Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 21735 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 21735 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 4666/2024 R.G., proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME per procura speciale in atti;
-ricorrente –
-contro-
COGNOME rappres. e difeso dall’avv. NOME COGNOME per procura speciale in atti;
-e-
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappres. p.t.,NOME COGNOME rappres. e difesi dall’avv. NOME COGNOME per procura speciale in atti;
-controricorrenti-
COGNOME;
-intimato- avverso l’ordinanza della Corte di Cassazione, n. 35425/2023, depositata in data 19.12.2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 6.02.2025 dal Cons. rel., dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 3293/2018, confermava la sentenza del Tribunale di Roma del 2015, che nel decidere la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME, Unicredit spa, NOME COGNOME (ex amministratore delegato di Capitalia, prima Banca di Roma, poi Unicredit) e NOME COGNOMEin qualità di presidente del collegio sindacale di Unicredit) – al fine di ottenere la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni, quantificati nella somma di € 2.150.969,10, oltre interessi e rival utazione dal 1994, in ordine ad illeciti ascritti ai convenuti per l’azzeramento del valore delle azioni della società RAGIONE_SOCIALE (già Acque e Terme di Bognanco, di seguito, ATB), di cui l’attore era stato azionista -aveva dichiarato inammissibile la domanda proposta nei confronti dei COGNOME e prescritta quella proposta nei confronti degli altri convenuti, con condanna dell’attore al rimborso delle spese processuali e al risarcimento dei danni per lite temeraria, ex art. 96 c.p.c., quantificati in € 5.000,00, in favore di Unicredit, COGNOME e COGNOME.
In particolare, i giudici di appello rilevavano che: i fatti addebitati a NOME COGNOME nella qualità di amministratore della società RAGIONE_SOCIALE, poi RAGIONE_SOCIALE, erano anteriori al 1998, risultando dagli atti (sentenza del GUP di Frosinone del 2/3/2001) che NOME COGNOME era stato amministratore della RAGIONE_SOCIALE dal 1993 al 1996, cosicché su di essi si era formato il giudicato (per effetto della declaratoria, con sentenza n. 9534/2014 della Corte di Cassazione, dell’inammissibilità del ricorso
avverso sentenza della Corte d’appello di Roma del 2007, che aveva respinto il gravame avverso la decisione del Tribunale di rigetto della domanda attorea), mentre il giudizio in questione riguardava solo i fatti successivi al 1998; i danni lamentati, riguardanti NOME COGNOME non potevano che riferirsi al periodo 1998/2002, anno in cui la società di cui il COGNOME era azionista era stata posta in liquidazione, dato che il danno lamentato dal medesimo era necessariamente riferibile al periodo anteriore allo scioglimento della società; la censura, in ordine alla domanda nei confronti del COGNOME, era inammissibile perché, a fronte di una precisa e puntuale motivazione della sentenza del Tribunale, l’appellante si era limitato « a sostenere del tutto apoditticamente di aver subito un danno patrimoniale diretto, pur continuando ad affermare che l’attività posta in essere dai convenuti, quali amministratori della società, in concorso con la Banca, aveva determinato una perdita del valore delle azioni », e comunque era infondata, dovendosi confermare la statuizione di primo grado circa la carenza di legittimazione attiva del COGNOME, rientrando l’azione in quella ex art. 2395 c.c.; era anche infondata la doglianza in ordine alla ulteriore ratio decidendi , basata sulla prescrizione dell’azione, promossa nel 2009, anche se qualificata ex art. 2043 c.c., considerato che « la sentenza del GUP di Frosinone del 2001, a carico di NOME COGNOME pronunciata ex art. 444 c.p.p. », nel cui procedimento penale il COGNOME si era costituito come parte civile (e con ciò, si assumeva, interrompendo il decorso del termine prescrizionale), era una sentenza di c.d. di patteggiamento, con la conseguenza che il danneggiato non poteva usufruire degli effetti favorevoli di norma riconducibili al primo periodo dell’art. 2947, comma 3, c.c., ed era dunque decorso il termine quinquennale di prescrizione; era infondate domande risarcitorie nei confronti degli altri convenuti,
