SENTENZA CORTE DI APPELLO DI ROMA N. 4837 2025 – N. R.G. 00005195 2021 DEPOSITO MINUTA 20 08 2025 PUBBLICAZIONE 20 08 2025
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA
Terza Sezione Civile composta dai magistrati
NOME COGNOME Presidente
NOME COGNOME Consigliere rel.
NOME Roberto COGNOME Consigliere
riunita in camera di consiglio, pronuncia la seguente
S E N T E N Z A
nella causa civile di revocazione iscritta al n.5195 del registro generale degli affari contenziosi dell’anno 2021, vertente
tra
Avv.
Avv. COGNOME Avv. COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
impugna chiedendone la revocazione, la sentenza n. 1707 del 2021 con cui questa Corte d’Appello di Roma ha deciso quanto segue: ‘ Con atto di citazione ritualmente notificato il 7/9.10.2013 l’avv. , premesso di avere acquistato da tra il 1998 e il 2011, una serie di monete da collezione del periodo del Regno d’Italia (beni numismatici da collezionismo) al prezzo complessivo di € 137.339,91, dopo avere richiesto e ottenuto l’espletamento di una consulenza
tecnica preventiva ai fini conciliativi ex art. 696 bis c.p.c., conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la predetta società, chiedendo, in via principale, che, previa declaratoria di invalidità e annullamento dei contratti nella parte in cui stabiliscono un prezzo enormemente eccedente quello di mercato, la convenuta fosse condannata alla restituzione, a titolo
e
di oggettivo, arricchimento senza causa, illecito aquiliano o a qualsiasi altro titolo, della somma di € 65.000,00, corrispondente a quanto percepito quale maggiorazione del corrente prezzo di mercato, oltre interessi e rivalutazione; in via gradata, in caso di rigetto della domanda principale, che fossero dichiarati risolti i contratti, con condanna della società alla restituzione di quanto versato, oltre interessi e rivalutazione; in ogni caso, con condanna della convenuta al risarcimento dei danni nella misura di € 37.453,62 o in quella ritenuta di giustizia.
Nel costituirsi in giudizio contestava la fondatezza delle domande e svolgeva domanda riconvenzionale di condanna dell’attore al pagamento del residuo corrispettivo pari a € 13.000,00 dell’ultima compravendita stipulata il 24.6.2011.
Con sentenza n. 16360/2016 il Tribunale di Roma, inquadrata l’azione di annullamento dei negozi in quella di cui all’art 1440 c.c., rigettava le domande svolte dall’attore e, in accoglimento della domanda riconven zionale spiegata dalla società convenuta, condannava il al pagamento della somma di € 13.000,00, oltre interessi. Spese di lite compensate per metà e residua metà posta a carico del ; spese dell’a.t.p. a carico di entrambe le parti, in ragione del 50% per ciascuna di esse.
-Avverso tale sentenza ha proposto appello il , deducendone la erroneità e ingiustizia sotto vari profili; ne ha chiesto, pertanto, la riforma, con accoglimento delle domande svolte in primo grado, reiterando le istanze istruttorie (prova per testi) e sollecitando l’espletamento di una c.t.u. numismatica.
La parte appellata si è costituita, eccependo l’inammissibilità dell’appello per mancanza dei requisiti di cui all’art. 342 c.p.c. e per scarsa probabilità di accoglimento ex art. 348 bis c.p.c.; nel merito, ha chiesto il rigetto dell’appello, se necessario, previa riforma della sentenza di primo grado, in accoglimento dei motivi di appello incidentali svolti in punto riqualificazione della domanda ex art. 1440 c.c. e prescrizione.
