Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 2399 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 2399 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso 4032-2024 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME NOME, domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), FONDO PENSIONE A PRESTAZIONE DEFINITA DEL GRUPPO RAGIONE_SOCIALE (già FONDO PENSIONE COMPLEMENTARE PER IL PERSONALE DEL RAGIONE_SOCIALE NAPOLI), in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME COGNOME che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrenti –
Oggetto
R.G.N. 4032/2024
COGNOME
Rep.
Ud.14/11/2024
CC
avverso l’ordinanza n. 25030/2023 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 22/08/2023 R.G.N. 13893/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con ordinanza n. 25030/2023 del 22 agosto 2023 questa Corte ha rigettato il ricorso proposto, tra gli altri, da COGNOME NOME e COGNOME NOME avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli n.3624/2020 che, accogliendo il gravame di Intesa San Paolo spa e Fondo Pensione a Prestazione Definita del Gruppo Intesa San Paolo, aveva respinto la loro domanda di condanna al pagamento delle somme maturate nel periodo dal 1 luglio 2008 al 30 giugno 2013 sul trattamento pensionistico aziendale in forza del giudicato che aveva riconosciuto il loro diritto a conservare il sistema di perequazione automatica della pensione aziendale poi abolito dalla legislazione successiva.
La Suprema Corte ha esposto: che la questione di causa era stata da ultimo decisa con le ordinanze nn. 18383 e 18384 del 2022; che l’oggetto della domanda consisteva nel corretto adempimento dell’obbligo contenuto nella sentenza n.17809 del 1994, passata in giudicato ma mai adempiuta dal Banco di Napoli; che, secondo la tesi dei ricorrenti, la sentenza impugnata non aveva compreso il petitum e la causa petendi della pretesa azionata ; che tale tesi non era condivisibile, avendo il giudice del merito ben inteso i termini della domanda ed assunto una decisione immune da censure.
Dopo aver ripercorso il quadro normativo, la Suprema Corte ha affermato non essere controverso che con la sentenza n.
17809/1994 era stato riconosciuto ai ricorrenti il diritto alla perequazione della pensione aziendale per il periodo dal 1^ gennaio 1994 al 26 luglio 1996. Altrettanto indiscusso era che la perequazione aveva determinato un incremento del trattamento pensionistico integrativo.
Tuttavia, le somme richieste si riferivano ad un periodo successivo all’intesa intervenuta con i pensionati per la capitalizzazione della pensione integrativa e non già al periodo anteriore alla capitalizzazione né alla riliquidazione della somma corrisposta a titolo di capitalizzazione. La pretesa, nei termini in cui era proposta, era infondata, come correttamente affermato dal giudice dell’appello, poiché la capitalizzazione aveva determinato la estinzione della pensione integrativa.
Avverso l’ordinanza n. 25030/2023 COGNOME NOME e COGNOME NOME proposto ricorso in revocazione, articolato in sei motivi di censura.
Hanno resistito con controricorso Intesa San Paolo spa ed il Fondo Pensione a Prestazione Definita del Gruppo Intesa San Paolo.
Le parti hanno depositato memoria.
Chiamata la causa all’adunanza camerale del 14 novembre 2024, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di giorni sessanta (art.380 bis 1, secondo comma, cod. proc. civ.).
CONSIDERATO CHE
Va premesso che, con specifico riferimento alle sentenze (o ordinanze) della Suprema Corte, l’errore rilevante ai sensi
dell’art. 395 n. 4 cod.proc.civ., secondo le acquisizioni della giurisprudenza di questa Corte, da ultimo ribadite da Cass. SU n.20013/2024:
consiste nell’erronea percezione dei fatti di causa che abbia indotto la supposizione della esistenza o della inesistenza di un fatto, la cui verità è incontestabilmente esclusa o accertata dagli atti di causa, sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito terreno di discussione tra le parti;
non può concernere l’attività interpretativa e valutativa;
deve possedere i caratteri della evidenza assoluta e della immediata rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; d) deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione erronea e la decisione revocanda deve esistere un nesso causale tale da affermare con certezza che, ove l’errore fosse mancato, la pronuncia avrebbe avuto un contenuto diverso;
deve riguardare solo gli atti interni al giudizio di cassazione ed incidere unicamente sulla pronuncia della Corte, poiché l’errore che inficia il contenuto della decisione impugnata in cassazione deve essere fatto valere con le impugnazioni esperibili contro la decisione stessa (Cass. n. 20013/2024 e giurisprudenza ivi citata).
Dunque, l’errore di fatto che legittima la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione consiste in un’erronea percezione dei fatti di causa, che -oltre a rivestire i caratteri di assoluta evidenza e di semplice rilevabilità nonché quelli di essenzialità e di decisività -deve riguardare gli atti interni al giudizio di legittimità: ossia quegli atti che la Corte deve e può esaminare direttamente, con propria indagine di fatto,
all’interno dei motivi di ricorso, dovendo incidere unicamente sulla sentenza di legittimità (Cass. SU n.3312/2024 e giurisprudenza ivi citata).
