Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25245 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 25245 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 15/09/2025
SENTENZA
sul ricorso 7955-2020 proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, alla INDIRIZZO quale difensore di se stesso e rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura notarile;
-controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di VENEZIA n. 238/2020 depositata il 27 gennaio 2020;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 settembre 2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
lette le memorie del ricorrente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato NOME COGNOME per delega dell’avvocato NOME COGNOME per parte controricorrente;
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
L’avv. NOME COGNOME proponeva ricorso nei confronti di NOME COGNOME per il pagamento di compensi professionali per attività giudiziale svolta in suo favore dinanzi alla Corte Suprema di Cassazione.
Si costituiva NOME COGNOME che, nel chiedere il rigetto delle domande attoree, contestava il quantum debeatur e chiedeva la condanna dell’attore al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. per aver agito in giudizio con mala fede e/o colpa grave. Il convenuto sollevava altresì eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Roma.
Il Tribunale adito, con sentenza n. 2682/2009, dichiarava la competenza territoriale del Tribunale di Vicenza.
Il convenuto provvedeva a riassumere la causa dinanzi al Tribunale competente.
Si costituiva in giudizio l’avv. COGNOME chiedendo la sospensione del giudizio avendo proposto ricorso per regolamento di competenza presso la Suprema Corte avverso la sentenza del Tribunale di Roma.
Il Tribunale di Vicenza, ove era stata riassunta la causa, poi sospesa ex lege in attesa della decisione sul regolamento di competenza – dichiarato in seguito inammissibile per la sua tardiva proposizione -con sentenza n. 1330 del 6 dicembre 2012, rigettava le domande attoree e condannava l’avv. COGNOME alle spese di lite e al risarcimento del danno per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.
Avverso tale sentenza interponeva appello il professionista, chiedendo la riforma della decisione di primo grado.
Si costituiva in giudizio NOME COGNOME chiedendo che l’appello fosse dichiarato inammissibile e comunque rigettato in quanto infondato.
Con sentenza n. 238 del 27 gennaio 2020 la Corte d’Appello di Venezia -dopo aver escluso l’applicazione non solo della disciplina di cui all’art. 14 D. Lgs. n. 150/2011 in quanto successiva all’introduzione della lite, ma anche della procedura di liquidazione dei compensi ex art. 28 e ss. L. n. 794/1942 applicabile solo quando la controversia riguardi la semplice determinazione della misura del corrispettivo professionale rigettava il gravame e condannava l’appellante alla refusione delle spese di lite.
In particolare, il giudice di merito, dopo aver escluso la possibilità di esaminare nuovamente l’eccezione di incompetenza per territorio accolta dal Tribunale di Roma per essersi formato sul punto il giudicato, escludeva, innanzitutto, la nullità dell’atto di riassunzione del processo. Secondo il giudice di merito per la validità di tale atto – che non introduce un nuovo procedimento, ma ha esclusivamente la funzione di consentire la prosecuzione di quello già pendente – il giudice di merito deve apprezzarne l’intero contenuto, onde verificarne la concreta idoneità a consentire la ripresa del processo. Pertanto, essendo stato, nel caso di specie, raggiunto lo scopo della riassunzione del giudizio, doveva escludersi la sua invalidità.
In secondo luogo, nel rigettare la pretesa del professionista ai diritti e agli onorari anche aumentati in ragione della peculiarità della controversia, la Corte territoriale evidenziava che il mancato accoglimento pieno della pretesa in iure fatta valere con il ricorso in Cassazione aveva delle conseguenze sull’attività professionale svolta anche ai fini del compenso chiesto.
In merito sempre agli onorari, nel condividere l’accertamento del giudice di primo grado per cui sono liquidabili solo le attività compiute dal professionista dopo l’abilitazione quale avvocato in Cassazione, rigettava la domanda volta all’ottenimento della maggiorazione del 40% per aver difeso più parti in quanto ritenuta domanda nuova non essendo stata espletata con l’atto introduttivo e pertanto inammissibile.