-Respinta l’istanza di sospensione degli effetti esecutivi della sentenza, con provvedimento in data 1.2.2021 è stata disposta la trattazione scritta della causa, ai sensi del combinato disposto dell’art. 221 del D.L. n. 34/2020, convertito nella L. n. 77/2020, e succ. mod., fissando la data per la precisazione delle conclusioni, la discussione orale e la sentenza immediata ex art. 281-sexies c.p.c. per il giorno 4.3.2021 e assegnando alle parti termine fino al 24.2.2021 per il deposito di note difensive scritte con la precisazione delle conclusioni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Vanno esaminate, innanzitutto, le eccezioni di inammissibilità dell’appello sollevate da Quanto all’eccezione concernente il difetto dei requisiti di cui all’art. 342 c.p.c. (nel testo rat ione temporis applicabile, successivo alla modifica introdotta dall’art. 54 D.L. n. 83/2012, convertito nella L. n. 134/2012), si osserva come l’impugnazione contenga una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata (in particolare, qualificazione della domanda, regime della prescrizione applicabile, sussistenza dei requisiti delle spiegate domande) e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuta e contrasta le ragioni addotte dal primo giudice, non occorrendo l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado (cfr. Cass. S.U. 16.11.2017 n. 27199).
L’eccezione di manifesta infondatezza dell’appello ex art. 348 -bis c.p.c., invece, è stata già rigettata con l’ordinanza del 25.1.2017, stante l’insussistenza dei relativi presupposti.
-passando al merito, con i primi due motivi di appello, da valutare congiuntamente, in quanto strettamente connessi e attinenti al rigetto della domanda principale (annullamento dei contratti nella parte in cui stabiliscono un prezzo notevolmente superiore a quello di mercato e conseguente diritto ad ottenere la restituzione di quanto pagato in eccedenza, ai sensi dell’art. 2033 c.c.), l’appellante lamenta l’erronea valutazione delle proprie doglianze.
Più specificamente, il contesta le statuizioni del primo giudice con riferimento a:
inquadramento della vicenda nella fattispecie del dolo incidente di cui all’art. 1440 c.c., fondata sulla stipulazione del contratto, per effetto del dolo, a condizioni più onerose;
conseguente applicazione del termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 2947, comma 1, c.c. e accertamento dell’intervenuto decorso di tale termine con riguardo ai quattordici contratti stipulati dal 18.5.1998 (per mero errore materiale indicato nel 18.5.2008, p. 5 sentenza) al 22.5.2007, essendo per essi maturato il quinquennio prima della notifica del ricorso per accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c., avvenuta il 24.5.2012, avente efficacia interruttiva della prescrizione;
dichiarata insussistenza di artifici e raggiri idonei ad indurre l’appellante ad acquistare i beni ad un prezzo nettamente superiore a quello di mercato;
assenza dei presupposti di cui all’art. 2033 c.c., stante la validità dei contratti.
Sostiene, di contro, che:
risulta applicabile la disciplina prevista dall’art. 1439 c.c., non essendovi alcun divieto all’annullamento parziale del contratto;
il termine di prescrizione è quello decennale o, al più, quello più lungo di anni sette e mesi sei di cui all’art. 2947, comma 2 (rect ius, comma 3), c.c., trattandosi di fatti considerati dalla legge come reato (truffa aggravata e continuata e frode in commercio), a far data non già dalle singole operazioni di vendita, ma dall’ultima, dovendo considerarsi la fornitura in modo unitario, in quanto frutto di un unico disegno criminoso; c) sono evidenti gli artifici e i raggiri, che integrano anche un illecito penale, rappresentati dalle false affermazioni precontrattuali e contrattuali, provenienti dalla più importante realtà numismatica italiana; dal sistema di valutazione basato sui ‘punti Bolaffi’, che ha portato a valori doppi rispetto a quelli delle altre maggiori case numismatiche, inducendo l’appellante a ritenere proficuo l’investimento ed effettivo l’aumento del valore delle monete; dalla presenza di vizi e difetti non evidenziati nelle schede consegnate al momento dell’acquisto ed emersi nel corso dell’accertamento tecnico preventivo a mezzo delle note critiche alla c.t.u. prodotte dal consulente di parte;
il pagamento di un prezzo notevolmente superiore a quello di mercato è indebito e ripetibile ai sensi dell’art. 2033 c.c., per difetto di una valida causa solvendi .
