Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 551 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 551 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23910/2023 R.G. proposto da:
COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME quale erede di COGNOME NOMECOGNOME e COGNOME NOME COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO COGNOME INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende per procura in calce al ricorso;
-ricorrenti- contro
MINISTERO DELL’ ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore;
-intimato-
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO ROMA n. 51842/2022 depositato il 20.4.2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9.7.2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con ricorso del 26.8.2022 COGNOME COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME COGNOME e COGNOME NOME, quest’ultimo quale erede di COGNOME NOME, chiedevano alla Corte d’Appello di Roma di ingiungere al Ministero dell’Economia e delle Finanze il pagamento di un indennizzo di € 6.020,00 ciascuno per la durata irragionevole di un procedimento amministrativo introdotto davanti al TAR del Lazio il 3.5.2012 e concluso con la sentenza n. 2738/2013 pubblicata il 18.3.2013, appellata davanti al Consiglio di Stato il 21.5.2013, giudizio conclusosi con sentenza definitiva del 24.12.2021, procedimento che aveva avuto una durata complessiva di 9 anni e sei mesi (10 mesi e 15 giorni il giudizio di primo grado e 8 anni, 7 mesi e tre giorni il giudizio davanti al Consiglio di Stato).
Il Consigliere delegato della Corte d’Appello di Roma, con decreto n. 1619/2022 del 25.8.2022, dichiarava inammissibile il ricorso ex art. 3 della L. n. 89/2001 per mancato esperimento dei rimedi preventivi dell’art. 1 ter della L. n. 89/2001 e condannava i ricorrenti al pagamento della sanzione pecuniaria di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende ex art. 5 quater della L. n. 89/2001.
Avverso tale decreto proponevano opposizione ex art. 5 ter L. n. 89/2001 i ricorrenti, contestando la dichiarata inammissibilità e reiterando la domanda di indennizzo per irragionevole durata.
La Corte d’Appello di Roma in composizione collegiale, con ordinanza del 5.12.2022, chiedeva chiarimenti sul cognome corretto della dante causa di COGNOME NOME (COGNOME NOME), in
quanto menzionata nelle sentenze del TAR del Lazio n. 2738/2013 e del Consiglio di Stato del 24.12.2021 come COGNOME NOME, rimettendo la decisione all’esito delle procedure di correzione di errore materiale che sul punto il COGNOME avrebbe dovuto intraprendere davanti al TAR del Lazio ed al Consiglio di Stato, come poi in effetti avvenuto.
Il 28.6.2023 il TAR del Lazio avrebbe poi accolto l’istanza di correzione presentata da COGNOME Stefano sulla base della procura introduttiva del giudizio amministrativo di primo grado rilasciata da COGNOME NOME, mentre il Consiglio di Stato con ordinanza del 6.6.2023 avrebbe poi fissato per la discussione dell’istanza di correzione l’udienza del 14.12.2023, disponendo la produzione di documentazione attestante il cognome corretto della dante causa di COGNOME Stefano.
Nonostante la formulata richiesta di rinvio per consentire l’acquisizione delle emanande ordinanze di correzione del TAR del Lazio e del Consiglio di Stato, già richieste, la Corte d’Appello di Roma, in composizione collegiale, nella contumacia del Ministero dell’Economia e delle Finanze, con decreto n. 461/2023 del 17/20.4.2023, riteneva insussistente l’inammissibilità dell’originario ricorso, in quanto alla data del 31.10.2016 il giudizio amministrativo presupposto aveva già superato per il secondo grado la soglia della ragionevole durata e l’art. 54 comma 2 del D.L. n. 112/2008, come modificato dall’art. 3, comma 23 dell’allegato 4 al D.Lgs. 2.7.2010 n. 104, che condizionava la proponibilità della domanda di equa riparazione alla presentazione dell’istanza di prelievo, era stato dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 34 del 6.3.2019 della Corte Costituzionale. Il medesimo decreto accoglieva l’opposizione proposta da COGNOME COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME COGNOME revocando nei loro confronti il decreto opposto e condannando il Ministero dell’Economia e delle Finanze al
pagamento in loro favore dell’indennizzo di € 1.008,00 oltre interessi legali dalla domanda ed al pagamento delle spese processuali (€ 27,00 per spese ed € 750,00 per compensi, oltre accessori), da distrarre in favore dei legali antistatari, avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME rigettando invece per difetto di legittimazione attiva l’opposizione di COGNOME NOME.
Nella motivazione del decreto collegiale, la Corte d’Appello, per quanto ancora rileva, riteneva sussistente il difetto di legittimazione attiva in senso improprio di COGNOME NOME quale erede di COGNOME NOME, in quanto dagli atti del giudizio presupposto risultava avervi partecipato COGNOME NOME e non COGNOME NOME, e sosteneva che non era necessario attendere l’esito dei procedimenti di correzione dell’errore materiale davanti al TAR del Lazio ed al Consiglio di Stato promossi dal COGNOME, perché occorreva addivenire ad una celere definizione del giudizio di equa riparazione, iniziato il 21.6.2022.