Unicredit, COGNOME e COGNOME, basate sull’assunto che il termine di prescrizione sarebbe stato interrotto dal provvedimento del GIP « che aveva accolto la richiesta di archiviazione del 2008 », risultando dallo stesso provvedimento di archiviazione che tutte le fattispecie di reato ascritte a COGNOME e COGNOME erano prescritte alla data del 25/11/2008 e l’unica ipotesi di reato non estinta per prescrizione era quella del reato ex art. 379 c.p., ma la condotta ascritta ai Presidenti COGNOME e COGNOME «costituita dalle mancate risposte alle precise domande e contestazioni del COGNOME nell’assemblea dei soci della Banca di Roma del 16/5/ 2002 » non poteva integrare il reato di favoreggiamento reale, « in quanto azione, in sé considerata, era inidonea a favorire il gruppo RAGIONE_SOCIALE, tenuto conto che la vicenda era già nota da tempo in quanto comunicata dalla Banca di Roma fin dal 2000 all’Organo di Vigilanza, che era stato posto in condizione di effettuare tutti i controlli ».
Avverso la suddetta pronuncia, NOME COGNOME proponeva ricorso per cassazione, notificato il 5-7/11/2018, affidato a tre motivi, nei confronti di NOME COGNOMEche resisteva con controricorso, notificato l’11/12/2018), di Unicredit spa, di NOME COGNOME e di NOME COGNOMEche resistevano con controricorso notificato il 13/12/2018).
Con ordinanza del 2023, la Cassazione dichiarava inammissibile li gravame, osservando che: in particolare, il primo motivo era inammissibile, in quanto l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una
ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass., Sez. U., 28 ottobre 2020, n. 23745); inoltre, il ricorrente che intende censurare la violazione o falsa applicazione di norme di diritto deve indicare nel ricorso, a pena di inammissibilità, anche i riferimenti specifici di carattere fattuale in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione denunciata (Cass. 13 maggio 2016, n. 9888; Cass., 24 luglio 2014, n. 16872; Cass., 4 aprile 2006, n. 7846), onere che, nel caso in esame, non era stato assolto; il secondo motivo, riguardante il vizio d’ultrapetizione, in violazione dell’art. 112 c.p.c., era parimenti inammissibile, perché nessuna impugnazione era stata proposta in merito al fatto che il ricorrente/attore potesse o meno agire, oltre che in proprio, anche quale rappresentante di altri azionisti, ma la Corte d’appello si era pronunciata sul punto in quanto lo stesso appellante aveva sollevato l’argomento della rappresentanza di altre persone, sia pure tardivamente ed inammissibilmente in comparsa conclusionale, rilevando l’infondatezza del motivo in ogni caso (essendo stata dedotta la cessione di diritti non meglio chiariti e precisati); in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. non può essere dedotta come vizio di legittimità in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito; il terzo motivo era del pari inammissibile, in quanto si denunciava l’omesso esame di fatti decisivi, ex art. 360 n. 5 c.p.c., in relazione ad una congerie di fatti e questioni, alcuni solo genericamente dedotti (aver trascurato di « esaminare tutti gli atti che fornivano le prove del ‘disegno criminoso’ progettato da tutti i convenuti che reclamava per il rispetto della legge la necessità di valutare i fatti e giudicarli ex art. 2043 c.c .»), altri non pertinenti a quanto deciso dalla Corte d’appello , altri involgenti non fatti storici ma domande o questioni giuridiche, e
comunque sempre non inerenti alla decisione di rigetto di tutte le domande, in primo e secondo grado (l’avere la Corte di merito omesso di motivare sulla richiesta di provvedimenti a carico dei convenuti ex art. 88 e 89 c.p.c. per le offese rivolte al ricorrente e di condanna ex art. 96 c.p.c., ovvero sulla richiesta di inammissibilità « ex art. 345 c.p.c., di tutti i documenti prodotti dalla difesa di Unicredit solo dinanzi alla adita Corte e del tutto inconferenti » e ancora sulla richiesta di revoca della condanna, disposta a carico del ricorrente, per lite temeraria).