Avverso tale sentenza è stato proposto ricorso per cassazione dall’avv. NOME COGNOME sulla base di diciassette motivi, illustrati da memorie.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
Nelle more del giudizio è deceduto il controricorrente e si è costituita in prosecuzione ex art. 110 c.p.c., COGNOME COGNOME quale unica erede dell’originaria parte conventa, avendo gli altri chiamati rinunciato all’eredità.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 28 e 29 L. n. 794/1942, 50 bis e ter c.p.c. e 161, co. 1, c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per non aver la Corte territoriale sanzionato con la nullità la sentenza di primo grado adottata dal Giudice monocratico e non dal Collegio.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 28 e ss. L. n. 794/1942 (art. 14 D. Lgs. n. 150/2011) in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver il giudice di seconde cure erroneamente ritenuto non applicabile la speciale procedura di liquidazione dei compensi degli avvocati per le prestazioni giudiziali civili prevista dal sopracitato art. 14.
Secondo il ricorrente, il provvedimento emesso dal Tribunale in funzione di giudice monocratico, anziché collegiale, sarebbe nullo. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 29 L. n. 794/1942, nonché la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 50 bis e 50 quater c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per non aver la Corte territoriale rilevato la nullità della sentenza gravata resa dal Giudice monocratico, sussistendo la competenza del Collegio del Tribunale di Roma in primo grado.
A parere del ricorrente l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale legittimato a decidere su una domanda in materia di liquidazione del compenso
all’avvocato costituirebbe un’autonoma causa di illegittimità del provvedimento.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 28 e 29 L. n. 794/1942 in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. per aver il giudice di merito omesso di considerare la manifesta illegittimità della sentenza gravata che discenderebbe, altresì, dalla circostanza che il giudice di prime cure non sarebbe neppure il Capo dell’Ufficio Giudiziario adito per il processo, ossia il Presidente del Tribunale, la cui competenza funzionale sarebbe assolutamente inderogabile.
3.1 I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.
Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, al fine di individuare il regime impugnatorio del provvedimento che ha deciso la controversia promossa ai sensi dell’art. 702bis c.p.c. per la liquidazione dei compensi maturati dal legale per prestazioni professionali, assume rilevanza, per il principio della c.d. apparenza e ultrattività del rito, la forma di sentenza od ordinanza adottata dal giudice, ove la stessa sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il relativo procedimento. Ne consegue che ove il giudice di prima istanza abbia trattato la causa con il rito ordinario di cognizione, il provvedimento conclusivo deve essere impugnato con il rimedio previsto dal rito erroneamente adottato ossia con l’appello (Cass. Sez. 2, 06/12/2024, n. 31431; Cass. Sez. 2, 04/09/2024, n. 23740).
Correttamente lo stesso ricorrente, avendo il Tribunale di Vicenza deciso la controversia con sentenza, ha proposto appello avverso la relativa statuizione.
Tuttavia, occorre ricordare che, pur essendo effettivamente la controversia de qua sottoposta alle norme di cui al procedimento sommario speciale di cui all’art. 28 delle legge n. 794/1942, l’errore asseritamente compiuto dal giudice di primo grado, doveva essere denunciato mediante la tempestiva formulazione di un motivo di appello.
In questo senso è stato evidenziato che la controversia ex art. 28 della l. n. 794 del 1942, avente ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato, è soggetta al rito di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 e, ove devoluta al tribunale, va decisa in composizione collegiale. Tuttavia, l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale costituisce un’autonoma causa di nullità della decisione, con conseguente conversione in motivo di impugnazione (Cass. Sez. 6, 03/10/2019, n. 24754; Cass. n. 16186/2018).
Va poi ricordato che, il riscontro, in sede di appello, dell’erronea trattazione della causa fin dal momento della sua introduzione con il rito ordinario, anziché con il rito ex artt. 28 della l. n. 794 del 1942 e 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, impone al giudice d’appello unicamente di valutare gli effetti sostanziali e processuali della domanda introduttiva, secondo le norme del rito seguito, ormai consolidatosi, avendo dunque riguardo alla data di notifica della citazione, senza spiegare effetti invalidanti sull’attività processuale in precedenza compiuta, né comportare
la nullità della sentenza di primo grado o, comunque, la rimessione al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c. (Cass. Sez. 2, 24/04/2023, n. 10864).
