Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 8807 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 8807 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 03/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 14282/2018 r.g. proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi, per delega a margine del ricorso per cassazione, dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO , elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo in Roma, INDIRIZZO.
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale in calce al controricorso, su foglio separato, dall’AVV_NOTAIO, ed
elettivamente domiciliato presso l’AVV_NOTAIO del foro di Roma, in INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Cagliari n. 133/2017, depositata in data 7 aprile 2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/3/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOMEAVV_NOTAIO ;
RILEVATO CHE:
Il RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE emetteva decreto di occupazione di urgenza n. 56 del 20 giugno 1996, con avvertimento che il 30 luglio 1996 vi sarebbe stata l’immissione in possesso, con riferimento agli immobili di cui al foglio 68, mappali, 2,3,4,6,7,8,20,23 e 34, nonché di cui al foglio 55, mappali 31 e 34, nella titolarità di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, per la superficie complessiva di mq 23.117; ciò al fine della realizzazione dello svincolo tra la INDIRIZZO e gli accessi alla ZIR (RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE) di RAGIONE_SOCIALE. Tale decreto di occupazione era privo dei termini per l’occupazione stessa e per la procedura espropriativa. Non si procedeva all’immissione in possesso dei beni.
Agivano, quindi, in giudizio, con atto di citazione del 31 gennaio 2000, gli attori NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME dinanzi al tribunale di Nuoro, citando in giudizio il RAGIONE_SOCIALE, e deducendo che né nel decreto di occupazione di urgenza, né nel provvedimento di approvazione del progetto, erano stati indicati i termini entro cui si sarebbe dovuto completare il
procedimento di esproprio e che l’opera pubblica, comunque, non era stata realizzata. Chiedevano, dunque, che venisse dichiarata la illegittimità dell’occupazione, con condanna del RAGIONE_SOCIALE convenuto al risarcimento dei danni.
Il RAGIONE_SOCIALE si costituiva in giudizio deducendo che gli attori non avevano mai perso la disponibilità dei terreni e che l’opera pubblica non era stata mai realizzata, chiedendo pertanto che venisse dichiarata la improponibilità della domanda.
3.Una volta decorsi cinque anni, e comunque nelle more della pendenza del giudizio di prime cure, il RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE emanava un nuovo decreto di occupazione di urgenza, essendo scaduto quello precedente, con provvedimento n. 67 del 27 settembre 2002, con la successiva immissione in possesso in data 2 novembre 2002, stavolta per mq 29.711.
4. Il tribunale di Nuoro, dopo l’espletamento di una prima CTU, affidata all’AVV_NOTAIO, rigettava l’eccezione di improponibilità della domanda attorea, in quanto le condizioni dell’azione erano maturate in corso di causa, poiché «i fatti dedotti nell’atto di citazione si sono comunque verificati, sussistendo pertanto, allo stato, l’RAGIONE_SOCIALE alla tutela invocata». In corso di causa, infatti, si era realizzata, con l’occupazione effettiva dei terreni, a partire dal 2 novembre 2002, anche l’irreversibile trasformazione del fondo, in assenza del completamento della procedura di esproprio, non avendo la pubblica amministrazione provveduto alla emanazione del decreto di esproprio. La domanda di risarcimento dei danni non poteva allora qualificarsi come nuova essendo stata, peraltro, riformulata nei termini di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c., tenendo conto del nuovo decreto di occupazione di urgenza.
Inoltre, il tribunale evidenziava che trattavasi di terreni agricoli, prospettando due diverse ipotesi di calcolo (per il valore base di euro
1,00 al mq), a seconda che la superficie occupata fosse da considerarsi pari a ha 3.26.02 oppure ha 2.22.13; nel primo caso il valore dei terreni era di euro 32.833,18, mentre l’indennità di occupazione era di euro 5472,18, mentre nel secondo caso il valore dei terreni era di euro 22.370,51 e l’indennità di occupazione di euro 3728,41.
Esponeva peraltro il tribunale che poiché «il CTU ha chiarito che le superfici che effettivamente risultano essere state oggetto di esproprio risultano pari a ha 2.22.13, si ritiene maggiormente attendibile la valutazione eseguita con riferimento a tale parametro».
Tuttavia, nel dispositivo si stabiliva espressamente: «accoglie la domanda di risarcimento del danno proposta dagli attori e per l’effetto condanna parte convenuta al pagamento, a titolo di danno, in suo favore della somma pari ad euro 32.833,18, pari al valore venale del bene oltre interessi dalla data di perfezionamento della fattispecie risarcitoria e rivalutazione monetaria».