Ne deriva che deve escludersi il vizio revocatorio tutte le volte che la pronunzia sul motivo di ricorso in cassazione sia effettivamente intervenuta, anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi di censura, perché in tal caso è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva immediatamente percepibile) bensì un’errata considerazione e interpretazione dell’oggetto di ricorso e, quindi, un errore di giudizio (Cass. SU n.7170/2024 e giurisprudenza ivi richiamata).
L’esame delle ragioni di censura deve essere condotto alla luce dei principi qui richiamati.
Con il primo motivo viene dedotta -ai sensi dell’art. art. 395, n. 2, 3 e 4 cod.proc.civ. -la nullità dell’ordinanza oggetto del ricorso in revocazione per mancanza di motivazione e motivazione apparente e contraddittoria, in violazione: dell’art. 111 Cost.; dell’art. 132, comma 2, n. 4, cod.proc.civ.; dell’art. 118 disp. att. cod.proc.civ.; della convenzione CEDU, art. 6, art. 13 ed art. 1, protocollo n. 1; del Trattato UE, art. 47; degli artt. 1218, 1223, 1224, 2043, 2055, 2056 cod.civ.
Si espone che la ordinanza revocanda riproduce testualmente la motivazione di due precedenti arresti di questa Corte (Cass. n. 18383 e n. 18384 del 2022) e non è idonea a sorreggere il decisum , in quanto basata sulla erronea supposizione che i ricorrenti intendessero accrescere l’importo della pensione erogata dall’INPS ovvero richiedere il pagamento di quote della pensione integrativa a carico del Fondo. Si rappresenta che la
domanda era invece diretta ad ottenere dall’Istituto Intesa San Paolo (succeduto al Banco di Napoli) la somma mensile cristallizzata dal giudicato (sent. Pretore di Napoli n. 17809/1994, divenuta definitiva) per il periodo successivo al giudicato. Secondo la prospettazione dei ricorrenti, il quantum riconosciuto dal giudicato avrebbe dovuto essere corrisposto dall’Istituto Intesa San Paolo indipendentemente dalla sopravvivenza della pensione integrativa. Si addebita alla ordinanza revocanda di non avere indicato la ragione per cui un inadempimento del Banco di Napoli dovrebbe essere imputato ad un soggetto terzo (cioè l’INPS o il Fondo).
Il motivo è inammissibile.
La censura è proposta sotto il profilo della nullità della ordinanza revocanda derivante dalla mancanza di motivazione (in quanto, nella prospettazione delle parti ricorrenti, non coerente alla domanda proposta e, comunque, non espressa): si tratta di denuncia estranea alle ipotesi di revocazione indicate dagli articoli 391 bis e 391 ter cod.proc.civ.
In ogni caso, la motivazione della ordinanza impugnata è chiara: la Corte di Cassazione ha ritenuto non invocabile la efficacia ultrattiva del giudicato formatosi nei confronti del Banco di Napoli (relativo all’incremento della pensione aziendale) a fronte di un fatto sopravvenuto, rappresentato dal trasferimento del trattamento pensionistico aziendale a carico del Fondo e, di poi, dalla sua capitalizzazione. Trattasi della applicazione di un principio ben noto in giurisprudenza, secondo cui il giudicato ha efficacia nei rapporti di durata anche per il periodo successivo a quello in esso cristallizzato ma soltanto «rebus sic stantibus» . Non si ravvede, dunque, alcuna anomalia motivazionale.
Con il secondo motivo del ricorso in revocazione -proposto ai sensi dell’art. 395, n. 2, 3 e 4 cod.proc.civ. si torna a dedurre la nullità dell’ordinanza per mancanza di motivazione ovvero per motivazione apparente e contraddittoria, in violazione: dell’art. 111 Cost.; dell’art. 132, co. 2, n. 4, cod.proc.civ.; dell’art. 118 disp. att. cod.proc.civ.; della convenzione CEDU, art. 6, art. 13 e art. 1, protocollo n. 1; del Trattato UE, art. 47 nonché degli artt. 1218, 1223, 1224, 2043, 2055, 2056 cod.civ.
Si sostiene la nullità dell’ordinanza revocanda, in ragione del fatto che i due precedenti di questa Corte ai quali essa dà continuità (Cass. n. 18383 e n. 18384 del 2022) sarebbero nulli per erronea costituzione del collegio giudicante. Si afferma che in ambedue i giudizi definiti dagli arresti dell’anno 2022 uno dei componenti del Collegio giudicante avrebbe violato il proprio obbligo di astensione, in ragione dei rapporti ostili con esso difensore e del rapporto amichevole con uno dei difensori di Intesa San Paolo; ciò risultava dal fatto che la istanza di astensione era stata proposta in altri giudizi venuti in trattazione in data successiva, con oggetto identico e con gli stessi difensori.