Alla luce di tali principi si palesa l’infondatezza delle censure mosse dal ricorrente.
Correttamente la Corte distrettuale alla pag. 11 ha ricordato come la dedotta violazione delle norme di cui al rito sommario speciale fosse stata avanzata dalla difesa dell’appellante solo in sede di precisazione delle conclusioni, il che rende evidente come la denuncia sia evidentemente tardiva e quindi inammissibile, così che, a prescindere dalla fondatezza delle doglianze, la deduzione volta a far valere l’erroneità del rito seguito in prime cure doveva essere oggetto di uno specifico motivo di appello, che però non risulta essere stato proposto, impedendo quindi che il giudice di appello potesse tornare sul punto.
Inoltre, attesa la inidoneità della sola violazione delle norme sul rito o sulla composizione dell’organo decidente a determinare la rimessione della causa al giudice di primo grado, sarebbe stato necessario anche allegare quale specifico pregiudizio sarebbe stato arrecato alle possibilità difensive del ricorrente per effetto dell’erronea decisione della controversia con le forme ordinarie.
La tardività della denuncia in appello ed il silenzio serbato in merito alla compromissione del diritto di difesa del ricorrente determinano pertanto l’impossibilità che quanto lamentato possa avere inficiato la correttezza della decisione di primo grado, risultando quindi anche incensurabile la decisione di appello.
Il quinto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., per violazione degli artt. 28
ss. L. n. 794/1942 e art. 14 D. Lgs. n. 150/2011 per aver il giudice di seconde cure erroneamente ritenuto non applicabile la speciale procedura di liquidazione dei compensi per le prestazioni giudiziali civili quando la controversia riguardi non solo la semplice determinazione della misura del corrispettivo spettante al professionista, bensì anche altri oggetti di accertamento e decisione quali i presupposti del diritto al compenso, i limiti di mandato, l’effettiva esecuzione delle prestazioni e la sussistenza di cause limitative della pretesa azionata.
La censura del ricorrente si fonda sul fatto che il procedimento sommario sarebbe il solo previsto e consentito per la definizione di tali questioni, con la conseguenza che, nel caso di specie, l’intero giudizio dovrebbe concludersi con un’ordinanza.
Le superiori considerazioni espresse in occasione della disamina dei primi quattro motivi di ricorso, offrono contezza anche della manifesta infondatezza del presente motivo.
Infatti, ancorché si riveli corretto il rilievo del giudice di appello, che ha sottolineato come, in ragione della data di introduzione del presente giudizio (2007), non potesse trovare applicazione il disposto di cui all’art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011, con la conseguenza che, come chiarito da Cass. S.U. n. 4485/2018, solo a seguito della novella del 2011 il procedimento speciale di liquidazione dei compensi prestazioni giudiziali civili si presta anche ad offrire la decisione circa le contestazioni sull’an del diritto (che la Corte d’Appello ha ritenuto fossero state mosse dalla difesa del COGNOME), la ricordata tardività della eccezione in merito al rito da seguire in prime cure, comporta la manifesta infondatezza anche del motivo in esame.
5. Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 28 e 29 L. n. 794/1942, art. 38 c.p.c., 33 e 34 Codice del Consumo in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché omessa e contraddittoria motivazione per aver la Corte territoriale erroneamente ritenuto che sull’eccezione di incompetenza territoriale si fosse formato il giudicato a seguito della declaratoria di inammissibilità del proposto regolamento di competenza dinanzi alla Suprema Corte di cassazione.
Al contrario, a parere del ricorrente, non si sarebbe formato alcun giudicato, in quanto la Suprema Corte si sarebbe limitata a dichiarare l’istanza inammissibile, non entrando nel merito della questione e non avendo pertanto neanche esaminato, a differenza di quanto affermato dal giudice di prime cure, l’eccezione di incompetenza.