4. Avverso tale sentenza proponevano appello principale gli attori deducendo che, in realtà, il RAGIONE_SOCIALE, aveva rinnovato il decreto di occupazione di urgenza notificato avente ad oggetto l’apprensione delle stesse aree, ma per la maggiore superficie di mq 29.711 (anziché mq 23.117). Con il primo motivo di appello si deduceva che il CTU avesse erroneamente ritenuto agricoli i terreni, occupati per la superficie di complessive ha 3.26.02, non avendo tenuto conto della classificazione urbanistica delle aree, da qualificare come edificabili a tutti gli effetti. Tra l’altro, il consulente tecnico di parte attrice aveva stimato i beni per la somma complessiva di euro 871.265,53, pari ad euro 26,72 m².
Il secondo motivo di appello si soffermava, invece, sulla omessa pronuncia del giudice di prime cure sulla domanda di liquidazione del danno o ‘indennità’ da occupazione temporanea, che pure era stata
ritualmente formulata, tanto che il CTU ne aveva stimato l’importo in euro 5472,18, seppure per solo un biennio (cioè dall’immissione in possesso del 2 novembre 2002 sino alla notifica del preteso deposito degli atti espropriativi al 19 ottobre 2004). La durata peraltro doveva essere di 5 anni, ossia dall’immissione in possesso del 2/11/2002 sino al 2/11/2007.
Avverso la medesima sentenza proponeva appello incidentale il RAGIONE_SOCIALE, deducendo che correttamente il tribunale si era riferito ad un’estensione di aree espropriate pari ad ha 2.22.13, fermo restando che doveva essere detratta la somma poi trasferita dall’apparente intestatario catastale, NOME COGNOME, agli attori, oltre alla somma di euro 46.864,68, già liquidata in favore degli attori.
In particolare, evidenziava che gli attori avevano agito nei confronti del primo decreto di occupazione di urgenza n. 56 del 20 giugno 1996 del sindaco di RAGIONE_SOCIALE e con riferimento alla pretesa avvenuta irreversibile destinazione dell’area. In realtà, gli attori erano ancora, al momento dell’atto di citazione e della comparsa di costituzione in prime cure del 18 marzo 2000, nella completa disponibilità dell’area e nella piena titolarità dei terreni. Pertanto, la domanda proposta dagli attori in atto di citazione e finalizzata ad ottenere il risarcimento dei danni da accessione invertita, doveva essere dichiarata inammissibile. Non poteva essere condivisa la tesi del primo giudice che reputava verificate le condizioni dell’azione in corso di causa, consentendo agli attori di riformulare la domanda di risarcimento dei danni ex art. 184 c.p.c. In realtà gli attori introducevano in tal modo nuove domande risarcitorie, riferite al secondo decreto di occupazione di urgenza del 27 settembre 2002.
La Corte d’appello di Cagliari, dopo l’espletamento di una nuova CTU, affidata al medesimo consulente tecnico d’ufficio,
rigettava l’appello incidentale del RAGIONE_SOCIALE ed accoglieva il gravame proposto dagli attori.
Con riferimento all’appello incidentale, la Corte territoriale rilevava che gli attori, sin dall’inizio, non perseguivano l’RAGIONE_SOCIALE al recupero del bene oggetto di occupazione di urgenza (decreto n. 56 del 1996), ma chiedevano il risarcimento del danno, la cui sussistenza, però, doveva essere valutata al momento della decisione, anche perché era stato allegato che all’originario decreto non erano stati apposti i termini, mentre i proprietari sarebbero stati privati della disponibilità del bene. Inoltre, doveva tenersi conto della intervenuta realizzazione dell’opera pubblica in corso di causa a seguito dell’emissione di un nuovo decreto d’occupazione, sicché non sussistevano preclusioni di rito in tema di precisazione della domanda, che risultava già «compiutamente identificata ai relativi fatti costitutivi». Non vi era stata soluzione di continuità rispetto alla fattispecie illecita iniziata con il decreto del 1996, anche se il danno si era concretizzato negli effetti materiali solo nel 2002, a seguito del decreto di occupazione di urgenza del 27 settembre 2002.
Con riferimento all’appello principale degli attori, la Corte territoriale muoveva dalla premessa per cui era ormai divenuta irretrattabile la determinazione della superficie delle aree occupate, che era di metri quadrati 23.117 (ha 2.22.12) e non 29.711 – ha 3.26.02- («gli appellanti hanno censurato la quantificazione del danno operata dal tribunale sulla base della valutazione del valore venale del fondo qualificato ‘irriguo’ quando era invece evidente la vocazione edificatoria dell’immobile, individuato correttamente con i relativi dati catastali. Ferma l’estensione del terreno individuata dal primo giudice, statuizione avverso la quale non è stata formulata specifica censura, attraverso la consulenza espletata nel presente
giudizio, è stato accertato che il terreno, sito in una zona RAGIONE_SOCIALE, è soggetto ad un indice di edificabilità pari ad 1,23 mc/mq, da applicare su un’area occupata pari a ha 2.22.12»).
Il valore al metro quadrato era di euro 350,00, «con riferimento al valore medio dei capannoni industriali nuovi alla data dell’irreversibile occupazione», per un importo complessivo di euro 139.721,78.