NOME COGNOME propone ricorso per revocazione avverso la suddetta ordinanza della cassazione, con due motivi. Unicredit e NOME COGNOME nonché NOME COGNOME resistono con controricorso, con distinti atti. Non si è costituito NOME COGNOMEche dalle difese in atti risulta deceduto nelle more del ricorso).
Unicredit e COGNOME – che hanno depositato memoria – hanno chiesto la condanna del ricorrente al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.
RITENUTO CHE
Il primo motivo denunzia violazione dell’art. 395, n. 1, c.p.c. per dolo processuale della controparte, la quale ha sostenuto, contrariamente al vero, che il ricorrente era un ricattatore professionale che aveva falsificato il documento con cui altri azionisti gli avevano affidato la tutela dei loro diritti al chiaro fine di estorcere una transazione asseritamente sempre rifiutata, arrivando l’avv. COGNOME a sostenere, contrariamente al vero e come provato, di avere già usato le calunniose espressioni di cui il ricorrente si lamentava e che l’Ordine degli Avvocati, al quale il signor COGNOME si era rivolto, lo avrebbe assolto.
Il secondo motivo denunzia violazione dell’art. 395, n. 4, c.p.c. per errore di fatto consistente nell’errata percezione dei motivi del ricorso per cassazione, che denunciavano tre violazioni di legge (errata qualificazione della domanda, ultrapetizione, eccessività delle spese) e sette
omissioni di fatti decisivi (irretroattività della prescrizione breve, fatto posteriore all’entrata in vigore della legge n. 183 del 2012, citazione del 2009, consolidamento dei danni a seguito del mancato esercizio dell’azione di responsabilità sociale, reato di favoreggiamento reale, accusa di ricatto e associazione a delinquere, violazione dell’art. 50 del CDF).
Al riguardo, il ricorrente assume che: la prova che vi sia stata una errata percezione degli esposti motivi deve essere ravvisata nel fatto che detti motivi, articolati in ben dieci ragioni, nella emessa ordinanza sono stati incomprensibilmente ridotti a soli tre, per di più senza alcuna censura per le lamentate omissioni della corte di merito; l’ordinanza impugnata, invece di esaminare punto per punto le tre elencate violazioni di legge e/o la falsa applicazione di norme di diritto e le sette elencate ‘omissioni’ di cui al secondo motivo, spiegando le ragioni del mancato accoglimento del ricorso, ha fuso tutti gli esposti motivi arrivando a sostenere che le lamentate ‘omissioni’ e/o violazioni di legge erano ‘ comunque non conferenti con la decisione di rigetto di tutte le domande attoree ‘ ; è pertanto evidente che vi sia stata una errata percezione dei fatti, indotta dal doloso comportamento dei convenuti. Il primo motivo di ricorso è tardivo.
In tema di impugnazione per revocazione, il precetto – sancito a pena di inammissibilità dall’art. 398, comma 2, c.p.c. – che, nelle ipotesi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c., impone di indicare, fin dall’istanza di revocazione, le prove del giorno della scoperta o dell’accertamento del dolo o della falsità, o del recupero dei documenti, implica che la data in questione debba costituire un preciso ” thema probandum ” e risultare ” ab initio “, perché, dandosi ingresso al giudizio rescindente, è necessario conoscere, ai fini della decorrenza del termine perentorio se, almeno secondo l’assunto di chi agisce, questo non appaia
scaduto; non vale, pertanto, ad escludere la sanzione dell’inammissibilità, l’integrazione di tali indicazioni negli atti difensivi successivi a quello introduttivo, né l’eventuale accertamento d’ufficio svolto da parte del giudice ed inteso a precisare il giorno della scoperta (Cass., n. 5031 del 16/02/2022). Invero, trattandosi di revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 1 cod. proc. civ., il termine di cui all’art. 325 cod. proc. civ. decorre, ai sensi dell’art. 326, comma 1, dalla data di conoscenza del dolo, che nella specie viene fatta risalire allo stesso giudizio di cassazione, mentre nella fattispecie la revocazione è stata proposta quasi un anno dopo.