Il settimo motivo di ricorso denuncia la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 38 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver il giudice di seconde cure omesso di delibare sull’eccezione di inammissibilità per tardività dell’eccezione di incompetenza territoriale atteso che quest’ultima non sarebbe stata sollevata con il primo scritto difensivo.
L’ottavo motivo di ricorso denuncia la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 33 codice del consumo in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per non aver la Corte territoriale deciso la questione in ordine all’applicabilità del codice del consumo ad un avvocato e al rapporto esistente tra tutti i
criteri di determinazione della competenza territoriale applicabili ad un avvocato e il criterio di competenza territoriale previsto dal codice del consumo.
Secondo il ricorrente, difettando nel caso di specie un contratto concluso tra un consumatore e un professionista, non vi sarebbe alcuna presunzione di vessatorietà e conseguentemente alcuna nullità di qualsivoglia clausola contrattuale. Anche a voler ritenere sussistente un contratto, a parere del ricorrente, il Tribunale di Roma sarebbe comunque competente ai sensi dell’art. 33 lett. u) codice del consumo in ragione dell’elezione di domicilio dell’odierno controricorrente in Roma (in INDIRIZZO).
Il nono motivo di ricorso denuncia la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., anche sotto il profilo dell’omessa motivazione, per aver il giudice di secondo grado omesso di considerare come l’infondatezza dell’eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Roma discenderebbe, altresì, dalla circostanza che l’odierno controricorrente ha articolato la domanda riconvenzionale chiedendo il risarcimento dei danni per lite temeraria.
Secondo il ricorrente, il convenuto che abbia proposto domanda riconvenzionale al giudice territorialmente incompetente avrebbe in tal modo rinunciato, per mancanza di interesse, all’eccezione di incompetenza territoriale, non potendo più validamente proporla.
Il decimo motivo di ricorso denuncia la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche sotto il profilo dell’omessa motivazione, e la violazione degli artt. 20 c.p.c. e 1182 c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per
aver la Corte territoriale omesso di delibare sull’eccezione secondo cui la competenza del Tribunale di Roma si fonderebbe sul disposto degli artt. 20 c.p.c. e 1182 c.c.
In particolare, a parere del ricorrente, il giudice di merito non avrebbe considerato che l’odierno controricorrente, nel sollevare la suddetta eccezione, avrebbe omesso qualsiasi riferimento a tali norme, con la conseguenza che la competenza sarebbe dovuta restare radicata presso il giudice adito, con esclusione di ogni accertamento d’ufficio circa altri motivi di incompetenza oltre quello che sia stato tempestivamente eccepito dalla parte.
I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.
La sentenza gravata ha ritento che le censure mosse con l’atto di appello avverso la competenza del Tribunale di Vicenza fossero ormai precluse in ragione dell’esistenza di un giudicato interno.
E’ stato sottolineato che il giudizio era stato riassunto dinanzi al Tribunale di Vicenza, a seguito di dichiarazione di incompetenza del Tribunale di Roma, e che la relativa decisione era stata fatta oggetto di regolamento di competenza ad opera del Lorusso, che però questa Corte aveva dichiarato inammissibile con ordinanza n. 26178 del 2017, in ragione della sua tardiva proposizione.
Secondo la tesi del ricorrente, nonostante tale declaratoria di inammissibilità, la questione di competenza sarebbe ancora suscettibile di essere posta in discussione in questo giudizio, in quanto questa Corte non avrebbe avuto modo di pronunciarsi sul merito della questione, stante la riscontrata inammissibilità del regolamento.
La deduzione è però del tutto destituita di fondamento.
Alla luce del principio per cui le decisioni rese solo sula competenza possono essere impugnate unicamente con il regolamento necessario di competenza, ne deriva che ove quest’ultimo sia dichiarato inammissibile la questione de qua risulta coperta da giudicato interno, che, sebbene insuscettibile di essere invocato in un diverso procedimento, non rivestendo la sentenza del giudice di merito l’efficacia panprocessuale che invece la legge riserva alle decisioni sulla competenza della Corte di cassazione (art. 310, co. 2, c.p.c.), risulta però essere vincolante nel giudizio che prosegue dopo la dichiarazione di competenza, non più suscettibile die essere rimessa in discussione.