Da tale somma dovevano essere detratte quelle già versate dal RAGIONE_SOCIALE in data 16/6/06, per euro 25.964,35 e in data 18/4/12 per euro 46.864,00.
Quanto alla domanda relativa all’occupazione temporanea la stessa doveva ritenersi assorbita a seguito dell’accoglimento del primo motivo di gravame.
L’irreversibile trasformazione era avvenuta con l’immissione in possesso risalente al 2 novembre 2002, in esecuzione del nuovo decreto di occupazione di urgenza n. 67 del 2002.
Era fondato anche il terzo motivo di appello principale relativo alla erronea compensazione delle spese, che invece dovevano gravare interamente sul RAGIONE_SOCIALE, per il principio della soccombenza.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli attori, depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con controricorso il RAGIONE_SOCIALE, depositando anche memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono «la violazione e falsa applicazione degli articoli 2909 c.c., 1362 e seguenti c.c. e 329 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.». In realtà, assumono i ricorrenti che, come già rilevato in primo grado, il medesimo CTU aveva confermato, nella sua rinnovata
consulenza tecnica d’ufficio svolta in sede d’appello, che la superficie effettivamente occupata dalla ZIR (RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE) RAGIONE_SOCIALE era pari ad ha 3.26.02. Tuttavia, mentre il CTU, in grado di appello, reputando i terreni di natura edificatoria, aveva accertato il valore complessivo in euro 205.041,08, per un valore unitario al metro quadrato di euro 6,289, la Corte d’appello aveva moltiplicato il valore unitario al metro quadrato per la superficie inferiore di ha 2.22.13, reputando che tale dato non poteva essere certamente rettificato d’ufficio «in assenza di specifica doglianza», sussistendo un giudicato interno su tale aspetto.
In realtà, la Corte territoriale si era limitata ad assumere un unico dato letterale, che appariva invece frutto di un mero errore materiale. Infatti, in motivazione il tribunale aveva indicato l’estensione della superficie occupata in ha 2.22.13, mentre in dispositivo ha condannato il RAGIONE_SOCIALE a pagare la somma di euro 32.833,18, ossia proprio quella che il CTU aveva posto in relazione alla superficie maggiore di ha 3.26.02.
Tra l’altro, il RAGIONE_SOCIALE aveva sempre notificato i provvedimenti di occupazione ai NOME COGNOME, quali proprietari effettivi dei suoli, pur se catastalmente intestati ad altri. Inoltre, aveva evidenziato di aver già corrisposto, per gli stessi titoli, a NOME COGNOME, quale intestatario apparente, per il suolo della superficie di ha 1.03.89 la somma di euro 25.964,35, da doversi quindi detrarre da quella ancora da corrispondersi agli attori. La somma, dunque, era stata corrisposta ai COGNOME, benché a mani del COGNOME.
La sentenza di prime cure, allora, era passata in giudicato ai sensi dell’art. 329 c.p.c., stante l’intervenuta acquiescenza da parte del RAGIONE_SOCIALE.
La violazione del giudicato interno integrerebbe il vizio di nullità del procedimento e/o della sentenza di cui all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.
Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano la «violazione e falsa applicazione degli articoli 112 e 342 c.p.c., art. 1362 e seguenti c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
In ipotesi subordinata, volendo ritenere che il disposto giudiziale di prime cure si riferisca effettivamente alla superficie occupata del suolo di ha 2.22.13, sarebbe erronea l’affermazione della Corte d’appello per cui «non è stata formulata specifica censura» in ordine alla effettiva superficie occupata e che «l’estensione identificata in primo grado non può certamente essere rettificata d’ufficio in assenza di specifica doglianza».
La Corte territoriale non avrebbe proceduto, in violazione degli ordinari criteri ermeneutici, ad una corretta disamina dell’atto d’appello, del suo contenuto, della sostanza della domanda dallo stesso portata e della sua ampiezza. In realtà, nell’illustrazione dei motivi d’appello l’ammontare della somma richiesta a titolo di risarcimento «è domandata sempre e soltanto secondo il valore del suolo direttamente proporzionale alla superficie di ha 3.26.02 con la quale è posto un nesso stringente e diretto».
Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la «violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e 101 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
La Corte d’appello, infatti, ha provveduto alla detrazione dalla somma dovuta pari ad euro 139.721,78, delle somme di euro 25.964,35 e 46.864,00, senza che però vi fosse una specifica domanda di parte.
Solo in sede d’appello il RAGIONE_SOCIALE avrebbe citato l’avvenuto pagamento della somma di euro 25.964,35, senza però che tale deduzione « in una specifica domanda, peraltro inammissibile in quella sede».
Si tratterebbe di somme di spettanza dei NOME COGNOME, ma corrisposte dal RAGIONE_SOCIALE a NOME COGNOME, quale intestatario catastale di quella parte del suolo che lo stesso giudice di secondo grado aveva lasciato al di fuori dell’oggetto di risarcimento.