Il motivo è inammissibile.
Ancora una volta il vizio denunciato -la nullità della decisione che deriverebbe dalla nullità delle due ordinanze di questa Corte che essa richiama in motivazione -non si confronta con i contenuti del giudizio di revocazione; peraltro, i fatti esposti si riferiscono a giudizi diversi e non sono idonei ad incidere, sotto alcun profilo, sulla regolarità del procedimento in cui è stata assunta la decisione impugnata e sulla validità di quest’ultima.
Il terzo motivo di censura è fondato -ai sensi dell’art. 395, n. 2, 3 e 4 cod.proc.civ. -sulla nullità dell’ordinanza revocanda per
violazione: dell’art. 381bis cod.proc.civ.; degli artt. 376 e 377 cod.proc.civ.; dell’art. 118 disp. att. cod.proc.civ.; delle tabelle di organizzazione della Corte di Cassazione per il triennio 2020/2022 (per quanto concerne la distribuzione del contenzioso tra le sezioni, la composizione dei collegi giudicanti e la sostituzione dei componenti del Collegio), con connessa violazione dell’art. art. 47 del Trattato UE.
Si sostiene che i due procedimenti definiti dalle ordinanze n. 18383 e n. 18384 del 2022, richiamate nella ordinanza revocanda, sarebbero stati irritualmente trattati dalla sezione VI della Corte di cassazione mentre non ricorrevano i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ex articolo 375 cod.proc.civ. (come vigente ratione temporis ); non sussisteva, in particolare, la condizione della manifesta fondatezza/infondatezza del ricorso, in quanto all’epoca sulla questione erano intervenute decisioni contrastanti di questa Corte.
Si aggiunge che altre cause con oggetto identico, iscritte a ruolo in epoca successiva, erano state trattate dalla sezione ordinaria; a conferma della anomalia procedurale si indicano varie circostanze (esposte alle pagine 15 e 16 del ricorso in revocazione), tra le quali la trattazione prioritaria dei due giudizi rispetto a cause identiche iscritte a ruolo in epoca precedente, in violazione della tabella di organizzazione della Suprema Corte.
Il motivo è inammissibile.
Come già osservato in riferimento al secondo motivo, si lamentano come vizi revocatori fatti estranei alle ipotesi di errore revocatorio e che riguardano altri giudizi, le cui decisioni sono state richiamate nella ordinanza revocanda soltanto come precedenti conformi.
Il quarto motivo di revocazione è proposto -in relazione all’art. 395, comma 1 n. 4 cod. proc.civ. -per «fatto decisivo ignorato, in correlazione alla violazione degli artt. 1218, 1223, 1224, 2043, 2055, 2056 cod.civ.».
Si espone che il fatto decisivo ignorato consisterebbe nel protratto inadempimento del Banco di Napoli, che, dopo l’accertamento con sentenza definitiva del diritto dei pensionati alla perequazione della pensione aziendale fino al luglio 1996, non aveva provveduto ad integrare la misura del trattamento di pensione per l’epoca successiva al giudicato.
Si lamenta, altresì, che sarebbe stato ignorato il fatto, parimenti decisivo, che all’atto del trasferimento della pensione aziendale all’ apposito Fondo, la Banca non aveva comunicato il maggior importo della pensione discendente dal giudicato, che non era stato, pertanto, mai corrisposto dal Fondo.
Nell’assunto dei ricorrenti, la obbligazione inadempiuta sarebbe rimasta a carico del Banco di Napoli, a titolo di debito o di responsabilità, sicchè non avrebbe potuto estinguersi con la capitalizzazione della pensione da parte del Fondo: il Fondo non era mai subentrato nella posizione debitoria e non aveva ricevuto la relativa provvista; il Banco di Napoli all’atto del trasferimento della pensione al Fondo aveva irreversibilmente manifestato la volontà di non incanalare la sua obbligazione nella pensione integrativa.
Il motivo è inammissibile.
L’errore revocatorio è un errore di percezione immediatamente rilevabile dal confronto tra la decisione della Suprema Corte e gli atti del giudizio di Cassazione.
Si legge nella ordinanza impugnata (alla pagina 7, penultimo capoverso) che l’oggetto della domanda dei pensionati «è
sempre stata la pretesa all’esatto adempimento dell’obbligo contenuto nella sentenza n. 17809 del 1994, passata in giudicato ma mai adempiuta dal Banco di Napoli e non certo differenze economiche sul trattamento pensionistico erogato nel periodo dedotto in causa» e che i vizi imputati alla sentenza impugnata in cassazione deriverebbero, secondo la tesi dei ricorrenti, dalla erronea comprensione del petitum e della causa petendi.