Con riferimento a tali punti, occorre valutare anche quanto dedotto dall’appellata, la quale, con motivi definiti di ‘impugnazione incidentale’, chiede, ‘se necessario e fat to salvo il principio del la ragione più l iquida’, la riforma della sentenza in relazione al percorso argomentativo seguito, sia nella parte in cui, in violazione dell’art. 112 c.p.c., ha riqualificato la domanda formulata dall’attore di annullamento per dolo determinante (art. 1439 c.c.) in domanda di risarcimento del danno (del contraente in mala fede), ai sensi dell’art. 1440 c.c., sia nella parte in cui ha individuato l’atto interruttivo della prescrizione nella notifica del ricorso per a.t.p. (24.5.2012), sebbene il avesse dichiarato espressamente a verbale, in sede di a.t.p., che l’azione di merito che intendeva intraprendere non era quella di annullamento.
I motivi di appello sono infondati e vanno respinti.
1.1. -Reputa la Corte che il Giudice di prime cure abbia correttamente inquadrato la fattispecie in esame nell’ipotesi del dolo incidente di cui all’art. 1440 c.c., anziché in quella del dolo determinante di cui all’art. 1439 c.c.
In via generale è stato affermato che il dolo incidente, pur partecipando della natura della fattispecie disciplinata dall’art. 1439 c.c., se ne distingue per l’intensità del raggiro e l’effetto che l’inganno ha avuto: nel dolus causam dans la conclusione di un contratto che, senza l’inganno, non si sarebbe concluso, indipendentemente da un danno patrimoniale; nel dolus incidens la presenza di condizioni diverse da quelle che altrimenti si sarebbero avute, a sé più favorevoli. Diverse sono quindi anche le sanzioni previste per le due fattispecie: l’annullamento ed (eventualmente) il risarcimento del danno per la prima; il solo risarcimento dei danni nella seconda.
Nella specie, il dolo, come prospettato dalla parte appellante, avrebbe avuto scarsa intensità e avrebbe influito soltanto sulle modalità del negozio, rendendole più gravose, senza incidere sull’esistenza del negozio, perché questo è stato comunque concluso, e, pertanto, è solo causa di risarcimento dei danni da parte del contraente ingannato, in quanto costituisce illecito ed è soggetto, come tale, alla disciplina generale degli atti illeciti previsti dall’art. 2043 c.c., quale violazione della regola di condotta stabilita dall’art. 1337 c.c. (responsabilità precontrat tuale), a tutela del corretto svolgimento dell’iter formativo del contratto.
In particolare, il ha denunciato una serie di condotte menzognere, ingannevoli e maliziose della società venditrice, integranti artifici e raggiri diretti ad indurlo in errore e tali da determinarlo negli anni a molteplici acquisti di monete a condizioni più svantaggiose (pagamento di un prezzo di gran lunga superiore a quello normalmente praticato sul mercato), qualora fosse stato a conoscenza delle circostanze sottaciute, con conseguente affermazione del diritto a ripetere la maggiorazione di prezzo versato al contraente in mala fede.
Dal tenore degli atti difensivi e delle conclusioni formulate emerge che l’appellante ha allegato una falsa prospettazione del prezzo reale da parte del venditore, che lo avrebbe portato a concludere negozi per lui pregiudizievoli e dei quali chiede l’annullamento parziale, limitato alla clausola relativa alla determinazione del prezzo, ricorrendo, pertanto, non già un dolo determinante ed efficace ai fini dell’annullamento dei contratti nella loro interezza, ma un semplice dolus incidens, atto a giustificare,
nella ricorrenza degli altri presupposti, la sola azione di danni (i danni costituiti maggior prezzo versato).
Si aggiunga che l’annullamento parziale del contratto, espressamente domandato dall’appellante, è ammesso dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ma soltanto allorché sia possibile amputare una parte del contratto senza la quale i contraenti avrebbero ugualmente raggiunto l’accordo e non anche nel caso in cui si debba procedere da parte del giudice ad adeguamento e rettifiche delle complessive prestazioni al fine del loro equilibrio (Cass. 16.12.1982 n. 6935), come avverrebbe nel caso in esame, dovendo determinarsi il prezzo a cui l’affare sarebbe stato concluso in assenza del dolo, ovvero nell’ipotesi di vizi riguardanti clausole accessorie o secondarie.
L’inquadramento giuridico operato dal primo giudice non è precluso, diversamente da quanto eccepito dalla parte appellata, dal principio di cui all’art. 112 c.c.