Inoltre, quanto al pagamento dell’ulteriore somma di euro 46.864,00, benché si possa allegare in appello il fatto nuovo sopravvenuto e rilevante per il giudizio «quale è un pagamento parziale, va da sé che tale allegazione debba pur essere in qualche modo circostanziata, e cioè essere dotata di quei minimi requisiti di precisione, concretezza e specificazione che ne consentano una possibile sussunzione nella fattispecie oggetto del giudizio».
Il giudice d’appello, dunque, sarebbe incorso nel vizio di ultrapetizione, avendo pronunciato oltre quanto ad esso domandato dall’appellato RAGIONE_SOCIALE.
Con il quarto motivo di impugnazione i ricorrenti si dolgono della «violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione alla violazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
In subordine, ove si ritenga che si sia formato uno giudicato interno in ordine alla minore estensione della superficie occupata, pari ad ha 2.22.13, l’indebita deduzione della somma di euro 25.964,35, già pagata dal RAGIONE_SOCIALE a mezzo di NOME COGNOME, potrebbe essere contestata anche sotto il profilo della violazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. Vi sarebbe, insomma, una motivazione illogica e contraddittoria del giudice di secondo grado.
Infatti, la Corte territoriale avrebbe posto due proposizioni antitetiche: da una parte non ritenere occupata una superficie per la quale esclude il risarcimento ai COGNOME (ha 2.22.13 in luogo della maggiore superficie di ha 3.26.02, proprio perché una porzione era intestata al COGNOME); dall’altra, detrae dal risarcimento ancora dovuto ai COGNOME, per la minore estensione di ha 2.22.13, proprio la somma percepita per quell’altra superficie che il giudice aveva appena escluso dall’oggetto dell’occupazione.
Pertanto, o doveva prospettarsi il risarcimento agli attori per l’intera superficie occupata di ha 3.26.02, con la detrazione dall’ammontare totale del risarcimento della somma già corrisposta in acconto per una porzione dei terreni, oppure si doveva considerare come superficie occupata di proprietà COGNOME solo quella minore di ha 2.22.13, ma in tal caso non si poteva detrarre la somma corrisposta ad altri, a ristoro della distinta e ulteriore occupata superficie di ha 1.03.89.
Con il quinto motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano la «violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione alla violazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
Rilevano i ricorrenti che, benché il giudice sia libero di apprezzare o preferire una risultanza probatoria in luogo di un’altra, tale libero apprezzamento, dinanzi ad un panorama probatorio di diverso segno, dovrebbe essere sorretto da adeguata motivazione.
Non può non considerarsi che, mentre il CTU, sia pure in secondo grado, ha valutato l’area occupata in euro 205.000,00, la Corte territoriale ha del tutto trascurato che nella valutazione espressa dalla stessa parte appellata, ossia dal RAGIONE_SOCIALE, la superficie occupata era stata determinata per un valore di euro 386.000,00, «secondo il suo spontaneo apprezzamento, di fatto di valore confessorio».
Con il sesto motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano anche la «violazione e falsa applicazione degli articoli 1193, 1194 e 1196 c.c., in relazione alla violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Il giudice di merito di secondo grado, anziché rimettere l’operazione ad un consulente contabile, ha proceduto autonomamente al calcolo delle detrazioni dei pagamenti interlocutori avvenuti prima del risarcimento del danno. Tuttavia, il giudice avrebbe applicato tali detrazioni «in scoperta violazione delle regole che presiedono all’imputazione dei pagamenti, imputando i pagamenti parziali direttamente e solo al capitale anziché prima ad interessi e spese».
In tal modo, dunque, la Corte territoriale, avrebbe detratto dal capitale «non altre nude somme capitali ma somme ‘lorde’, comprensive cioè di spese materiali – quali spese legali, contributo unificato, spese di registrazione etc. – che non andavano affatto detratte, avendo altra natura e, soprattutto, dovendo essere stare a carico del debitore soccombente».
Va esaminato prioritariamente, per ragioni logiche, il quarto motivo di impugnazione, in cui si deduce, come violazione dell’art. 132 c.p.c., la motivazione non solo «illogica e contraddittoria», ma anche fondata su «due proposizioni così antitetiche».
7.1. Il motivo è inammissibile.
Invero, i ricorrenti hanno articolato il motivo di ricorso per cassazione, con riferimento alla motivazione del giudice d’appello, facendo riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nella stesura anteriore alle modifiche apportate con il decreto-legge n. 83 del 2012, convertito nella legge n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze pubblicate a decorrere dall’11 settembre 2012.
Ed infatti, per questa Corte la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., sez.un., 7 aprile 2014, n. 8053); con la precisazione che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di
per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez.un., 7 aprile 2014, n. 8053).