Va pertanto richiamato il principio per cui, analogamente a quanto accade nel caso di omessa proposizione del regolamento di competenza, la sentenza dichiarativa della incompetenza (anche per materia) del giudice adito acquista efficacia di giudicato (non più contestabile) sia nella parte relativa alla statuizione di incompetenza del giudice che l’ha pronunciata quanto alla (asserita) competenza dell’autorità dinanzi alla quale la causa sia stata tempestivamente riassunta, così che, nei successivi gradi del procedimento, ne’ le parti, ne’ il giudice procedente hanno la facoltà di rimettere in discussione quanto stabilito, in tema di competenza, dall’autorità giudiziaria originariamente adita (Cass. Sez. 3, 23/02/1998, n. 1941; Cass. n. 2463/1984; Cass. n. 2560/1992; Cass. n. 1347/1994; Cass. n. 14559/2002 ; Cass. n. 2973/2012).
In ragione del giudicato interno formatosi sulla competenza del giudice adito in riassunzione, i motivi specificamente volti a contrastare la stessa sono pertanto inammissibili.
L’undicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 163, 164, 307 e 50 c.p.c., anche sotto il profilo dell’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per avere il giudice di merito omesso di delibare sull’eccezione di nullità della comparsa di costituzione in riassunzione della causa per difetto dell’avvertimento di cui all’art. 163, co. 3, n. 7, c.p.c.
Secondo il ricorrente, alla luce di tale nullità insanabile, l’omessa tempestiva riassunzione della causa sarebbe sanzionata con l’estinzione del giudizio.
Il motivo è infondato.
In disparte il difetto di specificità del motivo, che omette di riportare il contenuto dell’atto di riassunzione, onde potere apprezzare la carenza denunciata, si rileva innanzi tutto che la sentenza impugnata ha espressamente riferito che la comparsa di riassunzione del COGNOME conteneva l’avvertimento di cui al n. 7 dell’art. 163 c.p.c.
Ove si intenda però sostenere che lo stesso sia insufficiente, mancando il richiamo anche a quanto previsto dell’art. 38 c.p.c., la deduzione è priva di fondamento, in quanto si fa riferimento ad una norma, e precisamente al testo novellato di cui al citato n. 7 dell’art. 163 c.p.c., che è stata introdotta ed è applicabile solo ai giudizi incardinati in primo grado dopo il 9 luglio del 2009, così che, avuto riguardo alla data di introduzione del presente giudizio (2007), la previsione è inapplicabile ratione temporis . Inoltre,
trattandosi di riassunzione a seguito di dichiarazione di incompetenza, era priva di rilevanza la necessità del richiamo ai termini per la formulazione dell’eccezione di incompetenza, essendo stata la stessa già delibata.
La censura è poi del tutto priva di fondamento.
Infatti, in tema di “translatio iudicii” prevista dall’art. 50 cod. proc. civ., la comparsa di riassunzione deve avere i requisiti previsti dall’art. 125 disp. att. cod. proc. civ. (Cass. n. 12524/2010), che si limita a prevedere l’invito alla controparte a costituirsi nei termini di cui all’art. 166 c.p.c., ma non anche l’avvertimento di cui al n. 7 dell’art. 163 c.p.c., e ciò in ragione del fatto che trattasi di atto che dà impulso ad un giudizio già pendente, e che quindi non impone il richiamo a preclusioni e decadenze che invece caratterizzano un giudizio intrapreso ex novo (cfr. Cass. S.U. n. 9407/2013, quanto all’atto di appello, nonché Cass. n. 12065/2024, sui requisiti della citazione a seguito di rinvio da cassazione).