Ed infatti, se è vero che l’azione (di annullamento) da dolo determinante si differenzia da quella (risarcitoria) per dolo incidente, e dunque non è ammissibile il mutamento dall’una all’altra in appello, è pur vero che il principio della domanda -in relazione al quale il vizio di ultra o extra petizione ex art. 112 c.p.c. risulta configurabile quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato -deve essere posto in immediata correlazione con il principio iura novi t curia, di cui all’art. 113, comma 1, c.p.c., di talché non ne ricorre la violazione se il giudice abbia assegnato una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa. Rientra, infatti, nei poteri del giudice ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli richiamati dalle parti (cfr. Cass. 20.6.2017 n. 15190).
2.2. -Dalle considerazioni che precedono discende anche la corretta individuazione da parte del Tribunale del regime di prescrizione applicabile, che è quello previsto dall’art. 2947 c.c. (così Cass. 4.4.1990 n. 2798), salva ogni ulteriore valutazione da compiere in ordine alla configurabilità degli estremi di una truffa contrattuale e alla conseguente applicazione del più lungo termine di prescrizione previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 640 e 157 c.p. (art. 2947, comma 3, c.c.), alla individuazione del dies a quo della prescrizione (che, in caso di reato
continuato, è il giorno in cui è cessata la continuazione, a norma degli artt. 2947, comma 3, c.c. e 158 c.p.) e alla idoneità, ai fini dell’efficacia interruttiva della prescrizione, della notifica del ricorso per accertamento tecnico preventivo.
Osserva la Corte sulla prescrizione che, anche qualora si ritenesse applicabile il più breve termine quinquennale ex art. 2947, comma 1, c.c., il dies a quo andrebbe individuato -alla stregua dei consolidati principi affermati in materia di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito -nel momento in cui il danneggiato, con l’uso dell’ordinaria diligenza, sia stato in grado di avere conoscenza dell’illecito, del danno e della derivazione causale dell’uno dall’altro, nonché dello stesso elemento soggettivo del dolo o della colpa che connota l’illecito suddetto (v. Cass. S.U. 10.1.2008 n. 576, confermata dalle pronunce successive, tra cui, da ultimo, Cass. 21.2.2020 n. 4683).
Nella specie, pertanto, la prescrizione non decorre dalla data di stipula dei singoli contratti, come affermato nella sentenza gravata, ma dal momento in cui la produzione del danno si è manifestata all’esterno divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile dal e, quindi, come dal medesimo affermato in sede di precisazione della domanda di merito nel corso dell’a.t.p., dalla ricezione del messaggio di posta elettronica del 2.2.2012, con cui la società dopo avere saputo della sua intenzione di rivenderle la collezione, gli inviò il preventivo di riacquisto delle 32 monete quotate in punti (con esclusione dunque delle raccolte ‘Le monete del Regno I, II e III’ e l’ultima moneta acquistata il 24.6.2011) ad un prezzo di molto inferiore a quello di acquisto. Momento in cui il medesimo ha avuto concreta percezione del carattere, dal suo punto di vista, pregiudizievole degli acquisti compiuti nel tempo per effetto della condotta asseritamente dolosa della venditrice.
Ne consegue che, anche senza considerare l’interruzione rappresentata dal procedimento per RAGIONE_SOCIALE, alla data della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio a (9.10.2013) il diritto al risarcimento del danno (da dolo incidente) non era prescritto. Ciò che rende superfluo esaminare le altre questioni sollevate dalle parti in materia di prescrizione di cui si è detto.
In tal senso va corretta, pertanto, la motivazione della pronuncia impugnata, laddove ha ritenuto maturata la prescrizione per gli acquisti intervenuti dall’inizio del rapporto (1998) e fino a maggio 2007.
2.3. -L’appellante contesta poi le statuizioni del primo giudice, che ha negato la sussistenza di artifici e raggiri maliziosi adoperati in malafede
dalla società appellata idonei a creare una falsa rappresentazione della realtà e a trarlo in inganno, inducendolo ad acquistare i beni per cui è causa ad un prezzo notevolmente superiore a quello praticabile sul mercato di dettaglio.
Si condivide pienamente l’ampia e articolata motivazione della sentenza gravata, che si fonda sull’esame completo della documentazione prodotta e i principi giurisprudenziali enunciati in tema di dolus malus o dolus bonus, e non è affatto superata dagli argomenti sviluppati nell’atto di appello.