In realtà, non si ravvisa in modo chiaro la pretesa illogicità della motivazione. La Corte di appello, infatti, ha ritenuto che il giudice di prime cure avesse computato la superficie dei suoli nella minore ampiezza di mq. 23.117, in luogo di quella maggiore posta a basa del ricorso degli attori, pari a mq. 29.711; mentre il riferimento alle somme pagate in precedenza, ai COGNOME ed al COGNOME, che poi le avrebbe consegnate ai primi, non rende incomprensibile la motivazione, né si ravvisa nella stessa un contrasto o una contraddizione insanabili.
Vanno, poi, esaminati congiuntamente i motivi primo e secondo, per ragioni di stretta connessione, che risultano fondati nei termini di cui motivazione.
8.1. Anzitutto, si ravvisa l’ammissibilità di entrambi i motivi di gravame, diversamente da quanto prospettato dal RAGIONE_SOCIALE controricorso.
Per il controricorrente, infatti, tali motivi di ricorso sarebbero inammissibili perché gli attori avrebbero dovuto procedere dinanzi alla Corte d’appello o al tribunale di prime cure, utilizzando lo strumento della correzione degli errori materiali, di cui all’art. 287 c.p.c.
In realtà, la vera questione in giudizio, non è quella relativa ad un errore materiale commesso dal giudice di prime cure, che avrebbe in motivazione indicato la superficie occupata dal RAGIONE_SOCIALE in mq 23.117, per poi invece, in dispositivo, computare il valore dell’area in euro 32.833,18, ossia proprio la somma relativa ad una superficie
maggiore, di mq 29.711, ma è quella relativa all’esatta interpretazione dell’estensione dei motivi di appello principale articolati dagli attori con l’impugnativa della sentenza di prime cure.
8.2. Neppure è condivisibile quanto affermato dal RAGIONE_SOCIALE, per cui gli attori COGNOME non avrebbero dedotto tale ipotetico ‘ error in procedendo ‘ eventualmente commesso dal giudice di prime cure, nel contrasto tra motivazione e dispositivo, in quanto «il relativo vizio neppure è rilevabile in sede di legittimità», essendo intervenuto sul punto il giudicato interno, in quanto «i casi di nullità del procedimento e delle sentenze, si traducono in motivi di impugnazione.
Infatti, ove venga dedotto, come nella specie, anche attraverso il secondo motivo di impugnazione che attiene all’erronea applicazione dell’art. 342 c.p.c., un errore del giudice di merito, in ordine all’effettivo contenuto dei motivi di appello principale redatti dagli attori COGNOME, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto e può procedere all’esame degli atti processuali.
8.3. Va respinta anche l’ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione per violazione del principio di autosufficienza. A giudizio del RAGIONE_SOCIALE gli attori si sarebbero limitati «ad estrapolare secondo convenienza alcuni passi della sentenza d’appello per porli a confronto con la parte (pure estrapolata) motiva e dispositivo della sentenza del tribunale di Nuoro». Non sarebbe invece ravvisabile «alcuna specificazione sui passi degli atti processuali da cui evincere che l’area effettivamente occupata quale di proprietà dei COGNOME cui si fa riferimento in tutto il giudizio, sia di primo che di secondo grado, è quella di ha 3.26.02».
Non v’è nessun richiamo specifico, «né riproduzione più precisa, è fatta alla CTU di primo grado nanti il Tribunale».
Altrettanto generico sarebbe il richiamo «ai passaggi della CTU disposta in appello, che dovrebbero avvalorare l’avversa tesi»; e infatti, anche quando la Corte di cassazione sia ‘giudice del fatto’ ( error in procedendo ), comunque, è necessaria la preventiva valutazione di ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente sarebbe tenuto a specificare in maniera puntuale i fatti processuali alla base dell’errore denunciato.
In realtà, pur condividendosi l’affermazione per cui il ricorso per cassazione, e segnatamente i motivi primo e secondo, attengono all’eventuale « error in iudicando » commesso dal giudice d’appello, nella interpretazione e valutazione dell’ampiezza dell’appello principale articolato dagli attori, nei motivi di ricorso sono indicati i passaggi fondamentali, sia pure in sintesi, dei motivi di appello principale.
Si legge, infatti, a pagina 12 del ricorso per cassazione che «è nel corpo dell’atto, cioè nell’illustrazione dei motivi d’appello, la riforma dell’ammontare del risarcimento disposto dal primo giudice è domandata sempre e soltanto secondo il valore del suolo direttamente proporzionale alla superficie di ha 3.26.02 con la quale è posto un nesso stringente e diretto. Ci si riferisce sempre, nei motivi d’appello, alla detta superficie, per ampiezza, caratteristiche e valore e per essa viene chiesta e disposta la rinnovazione della CTU: la quale, peraltro, sempre alla detta superficie si riferisce».
Trattasi, evidentemente, di una tecnica redazionale, sia pure molto sintetica, che però, risulta efficace ai fini della individuazione degli atti processuali in cui si rinvengono le effettive deduzioni degli attori ai fini della richiesta di risarcimento dei danni.
