Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31658 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31658 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 2584-2024 proposto da:
COGNOME NOME, domiciliato ope legis in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME con diritto di ricevere le comunicazioni all’indirizzo PEC dei difensori
– ricorrente –
contro
COMUNE DI COGNOME, in persona del Sindaco pro tempore , domiciliato ope legis in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME con
Oggetto
Licenziamenti dimissioni pubblico impiego
R.G.N. 2584/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 07/11/2024
CC
diritto di ricevere le comunicazioni all’indirizzo PEC del difensore;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 21607/2023 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 20/07/2023 R.G.N. 25305/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/11/2024 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE:
con sentenza n. 21607/2023 questa Corte ha rigettato il ricorso di NOME COGNOME avverso la sentenza della Corte d’appello di Cagliari che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato allo stesso COGNOME, già Comandante del servizio di polizia municipale, dal Comune di Arzachena, il quale gli aveva contestato l’illecito previsto dall’art. 55 quater del decreto legislativo n. 165/2001 per essersi allontanato dal luogo di lavoro per motivi privati senza fare risultare l’ assenza mediante l’utilizzo de l l’apposito dispositivo marcatempo;
con ricorso notificato in data 18.1.2024, e tempestivamente depositato, NOME COGNOME ha chiesto -sulla base di due motivi -la revocazione dell’indicata sentenza di questa Corte;
l’Azienda ha resistito con controricorso ;
entrambe le parti hanno depositato memorie.
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo rescindente si denuncia l’errore revocatorio che graverebbe, ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., la sentenza impugnata nel passaggio motivazionale di seguito
trascritto: «quanto alla giustificazione addotta dal COGNOME relativa alla possibilità, in ragione delle mansioni svolte, di eseguire la prestazione anche al di fuori dall’ufficio eppure dalla abitazione, ciò non vale di per sé ad escludere che il lavoratore fosse comunque tenuto ad utilizzare il contrassegno marcatempo, dovendo rispettare l’orario minimo (irrilevante che in concreto svolgesse più ore), trovandosi comunque a dover giustificare perché in concreto avesse scelto di lavorare da casa invece che p resso la sede di servizio, ciò che evidenzia l’alterazione indotta dall’apparente presenza in ufficio in virtù delle timbrature effettuate»;
si sostiene che la decisione sarebbe frutto di errore di fatto, reso palese dalle risultanze processuali, ed in particolare dal documento n. 31 in atti, dal quale emergerebbe che il servizio svolto dagli appartenenti alla Polizia municipale al di fuori della sede comunale non veniva all’epoca dei fatti registrato nel registro marcatempo e che solo successivamente il Comune aveva inserito, variando le procedure, una voce apposita nel registro in menzione;
si aggiunge che in nessun atto le parti avevano dedotto o allegato che il COGNOME avesse scelto di lavorare da casa piuttosto che dal comando di Polizia Municipale;
1.1 il motivo è inammissibile;
giova premettere che l’errore rilevante ex art. 395 n.4 cod. proc. civ. consiste nell’erronea percezione dei fatti di causa che abbia indotto la supposizione della esistenza o della inesistenza di un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa o accertata dagli atti di causa, a condizione che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito materia del dibattito processuale su cui la pronuncia contestata abbia statuito;
proprio muovendo da detta premessa, questa Corte ha evidenziato che:
l’errore non può riguardare l’attività interpretativa e valutativa del giudice;
deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche;
deve riguardare solo gli atti interni al giudizio di cassazione e incidere unicamente sulla pronuncia della Corte, poiché l’errore che inficia il contenuto della decisione impugnata in cassazione deve essere fatto valere con le impugnazioni esperibili avverso la sentenza di merito (cfr. fra le tante Cass. n. 35577/2021; Cass. n. 26643/2018; Cass. n. 10633/2017; Cass. n. 3820/2014);
nessuna di dette condizioni ricorre nella fattispecie, perché la sussistenza o meno dell’obbligo di registrazione era stata oggetto di discussione fra le parti già nei gradi di merito, come risulta con chiarezza dalla lettura della sentenza della Corte d’appello di Cagliari, nella quale si dà puntualmente atto che quell’obbligo era stato affermato già dal Tribunale ed era stato fatto oggetto di specifico motivo di reclamo (i.e., il sesto motivo di appello: v. p. 23 della sentenza n. 123/2022) su cui la Corte ha specificamente statuito (v., in particolare, la relativa motivazione alle pagg. 29-30);
inoltre, l’errore denunciato riguarda la valutazione delle risultanze processuali e non presenta l’evidenza che deve essere propria dell’errore revocatorio;
analogo discorso va fatto con riferimento alle giustificazioni addotte in merito al rientro nell ‘ abitazione privata, in relazione al
quale già la Corte territoriale, pronunciandosi sul punto (cfr. III cpv. a pag. 26 della sentenza della Corte d’appello Cagliari -Sassari), aveva ritenuto che il rientro a casa per svolgere attività di ufficio dovesse essere previamente autorizzato;
parimenti inammissibile si rivela il secondo motivo di ricorso con il quale si addebita alla sentenza oggetto di revocazione di avere ritenuto non decisive le prove articolate, poiché detto errore, ove in ipotesi sussistente, sarebbe (evidentemente) frutto di una valutazione o di un giudizio errato e non di una svista meramente percettiva;
conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile;
le spese di legittimità -liquidate in dispositivo -seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte: dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che liquida in €. 5.000,00 per compensi, €. 200,00 per esborsi, oltre 15% di rimborso spese forfettario ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro, il