In particolare, le generiche dichiarazioni relative a ‘sconti e agevolazioni offerte in esclusiva ai soci’, alle ‘condizioni di grande favore’ dell’acquisto e alla notevole convenienza dell’affare, riportate in meri prospetti illustrativi delle caratteristiche delle monete e in offerte pubblicitarie, le altrettanto generiche assicurazioni dell’agente di vendita circa il continuo aumento di valore delle monete e la estrema redditività dell’investimento e l’adozione del particolare criterio di valutazione delle monete basato sul c.d. ‘punto COGNOME‘ (il cui funzionamento è conosciuto nella realtà numismatica italiana ed è spiegato in modo dettagliato sui cataloghi disponibili al pubblico), non possono considerarsi come aventi valore menzognero, nel senso di dichiarazioni contrattuali consapevolmente false e finalizzate ad alterare la volontà contrattuale del e a carpirne il consenso, sì da ingannarlo sul valore dell’acquisto, inducendolo a stipulare i vari contratti a condizioni inique.
Si aggiunga che dalla consulenza tecnica di ufficio espletata a fini conciliativi emerge l’assoluta particolarità del sistema valutativo, conosciuto nel campo e largamente pubblicizzato, adottato dalla società che porta ad una quotazione delle monete superiore tra il 40% e il 60% rispetto alla quotazione (concetto non coincidente con il valore di mercato) effettuata dagli altri operatori del settore, che tiene conto anche del fatto che le monete, in quanto certificate dalla hanno un ‘valore aggiunto’, e, come tale, ‘motivo di valutazione maggiore’.
Peraltro è notorio che il valore delle collezioni numismatiche è soggetto a fluttuazioni nel tempo, che dipendono da vari fattori. È da escludere, pertanto, che esse abbiano sempre un valore economico maggiore rispetto al prezzo di acquisto e che, di conseguenza, possa ravvisarsi una truffa contrattuale per il solo fatto che il prezzo offerto per la vendita sia in un certo momento inferiore a quello pagato.
Nessun ulteriore elemento sarebbe in grado di fornire la prova testimoniale non ammessa in primo grado e reiterata nell’atto di appello, vertendo su circostanze irrilevanti, risultanti da documenti o generiche.
L’appellante si duole anche del fatto che il Tribunale avrebbe omesso di valutare, nel giudizio concernente la configurabilità del dolo contrattuale, di una circostanza rilevante emersa nel corso dell a mezzo delle note critiche del proprio consulente di parte, circa la presenza sulle monete vendute di ‘graffi, perdita di dettagli, ammaccature sul bordo, riparazioni, perdita di satinatura, usura, lucidature, tracce di pulizia, rifacimento di parti perse e satinature artificiali’, ossia di ‘difetti non evidenziati in chiara ed evidente mala fede -nelle schede consegnategli’.
Anche tale doglianza è priva di pregio.
Da un lato, la presenza di vizi, difformità e alterazioni sulle monete acquistate, in taluni casi molto evidenti, è meramente allegata e non dimostrata, nulla avendo rilevato il consulente tecnico di ufficio nominato in sede di a.t.p., il quale, ai fini della loro valutazione, ha esaminato accuratamente le 32 monete oggetto di controversia, realizzando per ciascuna di esse una scheda analitica con relative fotografie. A nulla vale quanto dedotto l’appellante circa la mancanza in capo al consulente di ufficio -Direttore del laboratorio e conservazione manufatti metallici e lega presso l’Istituto Superiore per la Conservazione e Restauro del Ministero dei beni e delle attività culturali -delle competenze tecniche necessarie per valutare la ‘qualità specifica’ delle monete, e sulla necessità di espletare una consulenza tecnica numismatica a tal fine.
Dall’altro, la mancanza delle qualità promesse e dichiarate in sede di vendita, che non determina per ciò solo la ‘falsità’ dei certificati rilasciati, è stata correttamente valutata dal giudice di primo grado, non già sotto il profilo della ricorrenza del dolo incidente (il quale attiene al momento formativo del contratto che, senza di esso, sarebbe stato concluso a condizioni diverse) e del conseguente risarcimento del danno, ma sotto il diverso profilo dell’inadempimento del venditore, che presuppone la valida conclusione del contratto e attiene al suo momento esecutivo, potendo determinarne la risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c.