Il dodicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., dell’art. 5 Allegato al D.M. Giustizia 9.04.2004 -Deliberazione del Consiglio Nazionale Forense del 25.09.2002 in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver la Corte territoriale erroneamente affermato che la pretesa fatta valere con ricorso in cassazione dal professionista non fosse stata pienamente accolta con le relative conseguenze per l’attività professionale svolta anche ai fini del compenso chiesto.
Al contrario il ricorrente, richiamando lo svolgimento del giudizio di Cassazione ed evidenziando la particolarità, il valore,
l’importanza, l’utilità dell’attività professionale espletata a favore dell’odierno controricorrente e gli esiti del giudizio, assume di essere titolare di una pretesa ai diritti e agli onorari anche aumentati.
Il motivo è destituito di fondamento.
Sicuramente deve escludersi che ricorra la violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo la Corte d’Appello espressamente deliberato la richiesta del ricorrente di liquidazione dei compensi nella misura massima prevista dalla normativa applicabile, mentre la denuncia è inammissibile, nella parte in cui contesta il mancato riconoscimento del detto incremento, atteso che la stessa attinge una valutazione rimessa al giudice di merito, in ordine alla rilevanza ed al pregio dell’attività professionale svolta, valutazione che appare connotata da logicità e coerenza, avendo la Corte d’appello correttamente sottolineato come, il giudizio di cassazione per il quale viene richiesta la liquidazione dei compensi, ha visto all’esito l’accoglimento solo di uno dei motivi proposti, con il rigetto e l’assorbimento degli altri due formulati nell’interesse del COGNOME.
Il tredicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 10 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. in ordine al valore della controversia.
In particolare, la Corte territoriale avrebbe erroneamente recepito acriticamente la consulenza di parte, omettendo di fare riferimento, nella valutazione del valore dell’immobile, a criteri oggettivi come il bollettino osservatorio immobiliare di Vicenza.
Il motivo è evidentemente inammissibile in quanto non si confronta con la ratio che sorregge la decisione impugnata.
I giudici di appello, nel replicare all’analoga censura veicolata in appello dal COGNOME, hanno sottolineato che ai fini del valore della causa occorreva far riferimento al reale oggetto del contendere, che era rappresentato dall’azione di rilascio di un bene immobile appartenente ai clienti del ricorrente, che era stato oggetto di locazione al custode dello stabile, con un canone di locazione di £. 80.000. E’ stato perciò escluso che dovesse farsi riferimento al valore della piena proprietà dell’immobile oggetto di causa, ed in ragione del rinvio che l’art. 6 del DM n. 127/2004 opera alle norme del codice di rito, è stato nella sostanza ritenuto corretto il riferimento a quanto previsto dall’art. 12 c.p.c.
La sentenza ha altresì aggiunto che, anche a voler prendere in esame il valore della proprietà del bene, lo stesso doveva essere fissato in un ammontare ben inferiore rispetto a quello suggerito dal ricorrente, avuto riguardo ad una stima offerta dall’appellato che indicava il valore del bene all’epoca in € 110.000,00, senza che sul punto l’appellante avesse mosso specifiche contestazioni.
A fronte di tale argomentare del giudice di appello, il motivo in esame si sofferma unicamente sulla critica al valore della piena proprietà del bene, ma manca qualsivoglia censura all’argomento afferente all’individuazione del reale oggetto della controversia, che impediva (essendo controverso solo il diritto di uso dell’immobile), di poter prendere in esame ai fini del valore della causa quello della piena proprietà.
Ciò determina evidentemente l’inammissibilità della censura.
Il quattordicesimo motivo di ricorso denuncia l’omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia per aver la Corte territoriale confermato quanto
accertato dal giudice di prime cure, e cioè che sono liquidabili gli onorari nei confronti del professionista relativi alle sole attività compiute dopo l’abilitazione quale avvocato in Cassazione.
Secondo il ricorrente, il giudice di merito inopinatamente confonderebbe i diritti di procuratore con gli onorari in quanto l’attività procuratoria espletata non richiederebbe la qualità di cassazionista con la conseguenza che, una volta effettuata, sarebbero dovuti i diritti previsti nel tariffario professionale.