Avverso tale decreto hanno proposto ricorso a questa Corte, notificato al Ministero dell’Economia e delle Finanze il 20.11.2023, COGNOME Romeo, COGNOME NOME, COGNOME NOMECOGNOME NOME, COGNOME NOME COGNOME e COGNOME NOME quale erede di COGNOME NOME, affidato a due motivi, e producendo l’ordinanza di correzione della sentenza n. 2738/2013 del 18.3.2013 del TAR del Lazio dallo stesso emessa il 28.6.2023.
Il Ministero è rimasto intimato.
I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c., producendo con essa l’ordinanza di correzione della sentenza n. 8586 del 24.12.2021 del Consiglio di Stato, dallo stesso emessa su richiesta di COGNOME Stefano il 12.12.2023, e la causa è stata trattenuta in decisione nell’adunanza camerale del 9.7.2024.
1) Col primo motivo i ricorrenti lamentano, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) e 5) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 111 della Costituzione e dell’art. 2 comma
2 bis della L. n. 89/2001, per l’illegittima detrazione di periodi superiori ai due anni nel secondo grado del giudizio presupposto. Si dolgono i ricorrenti che la Corte d’Appello abbia detratto dalla durata complessiva del giudizio presupposto (di primo e di secondo grado) di nove anni, cinque mesi e 21 giorni, il periodo complessivo di tre anni per il giudizio di primo grado e di due anni per quello di secondo grado, ossia di cinque anni, determinando in quattro anni la durata irragionevole del giudizio presupposto, mentre i ricorrenti, poiché il giudizio davanti al TAR del Lazio era durato circa un anno, e quindi meno dei tre anni ritenuti congrui dalla Legge Pinto, avevano espressamente richiesto l’indennizzo per equa riparazione per il secondo grado di giudizio davanti al Consiglio di Stato, per il quale il termine di durata ritenuto congruo dalla Legge Pinto era di due anni, per cui la Corte d’Appello avrebbe dovuto determinare in sette anni e non in quattro anni la durata irragionevole del giudizio presupposto.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile ex art. 360 bis n. 1) c.p.c., in quanto non si confronta con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo la quale, in materia di equa riparazione, non è ammesso il calcolo frazionato per gradi della durata irragionevole del giudizio presupposto, che va stabilita unitariamente (vedi in tal senso Cass. 20.3.2023 n. 7943; Cass. 5.7.2022 n. 21194; Cass. 30.10.2019 n. 27782; Cass. 21.1.2019 n. 1520; Cass. 13.4.2006 n. 8717), e non ha offerto elementi per mutare tale consolidato orientamento.
2) Col secondo motivo, articolato dal solo COGNOME NOME, quale erede di COGNOME NOME, lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n.3) e n. 5) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 111 della Costituzione, dell’art. 1 bis comma 2 e dell’art. 2 della L.n.89/2001 e degli artt. 287 e 288 c.p.c., dolendosi dell’illegittimo diniego del suo diritto all’equa riparazione per l’eccessiva durata del giudizio amministrativo sopra
indicato per il mancato riconoscimento dell’efficacia sanante retroattiva dell’ordinanza di correzione dell’errore materiale che era contenuto nella sentenza del TAR del Lazio n. 2738/2013, poi seguita dall’ordinanza di correzione del Consiglio di Stato del 12.12.2023 (prodotta dal ricorrente con la memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.), riferita alla sentenza dallo stesso emessa il 24.12.2021 n. 8586, che aveva concluso il giudizio presupposto.
Rileva il COGNOME che per giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, l’omessa, o inesatta indicazione del nome di una delle parti nell’intestazione di una sentenza, è considerata come un mero errore materiale, emendabile con la procedura di correzione di cui agli articoli 287 e 288 c.p.c. quando dal contesto della sentenza risulti con sufficiente chiarezza l’esatta identità delle parti (Cass. n.22275/2017; Cass. n. 11972/2003), e che se la correzione dell’errore materiale in ordine all’identificazione di una delle parti interviene ad opera del giudice che ha commesso l’errore dopo oltre un anno dalla pubblicazione della sentenza e dalla proposizione dell’appello, in assenza di specifica impugnazione sul punto, la sentenza corretta si considera emessa ex tunc nei confronti della parte effettiva (Cass. n. 5888/1999).
Sulla base di questi principi, poiché il nome della sua dante causa, malgrado l’erronea indicazione contenuta nelle sentenze del giudizio presupposto poi corrette, era COGNOME NOME e non COGNOME NOME, soggetto inesistente, e poiché la correzione aveva efficacia retroattiva, la Corte d’Appello di Roma avrebbe dovuto accogliere la domanda di equa riparazione fatta propria da COGNOME StefanoCOGNOME in quanto figlio ed avente causa dell’originaria ricorrente, COGNOME NOME.