Dal confronto tra la stessa prospettazione delle parti ricorrenti e la pronuncia della Suprema Corte di cui si chiede la revocazione emerge che la Corte non è incorsa in alcuna svista nell’esame del ricorso in Cassazione, avendo, all’opposto, ben inteso le ragioni della impugnazione.
Piuttosto, i ricorrenti si dolgono in questa sede del contenuto della decisione assunta, chiedendo, nella sostanza, al giudice della revocazione di giungere a diverse conclusioni sui motivi di ricorso, conformi alle proprie difese: in breve, la Corte di cassazione ha ritenuto che la capitalizzazione della pensione integrativa abbia estinto il debito azionato, che si riferisce a somme maturate in epoca successiva; le parti negano, ancora una volta in questa sede, che la capitalizzazione possa avere avuto ta le effetto estintivo ed assumono che l’obbligazione, abbia essa natura di debito o di responsabilità, sarebbe sempre rimasta a carico dell’ex Banco di Napoli, restando insensibile al trasferimento della pensione integrativa al Fondo ed alla sua successiva capitalizzazione.
Trattasi di questione affrontata e risolta con pronuncia definitiva, rispetto alla quale la denuncia dell’errore revocatorio non coglie effettivi errori percettivi.
Con il quinto motivo di revocazione i ricorrenti hanno denunciato la violazione dell’articolo 395, comma 1, n.4 cod. proc.civ.
Hanno dedotto l’omesso esame di un altro fatto decisivo, contestando il richiamo -contenuto nella ordinanza revocanda per sorreggere la affermata estinzione della obbligazione -all’articolo 47 dello Statuto del Fondo. Si denuncia la mancata considerazion e dei contenuti dell’accordo intercorso tra i lavoratori ed il Fondo all’atto della capitalizzazione della pensione, che si riferivano alla sola obbligazione trasferita al Fondo e facevano espressamente salvi gli importi dovuti dal Banco di Napoli per la vertenza relativa al pagamento della perequazione aziendale.
Il motivo è inammissibile.
Anche in questo caso la critica non rappresenta un errore di percezione degli atti del giudizio di cassazione ma, piuttosto, investe il contenuto del giudizio espresso dalla Suprema Corte.
Con il sesto motivo di revocazione (erroneamente rubricato come quarto) si lamenta la violazione dell’art. 395, comma 1, n. 5, cod.proc.civ. per violazione di un doppio giudicato ex artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ.:
il primo, risalente alla sentenza del Pretore di Napoli n. 17809/1994, che, riconoscendo la perequazione della pensione nel periodo 1994/1996, comportava il diritto dei pensionati a mantenere quell’incremento di pensione, come riconosciuto, fino al decesso del pensionato;
il secondo, derivante dal rigetto della eccezione opposta dalla banca, che sosteneva che il primo giudicato sarebbe venuto meno in forza dall’art.1, comma 55, l. n. 243/ 2004.
Si continua a sostenere che l’inadempimento era rimasto a carico del Banco di Napoli e che erroneamente la ordinanza
revocanda aveva fatto richiamo al meccanismo di perequazione legale della pensione corrisposta dall’INPS mentre non era in discussione la pensione INPS ma una specifica somma di denaro, accertata dal giudicato e dovuta dal Banco di Napoli. Il motivo è inammissibile.
Le parti valorizzano come errore revocatorio un passaggio motivazionale della ordinanza della Suprema Corte meramente rappresentativo della situazione pensionistica successiva alla capitalizzazione della pensione integrativa (sopravvivenza del solo trattam ento INPS); l’affermazione non costituisce svista alcuna e, peraltro, ha valenza descrittiva e non già decisiva.
Nella sostanza, ancora una volta le parti ricorrenti sostengono che la capitalizzazione della pensione integrativa non ebbe efficacia estintiva dell’obbligazione; il contrasto, allora, non si pone tra la ordinanza della Corte di Cassazione e gli atti del giudizio di legittimità ma, piuttosto, tra il contenuto della decisione e le aspettative della parte: la decisione revocanda, con pronuncia definitiva, ha già disatteso la tesi delle parti ricorrenti secondo cui il debito consacrato dal giudicato avrebbe autonomia, anche quanto a soggetto passivo, rispetto alla pensione integrativa, poi capitalizzata.
Per le ragioni esposte il ricorso va dichiarato nel complesso inammissibile.
Alla condanna segue il pagamento delle spese, come liquidate in dispositivo.
Non ricorrono i presupposti della responsabilità ex art. 96 cod.proc civ., invocata dalla parte controricorrente.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
La Corte dichiara la inammissibilità del ricorso.
Condanna le parti ricorrenti al pagamento delle spese, che liquida in € 4000,00 per compensi ed € 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 14 novembre