Il motivo è, in primo luogo, inammissibile nella parte in cui risulta formulato sulla base della previgente formulazione dell’art. 360 co. 1, n. 5, c.p.c., non più applicabile alla fattispecie ratione temporis .
Tuttavia, ove anche voglia procedersi alla sua disamina, cercando di cogliere quelle che sono delle censure di diritto, vale il richiamo a quanto sopra esposto in ordine al profilo del valore della controversia ed al mancato riconoscimento dei massimi tariffari, per i compensi spettanti per l’assistenza prestata in sede di legittimità. Si palesa, poi, incensurabile la conclusione del giudice di appello che ha confermato il riconoscimento delle sole attività svolte in data successiva al conseguimento da parte del Lorusso dell’abilitazione al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori, il che esclude che possa essere attribuito un compenso per le attività che, sebbene a firma congiunta con altro professionista abilitato, siano state svolte in data anteriore.
In relazione alla partecipazione alla discussione dinanzi a questa Corte, rileva il contenuto della sentenza n. 11756/2007, che riporta nell’epigrafe la partecipazione alla discussione del solo difensore del resistente, dovendosi quindi evidentemente
pervenire alla conclusione che effettivamente nessuno comparve per la parte ricorrente. Ciò rende incensurabile l’affermazione del giudice di appello che ha negato che l’avv. COGNOME prese parte alla discussione nell’interesse del proprio assistito, dovendo ritenersi che la sentenza sia una fedele rappresentazione di quanto avvenuto nel corso dell’udienza di discussione, del cui svolgimento, contrariamente all’assunto del ricorrente, viene lasciata traccia scritta nel verbale d’udienza redatto a cura del cancelliere, e sotto la direzione del Presidente.
Nemmeno è censurabile la mancata liquidazione dei diritti per il giudizio dinanzi a questa Corte, e ciò in quanto costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui il d.m. di approvazione della tariffa forense, avendo natura di fonte regolamentare, così come desumibile dalla legge 7 novembre 1957, n. 1051, di attribuzione della competenza al Consiglio Nazionale Forense, deve essere interpretato alla luce dei parametri ed all’interno dei limiti stabiliti dalla legge 13 giugno 1942, n. 794, che escludono il riconoscimento dei diritti di procuratore per qualsiasi giudizio di cassazione compreso il regolamento di competenza, (Cass. Sez. 1, 15/04/2019, n. 10492; Cass. n. 22485/2011; Cass. n. 15061/2011).
Infine, appare incensurabile anche la decisione nella parte in cui ha ritenuto affetta da novità la richiesta del ricorrente di conseguire l’incremento dei compensi per l’avere svolto attività difensiva in favore di più soggetti, atteso che trattasi di richiesta avanzata solo in corso di causa, e che non trovava alcuna rispondenza nelle richieste avanzate sia in via stragiudiziale che con l’atto introduttivo del giudizio, dovendo peraltro escludersi
che la stessa si configuri alla stregua di una mera precisazione della domanda originaria, investendo piuttosto un ampliamento della pretesa, in violazione del principio della domanda, quale cristallizzata negli atti introduttivi del giudizio.
Tali considerazioni giustificano altresì il rigetto del quindicesimo motivo di ricorso che denuncia la violazione dell’art. 5 della vigente tariffa professionale in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver la Corte territoriale omesso di delibare sulla domanda di liquidazione degli onorari e dei diritti maturati sulla base del vigente tariffario.
Nella seconda parte il motivo lamenta il mancato riconoscimento degli interessi di cui al D. Lgs. n. 231/2002, ma la censura è inammissibile in quanto non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata che ha rigettato l’analogo motivo di appello osservando che lo stesso risultava del tutto generico in relazione al quantum preteso, al quantum liquidato ed alla possibile relativa differenza con la conseguente erroneità della pronuncia.
La valutazione di genericità del motivo di appello non risulta affatto contrastata dal motivo di ricorso che si limita semplicemente a ribadire la debenza degli interessi de quibus , il che si riverbera nell’inammissibilità della censura.