8.4. Non risulta fondata pure l’ulteriore eccezione relativa alla estrema genericità dell’articolazione del primo motivo di gravame.
Per il RAGIONE_SOCIALE controricorrente, in caso di deduzione di violazione del giudicato interno, non vi sarebbe traccia, nella parte espositiva del ricorso, dei precisi «canoni ermeneutici violati e per contro genericamente indicati quali ‘violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 ss. c.c.’».
Tanto più, che la Corte di cassazione, a sezioni unite, ha stabilito che, ai fini dell’interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali si deve fare applicazione, in via analogica, ai canoni ermeneutici prescritti dagli articoli 12 e seguenti delle disp. att. c.p.c.
Deve sul punto rilevarsi, che, in realtà, la censura dei ricorrenti attiene alla corretta interpretazione dell’atto di appello principale, ove sarebbe stata specificamente contestata anche l’erronea individuazione della porzione di superficie effettivamente occupata.
9. Deve, dunque, premettersi che per costante orientamento di questa Corte, allorquando sia denunciato un ‘ error in procedendo ‘, è anche giudice del fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia, non essendo il predetto vizio rilevabile ‘ ex officio ‘, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (Cass., sez. 1, 2 febbraio 2017, n. 2771).
Inoltre, per questa Corte, a sezioni unite, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a
suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito – e quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. (Cass., Sez.U., 22 maggio 2012, n. 8077).
Si chiarisce, infatti, che ‘fatto processuale’ è quello che ha rilevanza ai fini dello svolgimento del processo, che cioè è idoneo a produrre effetti su rapporto processuale. Pertanto, come per ogni evento della realtà non lo si può percepire senza, per ciò stesso, dargli un significato: senza, quindi interpretarlo ed è, almeno sotto certi aspetti, valutarlo per intenderne gli effetti, giacché sono proprio i suoi effetti – in termini di eventuale nullità della sentenza o del procedimento – a formare oggetto del giudizio di cassazione. Se si afferma, allora, che la Corte di cassazione è giudice del fatto processuale, non si può non dedurne che le compete percepire direttamente e pienamente quel fatto, apprezzarne la portata ed individuare il significato e la concreta idoneità a produrre effetti nel processo, perché solo in tal modo è possibile vagliarne la conformità al modello legale.
Con la precisazione, però, che è necessario, ovviamente, che si dia rilevanza a quei vizi del processo che si sostanziano nel compimento di un’attività deviante rispetto alla regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore.
Tuttavia, non essendo l’ error in procedendo rilevabile ” ex officio “, né potendo la Corte ricercare e verificare autonomamente i documenti interessati dall’accertamento, è necessario che la parte
ricorrente non solo indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, ma anche che illustri la corretta soluzione rispetto a quella erronea praticata dai giudici di merito, in modo da consentire alla Corte investita della questione, secondo la prospettazione alternativa del ricorrente, la verifica della sua esistenza e l’emenda dell’errore denunciato (Cass., Sez.U., 25 luglio 2019, n. 20181; Cass., sez. 1, 2 febbraio 2017, n. 2771).
Diverso è, invece, il caso in cui lo stesso legislatore abbia conferito al giudice di merito il potere di operare nel processo scelte discrezionali, come il potere di disporre o meno una consulenza tecnica.
Tali principi sono stati recentemente ribaditi da questa Corte, la quale ha affermato che, in tema di ricorso per cassazione, la deduzione della omessa pronuncia su un motivo di appello – per erronea lettura del suo contenuto da parte del giudice di merito integra un ” error in procedendo ” che legittima il giudice di legittimità all’esame degli atti del giudizio, in quanto l’oggetto di scrutinio attiene al modo in cui il processo si è svolto, ossia ai fatti processuali che quel vizio possono aver provocato; tale deduzione presuppone, comunque, che la censura sia stata formulata nel rispetto delle norme di contenuto-forma del ricorso (Cass., sez. 3, 7 giugno 2023, n. 16028; Cass., sez. L, 5 agosto 2019, n. 20924).
Va anche aggiunto che, mentre nell’interpretazione dei provvedimenti giurisdizionali si deve fare applicazione, in via analogica, dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 12 e seguenti delle preleggi, in ragione dell’assimilabilità di tali provvedimenti, per natura ed effetti, agli atti normativi (Cass., sez. 3, 29 novembre 2018, n. 30838), nell’interpretazione degli atti processuali delle parti occorre, fare riferimento ai criteri di ermeneutica di cui all’art. 1362 cod. civ., che valorizzano l’intenzione delle parti e che, pur essendo
dettati in materia di contratti, hanno portata generale (Cass., sez. 3, 1 settembre 2022, n. 25826; Cass., sez. 2, 21 febbraio 2014, n. 4205; Cass. Sez. U., 9 maggio 2008, n. 11501).