Il secondo motivo è fondato e merita accoglimento per le considerazioni che seguono.
Anzitutto deve ritenersi ammissibile, in deroga all’art. 372 c.p.c., la produzione da parte di COGNOME NOME dell’ordinanza di correzione
di errore materiale del TAR del Lazio del 28.6.2023 riferita alla sentenza n. 2738/2013 pubblicata il 18.3.2013, conclusiva del primo grado del giudizio presupposto, e dell’ordinanza di correzione del Consiglio di Stato del 12.12.2023 riferita alla sentenza dallo stesso emessa il 24.12.2021 n.8586, che ha concluso in secondo grado il giudizio presupposto.
Tali ordinanze hanno riconosciuto che per mera svista le sentenze suindicate sono state pronunciate nei confronti di COGNOME NOME quale erede dell’originaria ricorrente COGNOME NOME, anziché nei confronti di COGNOME NOME quale erede di COGNOME NOME.
Tale prova documentale, pubblicata e resa disponibile dopo la pubblicazione del decreto della Corte d’Appello di Roma impugnato del 17/20.4.2023, può essere prodotta in questa sede, in quanto prova di un fatto sopravvenuto incidente sulla situazione giuridica controversa costituita dalla spettanza, o meno a COGNOME COGNOME quale erede dell’originaria ricorrente COGNOME COGNOME del diritto all’equa riparazione per durata irragionevole del procedimento amministrativo presupposto, conclusosi per il COGNOME con le sentenze corrette summenzionate, e quindi equiparabile anche in considerazione del principio della ragionevole durata del processo, costituzionalmente garantita, allo ius superveniens, (vedi in tal senso in materia di sopravvenienza di un provvedimento amministrativo di espropriazione nei giudizi di risarcimento danni per occupazione senza titolo Cass. 24.11.2020 n. 26757; Cass. 17.4.1982 n. 2341; Cass. 14.5.1981 n. 3173; Cass. 26.3.1980 n. 2010), in quanto la correzione è un atto dovuto assimilabile ad un atto amministrativo e non è espressione di un potere giurisdizionale, tanto che nel relativo procedimento di norma non si provvede sulle spese processuali (Cass. 29.9.2023 n. 27681; Cass. 22.6.2020 n. 12184; Cass. 6.11.2019 n. 28610; Cass. 19.3.2018 n. 6701; Cass. 22.2.2017 n. 4610; Cass. 18.11.2016 n.23578;
Cass. 4.1.2016, n. 14; Cass. 17.9.2013, n.21213; Cass. 28.3.2008, n. 8103).
Le ordinanze di correzione, ora acquisite, peraltro, sono potute intervenire in quanto già nella procura ad litem rilasciata per il giudizio presupposto, al di là dell’erronea intestazione della procura, così come del ricorso introduttivo e dell’iscrizione a ruolo della causa, a COGNOME, vi era la leggibile sottoscrizione di COGNOME, della quale peraltro era riportato esattamente nella procura e nell’intestazione del ricorso il codice fiscale CODICE_FISCALE che consentiva di identificare in modo certo la parte effettiva del giudizio in COGNOME RAGIONE_SOCIALE e non in RAGIONE_SOCIALE.
Il COGNOME, peraltro, a seguito della sollecitazione della Corte d’Appello, aveva tempestivamente avviato le procedure di correzione delle sentenze di primo e di secondo grado del giudizio presupposto, rispettivamente davanti al TAR del Lazio ed al Consiglio di Stato, anche se le ordinanze conclusive di tali procedure sono sopravvenute all’emanazione del decreto della Corte d’Appello in questa sede impugnato, certamente non per responsabilità del COGNOME. Non risulta del resto in alcun modo che COGNOME NOME fosse un soggetto effettivamente esistente, e dal codice fiscale CODICE_FISCALE origine correttamente riportato nel ricorso introduttivo del giudizio presupposto e nella relativa procura, che è l’unico che garantisce l’identificazione sicura della parte e per questo motivo figura tra i requisiti dell’atto di citazione all’art. 163 n. 2) c.p.c., valevoli anche per il ricorso, prima ancora dell’indicazione del nome e del cognome, emerge che il cognome del soggetto con esso identificato poteva essere COGNOME NOME, ma non COGNOME NOME, giacché altrimenti il codice fiscale medesimo sarebbe iniziato con le lettere GRR e non GRN.
La correzione, peraltro, produce effetto retroattivo e fa sì che le sentenze emendate dall’errore materiale commesso, si considerino
emesse ex tunc nei confronti della parte effettiva (Cass. n.5888/1999), ossia di COGNOME NOME quale erede di COGNOME NOME.
In conclusione, accolto il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo, il decreto impugnato va cassato in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, in diversa