2.4. -Accertata la validità del contratto e l’assenza dei presupposti per il risarcimento dei danni ex art. 1440 c.c., va confermata anche la statuizione di rigetto della domanda diretta ad ottenere la restituzione del prezzo asseritamene pagato in misura superiore a quello di mercato, apparendo del tutto inconferenti i principi aff ermati nelle sentenze richiamate nell’atto di appello e nelle note difensive scritte sostitutive dell’udienza, che regolano fattispecie del tutto diverse (diritto alla suddivisione del cointestatario di depositi bancari -Cass. n. 15914/2016; risarcimento danni da inadempimento contrattuale riconosciuto ad acquirente di
diamanti aventi un prezzo di mercato molto inferiore a quello pagato -pronunce di vari tribunali italiani del 2019 e 2020).
-Con il terzo motivo di appello si contesta il rigetto della domanda subordinata di risoluzione dei contratti (o meglio, dell’unico contratto) e risarcimento del danno, motivata sul rilievo della fondatezza dell’eccezione, sollevata dalla società venditri ce, di decadenza e prescrizione previste dall’art. 1497, ultimo comma c.c., non risultando alcuna tempestiva denunzia da parte del compratore ed essendo stata l’azione esercitata ben oltre il termine di un anno dalla consegna di cui all’art. 1495 c.c.
Il motivo va respinto.
In primo luogo, il motivo è formulato in modo non chiaro, laddove l’appellante deduce di non avere mai allegato la mancanza delle qualità promesse e di non avere proposto alcuna specifica domanda di garanzia per vizi, rilevando la mancanza di qualità soltanto come elemento attestante l’esistenza dei vizi del consenso che giustificano l’annullamento del contratto. Non è dato intendere, pertanto, quale sarebbe l’inadempimento contestato alla controparte posto a fondamento della chiesta risoluzione dei contratti.
In secondo luogo, il motivo è destituito di fondamento, laddove si sostiene che, ove il Tribunale avesse ritenuto implicitamente avanzata la domanda di garanzia per vizi, la denunzia di cui all’art. 1495 c.c. non sarebbe stata necessaria, avendo occultato i vizi a mezzo delle false certificazioni rilasciate. Tali vizi, infatti, oltre a non essere stati provati, non possono di certo reputarsi dolosamente occultati, essendo necessario a tal fine non già il semplice silenzio serbato dal venditore, ma una particolare attività illecita, funzionale, con adeguati accorgimenti, a nascondere i vizi della cosa (v. Cass. 15.3.2004 n. 5251).
-Con il quarto motivo l’appellante si duole del mancato accoglimento della domanda ris arcitoria, stante l’evidente nesso eziologico tra le gravi condotte illecite poste in essere dalla società e la mancata definizione dei rapporti con il proprio istituto bancario dovuta all’impossibilità di alienare la collezione di monete.
La doglianza è priva di pregio, dovendo escludersi qualsiasi danno risarcibile una volta accertata la mancanza di condotte illecite e inadempimenti ascrivibili alla parte venditrice.
-Infondato appare, infine, il quinto motivo di appello attinente alle spese di lite, che il giudice di primo grado avrebbe posto ingiustamente per
metà a carico del , nonostante egli avesse documentato che la mediazione esperita, a pena di improcedibilità, nel corso del giudizio avesse avuto esito negativo a causa della man cata partecipazione del legale rappresentante della società
Sul punto appare sufficiente rilevare che il Tribunale ha tenuto conto di tale circostanza, che ha posto, unitamente ad altri elementi (i plurimi tentativi di conciliazione, l’esito degli accertamenti svolti in sede di a.t.p. e la peculiarità della fattispecie), a fondamento della disposta compensazione per metà delle spese (oltre che del carico della c.t.u. sulle parti nella misura del 50% ciascuna). Ha condannato poi il alla rifusione della metà residua, in applicazione del principio generale di cui all’art. 92 c.p.c, essendo egli rimasto soccombente rispetto sia alla domanda principale che alla domanda riconvenzionale.