10. Dall’esame degli atti di causa, quindi, emerge che il tribunale di prime cure ha ritenuto, dopo l’espletamento della prima CTU, che la superficie effettivamente occupata fosse di mq 23.117 (ha 2.22.13), e non mq 29.711 (ha 3.26.02), pur probabilmente incorrendo in un errore materiale nel dispositivo della sentenza.
Infatti, si legge in motivazione che «il consulente tecnico ha determinato in euro 32.833,18, il valore venale del suolo effettivamente occupato (nell’ipotesi in cui si ritenga che la superficie occupata sia pari a ha 3.26.02) ed in euro 5472,18 (nel medesimo caso) l’indennità di occupazione; ha determinato invece in euro 22.370,51 il valore venale dei terreni nell’ipotesi in cui si ritenga che la superficie occupata sia pari ad ha 2.22.13 e l’indennità di occupazione in euro 3728,41 per indennità di occupazione nella medesima ipotesi», precisando però che «considerato che il CTU ha chiarito che le superfici che effettivamente risultano essere state oggetto di esproprio risultano pari a ha 2.22.13, si ritiene maggiormente attendibile la valutazione eseguita con riferimento a tale parametro».
Tuttavia, successivamente nel dispositivo si fa riferimento alla somma di euro 32.833,18, che attiene, appunto, alla maggiore superficie di ha 3.26.02 («accoglie la domanda di risarcimento del danno proposta agli attori e per l’effetto condanna parte convenuta al pagamento, a titolo di danno, in suo favore della somma pari ad euro 32.833,18, pari al valore venale del bene oltre interessi dalla data di perfezionamento della fattispecie risarcitoria e rivalutazione monetaria»).
10.1. Deve farsi applicazione del principio giurisprudenziale di legittimità per cui nell’ordinario giudizio di cognizione, l’esatto contenuto della sentenza va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione, nella parte in cui la medesima riveli l’effettiva volontà del giudice. Ne consegue che va ritenuta prevalente la parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del ” dictum ” giudiziale (Cass., sez. 6-1, 18 ottobre 2017, n. 24600; Cass., sez. 1, 10 settembre 2015, n. 17910).
Nella specie, dunque, è chiaro il contenuto della decisione di prime cure come riportato nella motivazione, ma l’atto di appello come si vedrà – ha espressamente contestato la decisione del tribunale.
10.2. Nell’atto di appello, infatti, da parte degli attori si riscontra l’espressa censura della motivazione del giudice di prime cure, in quanto si afferma a pagina due del gravame principale che «nelle more del processo l’ente convenuto, ‘correggendo il tiro’, ha quindi rinnovato il decreto di occupazione di urgenza notificando agli attori un nuovo provvedimento (n. 67 del 27.09.2022, regolarmente prodotto), avente ad oggetto l’apprensione delle stesse aree, per i medesimi dichiarati fini di pubblica utilità, ma per la maggiore superficie di mq. 29.711 (anziché mq 23.117)».
A pagina 4 dell’appello principale, nell’ambito riservato alla descrizione dei motivi di impugnazione, gli appellanti evidenziano «il primo e inaccettabile errore commesso dal giudice a quo sta nell’avere acriticamente raccolto le errate valutazioni del suo ausiliario Ha ritenuto infatti il CTU che le aree occupate (la cui superficie è stata accertata in complessivi ha 03.26.02) ricadessero in zona agricola avente le caratteristiche del ‘seminativo irriguo’».
Risulta, allora, contestata specificamente la decisione di prime cure, che non aveva tenuto conto dell’occupazione della maggiore superficie di metri quadri 29.711, anziché metri quadri 23.117.
È erronea, per tale ragione, l’affermazione contenuta nella sentenza d’appello nel senso che «Ferma l’estensione del terreno individuata dal primo giudice, statuizione avverso la quale non è stata formulata specifica censura».
Interpretando, invece, l’atto di impugnazione nel suo complesso emerge l’aggressione anche della parte della motivazione della sentenza di prime cure, che aveva ridotto il risarcimento del danno ad una porzione minore di superficie occupata effettivamente.
Con il primo motivo di appello principale, dunque, gli attori si dolgono, non solo della erronea individuazione come terreni agricoli (invece che edificabili) dei cespiti occupati, ma anche della errata determinazione della superficie effettivamente occupata.
Il terzo motivo di impugnazione è infondato.
11.1. Nella comparsa di costituzione in appello il RAGIONE_SOCIALE ha specificatamente dedotto che già erano state pagate delle somme agli attori, e segnatamente la somma di euro 25.964,35 in data 16 giugno 2006, e la somma di euro 46.864,00 il 18 aprile 2012, sicché non v’è stato alcun vizio di ultrapetizione da parte della Corte d’appello, che ha provveduto a scomputare dalla maggiore somma liquidata, per avere ritenuto edificabili i terreni, anziché agricoli, le somme già versate in precedenza.
Anche in questo caso, trattandosi di error in procedendo , è consentito a questa Corte l’esame diretto degli atti di causa.