In ogni caso, il dolo processuale revocatorio non è integrato dalla mera violazione dell’obbligo di lealtà e probità previsto dall’art. 88 c.p.c., né dalle allegazioni false, dalle reticenze o dal mendacio, occorrendo ai fini della configurazione dalle fattispecie – per contro – un’attività intenzionalmente fraudolenta, che si concretizzi in artifizi o raggiri soggettivamente diretti e oggettivamente idonei a paralizzare la difesa avversaria e ad impedire al giudice l’accertamento della verità, così pregiudicando l’esito del procedimento (Cass., n. 31211/2022; n. 41792/2021; n. 22851/18). Nella specie, manca il nesso causale con la decisione, giacché il rigetto del motivo riguardante la legittimazione dell’attore non ha trovato giustificazione nella falsità del documento, ma nell’insussistenza del vizio di ultra-petizione (la Corte d’appello aveva infatti pronunciato in ordine ad una questione sollevata dallo stesso ricorrente, ritenendo generico il documento). La doglianza non è dunque idonea a configurare la fattispecie di revocazione invocata, secondo il richiamato orientamento di questa Corte, in quanto il ricorrente ha lamentato genericamente una condotta ingannatoria della controparte, che la Cassazione non avrebbe percepito, senza allegare un’attività intenzionalmente fraudolenta, che emerga con chiarezza dagli atti e di cui sia stata
fornita prova, concretizzatasi in artifizi o raggiri soggettivamente diretti e oggettivamente idonei a paralizzare la difesa avversaria e ad impedire al giudice l’accertamento della verità.
Il secondo motivo è parimenti inammissibile.
L’interpretazione dei motivi di ricorso non dà luogo ad errore di percezione, denunciabile ai sensi dell’art. 395, n. 4 cod. proc. civ., ma ad errore valutativo.
In tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, la configurabilità dell’errore revocatorio di cui all’art. 391 bis c.p.c. presuppone un errore di fatto, che si configura ove la decisione sia fondata sull’affermazione di esistenza od inesistenza di un fatto che la realtà processuale induce ad escludere o ad affermare, non anche quando la decisione della Corte sia conseguenza di una pretesa errata valutazione od interpretazione delle risultanze processuali, essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione (Cass., n. 10040 del 29/03/2022; n. 20635 del 31/08.2017). Nel caso concreto, nel lamentare genericamente che la cassazione non avrebbe esaminato punto per punto le tre espresse violazioni di legge e/o la falsa applicazione di norme di diritto, e le sette elencate ‘omissioni’ di cui al secondo motivo – spiegando le ragioni del mancato accoglimento del ricorso – ed avrebbe così ‘ fuso ‘ tutti gli esposti motivi, il ricorrente si duole sostanzialmente di errori valutativi, tendendo ad un nuovo vaglio del motivo posto a sostegno del pregresso ricorso per cassazione.
Infine, la domanda di condanna al risarcimento per lite temeraria, ex art. 96, co. 3, c.p.c., è inammissibile, per non aver i controricorrenti Unicredit e COGNOME allegato specificamente i fatti rilevanti integranti la
dedotta responsabilità, essendosi essi limitati ad invocarla genericamente asserendo che ne ricorrevano ‘ ampiamente i presupposti di legge per le ragioni sopraesposte ‘ .
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento, in favore di ciascuna parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di euro 5.200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% per rimborso forfettario delle spese generali, iva ed accessori di legge.
Dichiara inammissibile la domanda ex art. 96, co. 3, c.p.c.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.p.r. n.115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 6 febbraio 2025.