, ha il diritto di recedere ad nutum dal rapporto professionale, impregiudicato l’obbligo di corrispondere le spese sostenute ed il compenso per l’opera svolta.
La sentenza impugnata ha accertato che la cliente aveva già corrisposto quanto spettante all’avv. COGNOME la cui pretesa si rivelava quindi del tutto priva di fondamento, conclusione questa che ha fondato il giudizio di soccombenza sulla scorta del quale il ricorrente è stato condannato al rimborso delle spese di lite in favore della controparte.
Il diciottesimo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 96, co. 3, c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per l’insussistenza dei presupposti richiesti dalla norma per l’applicazione della sanzione pubblicistica per l’abuso dello
strumento processuale e per la condanna per responsabilità processuale aggravata.
Va qui ricordato che il fondamento costituzionale della responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., risiede nell’art. 111 Cost. – il quale, ai commi 1 e 2, sancisce il principio del giusto processo regolato dalla legge e quello, al primo consustanziale, della sua ragionevole durata -e ha come presupposto la mala fede o colpa grave, da intendersi quale espressione di scopi o intendimenti abusivi, ossia strumentali o comunque eccedenti la normale funzione del processo, i quali non necessariamente devono emergere dal testo degli atti della parte soccombente, potendo desumersi anche da elementi extratestuali concernenti il più ampio contesto nel quale l’iniziativa processuale s’inscrive (Cass. n. 36591/2023).
Tale ipotesi di responsabilità può configurarsi anche nell’abuso del diritto di impugnare, e ciò in quanto, in tema di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce indice di mala fede o colpa grave -e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione – la proposizione di un ricorso per cassazione con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione, non compiendo alcuno sforzo interpretativo, deduttivo ed argomentativo per mettere in discussione, con criteri e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla fattispecie concreta (cfr. Cass. S.U. n. 32001/2022; Cass. n. 29462/2022; Cass. n. 18512/2020).
Nel giudizio di appello incorre in colpa grave, giustificando la condanna ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., la parte che abbia insistito colpevolmente in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero in censure della sentenza impugnata la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata dall’appellante in modo da evitare il gravame (così Cass. n. 34693/2022)
Poste tali coordinate ermeneutiche, si osserva che la sentenza impugnata ha ravvisato la responsabilità ex art. 96, co. 3, c.p.c., del ricorrente, limitatamente al giudizio di appello, osservando che l’avvocato COGNOME aveva già in primo grado agito per il pagamento di una somma, omettendo di specificare i criteri di calcolo ai quali si era attenuto, e trascurando quanto invece era dato ricavare dall’applicazione delle tabelle, insistendo in appello per l’accoglimento della propria pretesa in maniera sostanzialmente ingiustificata, come si evinceva dalla sorte dei vari motivi di appello proposti.
Trattasi di motivazione che si connota come logica e coerente e che pone la sentenza al riparo della critica mossa, avendo questa Corte sottolineato che l’accertamento della responsabilità aggravata, che ricorre quando la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, rientra nei compiti del giudice del merito e non è censurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato. (Cass. n. 7222/2022).
L’unica critica che appare munita di un minimo di dettaglio attiene al fatto che la stessa convenuta in primo grado aveva offerto a tacitazione delle pretese della controparte la somma di € 1.000,00, ma trattasi di argomentazione che appare inconferente rispetto al fatto che la condanna de qua è stata adottata, non per
il giudizio di primo grado, ma per la stessa proposizione dell’appello, avendo il ricorrente insistito per la riforma di una sentenza che aveva escluso ogni ulteriore pretesa creditoria del ricorrente, insistendo in argomentazioni sia di carattere processuale che sostanziale la cui infondatezza si ricavava in maniera evidente dal contenuto della sentenza appellata.
Il motivo va quindi rigettato.
Il ricorso è pertanto rigettato, nulla dovendosi disporre quanto alle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1 -quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
La Corte rigetta il ricorso;
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, in data 20 febbraio 2025.
Il Presidente
L’Estensore