Il sedicesimo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 96 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver il giudice di secondo grado omesso di delibare sull’eccezione afferente alla condanna del professionista alla responsabilità aggravata sulla base di una richiesta di compensi quale cassazionista per un periodo anteriore all’iscrizione al relativo albo e al coinvolgimento di un collega.
Con tale motivo il ricorrente evidenzia che lo stesso avrebbe, al contrario, richiesto al giudice di merito legittimamente diritti e onorari maturati per l’attività professionale svolta in via esclusiva a favore dell’odierno controricorrente, così come emergerebbe dagli scritti difensivi e dalla documentazione in atti.
Il motivo è inammissibile nella parte in cui denuncia il vizio di omessa e contraddittoria motivazione, anche in questo caso avvalendosi della formula non più applicabile dell’art. 360 co. 1, n. 5, c.p.c. previgente.
Risulta poi inammissibile nella parte in cui insiste sulla violazione dell’art. 28 del codice deontologico forense, avendo la sentenza espressamente ritenuto che la questione, in relazione alla quale era denunciata la detta violazione, risultava irrilevante ai fini della decisione.
Quanto, infine, alle ragioni per le quali è stata confermata la decisione resa sul punto dal giudice di primo grado, la Corte d’Appello ha ritenuto che fosse una valida giustificazione per la condanna ex art. 96 c.p.c. l’avere richiesto dei compensi per le prestazioni rese in un giudizio di cassazione in epoca anteriore al conseguimento della abilitazione alla difesa dinanzi alle giurisdizioni superiori, la cui esclusione risulta essere stata confermata anche all’esito del presente giudizio, dal che ne discende la infondatezza del motivo in esame.
13. Il diciassettesimo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver i giudici di primo e secondo grado erroneamente determinato le spese di giudizio secondo non conoscibili criteri e comunque non sulla base dei vigenti parametri.
Secondo il ricorrente non solo i giudici di merito avrebbero determinato nelle proprie decisioni diritti, onorari e spese non dovute, ma non si comprenderebbe nemmeno il motivo per cui non abbiano compensato le spese di entrambi i giudizi in presenza di reciproca soccombenza derivante dal rigetto della domanda riconvenzionale dell’odierno controricorrente per lite temeraria.
Sicuramente destituita di fondamento appare la tesi del Lorusso secondo cui nulla potrebbe essere liquidato a titolo di spese legali per effetto dell’abrogazione delle previgenti tariffe ad opera del D.L. n. 1 del 2012, in quanto successivamente sono stati emanati il Dm n. 140/2012 ed il Dm n. 55/2014 che hanno colmato la lacuna derivante dalla detta abrogazione.
La sentenza impugnata, avendo confermato il rigetto della domanda di pagamento del ricorrente, nel regolare le spese ha fatto corretta e puntuale applicazione del principio di soccombenza, avendo anzi fatto esplicito riferimento al valore della domanda (€ 50.408, pari alla richiesta avanzata dal COGNOME in primo grado), palesandosi del tutto generico il riferimento alla pretesa eccessività della liquidazione.
E’ poi inammissibile la doglianza circa la mancata compensazione delle spese, non essendo censurabile in sede di legittimità l’omesso esercizio del detto potere discrezionale, e dovendosi escludere che ricorra un’ipotesi di soccombenza reciproca ove ad essere rigettata sia la sola domanda di responsabilità processuale aggravata avanzata dalla parte vittoriosa nel merito (cfr. Cass. n. 11792/2018; Cass. n. 18036/2022; Cass. n. 14813/2020), non senza tacere il fatto che la domanda de qua, quanto meno per il
primo grado, risulta essere stata accolta dal Tribunale (ed essendo stato rigettato l’appello spiegato sul punto dal ricorrente).
Il ricorso è pertanto rigettato per l’effetto il ricorrente è tenuto al rimborso delle spese in favore della controricorrente, che si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi €, 2.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge, se dovuti;
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, in data 11 settembre 2025.
Il Presidente
L’Estensore