-In definitiva, l’appello va rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano, applicando i parametri di cui al D.M. n. 55/2014 (modificato dal D.M. n. 37/2018), con riferimento allo scaglione compreso tra € 52.000,01 a € 260.000,00, valori medi, in complessivi € 13.635,00 per compensi (€ 2.835,00 fase di studio; € 1.820,00 fase introduttiva; € 4.120,00 fase di trattazione; € 4.860,00 fase decisionale).
Poiché l’appello è stato proposto in data successiva al 30 gennaio 2013 ed è respinto integralmente, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 -quater, D.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, comma 17, L. n. 228/2012.
P.Q.M.
la Corte, definitivamente pronunciando sull’appello proposto avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 16360/2016 pubblicata il 2.9.2016, ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede:
-rigetta l’appello;
-condanna alla rifusione delle spese processuali in favore di che liquida in € 13.635,00 per compensi, oltre al rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, Iva e Cpa, come per legge;
-dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’appellante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, D.P.R. n. 115/2002 . ‘.
La controparte ha chiesto il rigetto dell’impugnazione.
La causa, previa precisazione delle conclusioni, è stata trattenuta in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda di revocazione è inammissibile.
Il ha sostenuto che ‘il Collegio ha ritenuto di non considerare minimamente le note critiche del consulente tecnico di parte dell’odierno istante e di non disporre la invocata
C.T.U. numismatica sulle monete oggetto di causa sul presupposto che la C.T.U. celebratasi nell’a.t.p. che ha preceduto il giudizio di merito che ci occupa ne avesse già effettuato un accurato esame all’esito del quale aveva, evidentemente, scongiurato la sussistenza di alterazioni, manomissioni e difformità dei manufatti.
Ebbene, tale deduzione è frutto di un’evidente supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa. ‘
Ed ancora ‘ Alcuna valutazione numismatica è stata, quindi, mai effettuata sui beni oggetto di causa né le doglianze sollevate dal consulente di parte attrice sono mai state oggetto di qualsivoglia precisazione o chiarimento da parte del C.T.U., diversamente da quanto erroneamente dedotto dal Collegio, in assenza del benché minimo riscontro. ‘.
Quello che l’impugnante attribuisce al Collegio giudicante è di aver errato nel non prendere in esame le note critiche del consulente di parte depositate in sede di accertamento tecnico preventivo e, conseguentemente, nel non aver disposto una consulenza tecnica sull’aspetto numismatico.
Si tratta all’evidenza di un errore che, in tesi, ha riguardato l’esame delle risultanze processuali.
Osserva la Corte che l’errore revocatorio non è ravvisabile nei casi in cui il giudice ha omesso di motivare esplicitamente l’esame di circostanze e documenti introdotti in giudizio od abbia proceduto ad un’erronea o incompleta valutazione delle risultanze probatorie, incorrendo cosi in un errore di giudizio denunciabile, semmai, con ricorso per cassazione.
L’errore di fatto, quale motivo di revocazione della sentenza ai sensi dell’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., deve consistere in una falsa percezione di quanto emerge dagli atti sottoposti al suo giudizio, concretatasi in una svista materiale su circostanze decisive, emergenti direttamente dagli atti con carattere di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, con esclusione di ogni apprezzamento in ordine alla valutazione delle risultanze processuali. La pronunzia del giudice che costituisca frutto di
un’attività valutativa è, di per sé, incompatibile con l’errore di fatto. Ed infatti il vizio con il quale si imputi alla sentenza un’erronea valutazione delle prove raccolte è, di per sé, incompatibile con l’errore di fatto, essendo ascrivibile non già ad un errore di percezione, ma ad un preteso errore di giudizio.
Le spese di lite seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, deduzione o eccezione disattesa, così provvede:
dichiara inammissibile la domanda di revocazione;
condanna alla rifusione delle spese di lite in favore di nella misura che liquida in euro 12.000,00, oltre spese generali ed oneri di legge.
Dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1, quater d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 come successivamente modificato e integrato, che sussistono i presupposti per il versamento da parte dell’impugnante di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso nella camera di consiglio del 22.7.2025.
Il Consigliere estensore Il Presidente