Dalla comparsa di costituzione in appello del RAGIONE_SOCIALE, a pagina 4, emerge che «correttamente il tribunale di Nuoro – seguendo le indicazioni del CTU – si è riferito ad una estensione delle aree espropriate pari ad ha 2.22.13. Il perito d’ufficio ha infatti
evidenziato come una parte dei terreni sia stata interessata da altra procedura espropriativa, attivata dalla provincia di Nuoro per la realizzazione della S.P. n. 12 e come altra parte sia stata riconosciuta nella titolarità del Sig. COGNOME NOME al quale è stata liquidata la relativa indennità».
Si aggiunge: «Fermo restando che, se si dovesse tenere conto di tale ultima superficie, all’importo riconosciuto in favore degli attori, andrebbe detratta la somma poi ad essi trasferita dal medesimo intestatario catastale, Sig. COGNOME NOME».
Si fa evidente riferimento alla somma di euro 25.964,35 che è stata versata il 16 giugno 2006 a NOME COGNOME, che risultava apparentemente l’effettivo titolare, in quanto taluni terreni risultavano intestati in suo favore al catasto, ma in realtà erano di proprietà degli attori.
Allo stesso modo, ed ancora più chiaramente, nella comparsa di costituzione in appello il RAGIONE_SOCIALE afferma che «è infine da evidenziare che, a seguito del deposito della sentenza, ed al fine di evitare l’esecuzione coattiva, il RAGIONE_SOCIALE deducente ha provveduto a liquidare – ma salva ripetizione – la somma complessiva di euro 46.864,68. Ciò, a mezzo del mandato di pagamento n. 68/2012 del 18.4.2012 e -secondo riscontro (fax del 4.4.2012) -con accreditamento sul c/c bancario intestato ai signori COGNOME NOME e NOME NOME».
11.2. È vero che la deduzione dell’avvenuto pagamento al creditore apparente ex art. 1189 c.c., necessitando di un’idonea allegazione da parte del debitore delle circostanze univoche idonee a sorreggerla e della sua buona fede, integra un’eccezione in senso stretto; come tale, l’allegazione del fatto estintivo del diritto fatto valere dal creditore è soggetta alle preclusioni previste dal codice di
rito e non è rilevabile d’ufficio dal giudice (Cass., sez. 1, 14 febbraio 2023, n. 4589).
Tuttavia, nella specie, da un lato è risultata circostanza pacifica quella che NOME COGNOME, una volta ricevuto il pagamento della somma di euro 25.964,35, ha provveduto a consegnare la stessa agli attori COGNOME e, dall’altro, che il RAGIONE_SOCIALE ha specificamente dedotto tale circostanza, pur senza utilizzare una formula sacramentale.
Diversamente, per questa Corte l’eccezione di pagamento ha efficacia estintiva di un rapporto giuridico indipendentemente dal tramite di una manifestazione di volontà della parte, sicché integra un’eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio dal giudice sulla base degli elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti (Cass., sez. L, 24 dicembre 2021, n. 41474).
Del tutto correttamente, allora, la Corte d’appello ha affermato che «la sentenza impugnata deve dunque essere riformata quanto all’ammontare della somma per cui è condanna, detraendo dal dovuto la somma già versata dal RAGIONE_SOCIALE in data 16/6/06 (euro 25.964,35) e quella versata in data 18/4/12 (euro 46.864,00)».
12. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile.
Trattandosi di vizio della motivazione della sentenza, declinato ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., non risulta indicato il fatto decisivo il cui esame sarebbe stato omesso dalla Corte d’appello.
La mera circostanza che il consulente tecnico di parte del RAGIONE_SOCIALE abbia indicato in euro 386.000,00 la somma che sarebbe spettata agli attori, quindi superiore a quella riconosciuta dalla CTU espletata in secondo grado, pari ad euro 205.000,00, non costituisce certo una confessione.
Si evidenzia, infatti, che la confessione attiene alla ammissione di fatti, e non a meri giudizi, tra l’altro non provenienti dalla parte, ma dal consulente tecnico di parte.
Costituisce, peraltro, principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello per cui la relazione tecnica di parte prodotta in giudizio, dalla quale si traggono elementi a favore della controparte, non assume valore di confessione, la quale è atto della parte e va espressa in relazione ad un fatto in essa esplicitato, non rilevando, a tal fine, la mera inferenza logica di un’ammissione del consulente (Cass., sez. 2, 24 settembre 2013, n. 21827).
Il sesto motivo di impugnazione è assorbito, in ragione dell’accoglimento dei primi due motivi, che comporta una nuova quantificazione in base alla individuazione dell’esatta superficie oggetto di occupazione.
La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione ai due motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
accoglie i motivi primo e secondo di ricorso; dichiara inammissibili i motivi quarto e quinto; rigetta il terzo motivo; dichiara assorbito il sesto motivo; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Cagliari, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione