Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 16297 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 16297 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 17/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 24965-2024 proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
COGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME giusta procura in calce al controricorso;
-controricorrenti –
nonché contro
CHIECCA ERMENEGILDO;
intimato – avverso l’ordinanza n. 10508/2024 della SUPREMA CORTE di CASSAZIONE, depositata il 18/04/2024;
lette le memorie delle parti;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
COGNOME NOME ha proposto ricorso per revocazione affidato ad un motivo avverso l’ordinanza di questa Corte n. 10508/2024 che, decidendo sul ricorso della medesima ricorrente avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia n. 1039 del 25 giugno 2019, aveva dichiarato il ricorso inammissibile, con la condanna della ricorrente al rimborso delle spese in favore dei controricorrenti, COGNOME NOME e COGNOME NOME, e con la condanna ex art. 96 co. 3 e 96 co. 4 c.p.c., rispettivamente in favore dei controricorrenti e della cassa delle ammende.
Al ricorso per revocazione hanno resistito COGNOME NOME e COGNOME NOME con controricorso, mentre COGNOME NOME non ha svolto difese in questa fase.
Entrambe le parti hanno anche depositato memorie.
L’ordinanza impugnata è così motivata:
‘ 1. La vicenda qui al vaglio può riassumersi, per quel che ancora rileva, in breve, nei termini seguenti. NOME COGNOME, chiamata in giudizio nel 2009, unitamente a NOME COGNOME dai vicini
NOME COGNOME e NOME COGNOME svolse domanda riconvenzionale.
Con l’anzidetta domanda la convenuta, premettendo di avere avuto trasferito dal genitore un complesso immobiliare, al quale accedeva tramite un percorso pedonale e carraio, chiese di essere dichiarata titolare, per usucapione, di una servitù di passaggio, anche carraio sulle porzioni del cortile indicate in atti, ove non fosse stata accertata in via principale la proprietà dello stesso.
Il Tribunale, sempre per quel che qui conserva utilità, riconobbe il diritto di proprietà della Chiecca solo su una parte del cortile, la servitù di passaggio solo pedonale e, infine, la piena proprietà di un locale cantina.
la Corte d’appello di Brescia rigettò l’impugnazione della COGNOME.
NOME COGNOME proponeva ricorso avverso la sentenza d’appello fondato su cinque motivi.
Gli intimati NOME COGNOME e NOME COGNOME resistevano con controricorso.
Il Consigliere delegato della Sezione propose definirsi il ricorso ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ.
La ricorrente, con istanza sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale, ha chiesto decidersi il ricorso.
Il processo è stato fissato per l’adunanza camerale del 13 marzo 2024, all’approssimarsi della quale entrambe le parti hanno depositato memorie.
Con il primo motivo la ricorrente nullità della sentenza e violazione dell’art. 132, co. 4, cod. proc. civ. Si assume che la
Corte locale, nel vagliare la deposizione di NOME COGNOME aveva reso motivazione gravemente contraddittoria e priva di coerenza argomentativa.
Con il secondo motivo viene denunciata . La doglianza si appunta sulla circostanza che la sentenza, limitandosi a negare la configurabilità di una servitù di posteggio, non aveva preso in esame la domanda principale di acquisto di quella porzione del cortile non identificata da numerazione catastale. Ove, poi, si fosse voluto pensare a un rigetto implicito, l’argomento era illogico, trattandosi di domande qualitativamente non assimilabili.
Con il terzo motivo viene denunciato vizio di extrapetizione, con violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché violazione degli artt. 1027, 1140 e 1158, nonché, infine, apparenza motivazionale, con violazione dell’art. 132, co. 4, cod. proc. civ. Viene addebitato alla decisione impugnata di aver escluso la configurabilità della servitù di parcheggio, invece riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità.
Inoltre, la Corte aveva affermato, in assenza delle necessarie verifiche, la mancanza di ‘utilitas’ reale e dei presupposti per poter riconoscere una tale servitù. Tutto ciò senza aver valutato i significativi comportamenti tenuti da NOME COGNOME e dal suo dante causa NOME COGNOME
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo con violazione degli artt. 1158, 1140, 1142 cod. civ.
I quattro motivi sopra riportati, osmotici fra loro, unitariamente esaminati, risultano inammissibili.
10.1. Si è chiarito che il ricorso per cassazione deve essere articolato in specifiche censure riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad uno dei cinque motivi di impugnazione previsti dall’art. 360, comma 1 c.p.c., sicché, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di uno dei predetti motivi, è indispensabile che le censure individuino con chiarezza i vizi prospettati, tra quelli inquadrabili nella tassativa griglia normativa. (Nella specie, a fronte di un motivo caratterizzato da scarsa tassatività e specificità nonché dalla esposizione di una congerie di argomenti, la S.C. lo ha ritenuto comunque ammissibile poiché la complessiva lettura dell’insieme censuratorio permetteva di enucleare e perimetrare le critiche alla stregua dei parametri di cui all’art. 360 c.p.c.) -S.U. n. 32415, 08/11/2021, Rv. 662880 -.
I motivi qui al vaglio, in applicazione del principio di diritto sopra enunciato, pur ponendosi al limitare della loro astratta scrutinabilità, possono essere esaminati; fermo restando l’inammissibilità dell’impropria pretesa di riesame nel merito, che li caratterizza tutti.
10.2. In primo luogo risulta inammissibile il più volte dedotto vizio della motivazione, non potendosi in alcun modo affermare l’apparenza della motivazione. Come noto la giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione,
perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. 6, n. 13977, 23/5/2019, Rv. 654145; ma già S.U. n. 22232/2016; Cass. n. 6758/2022 e, da ultimo, S.U. n. 2767/2023, in motivazione).
A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo apriori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto.
Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914).
Qui non ricorre alcuna delle ipotesi sopra richiamate essendo ripercorribile il costrutto motivazionale, nel mentre le osservazioni della ricorrente si traducono, piuttosto chiaramente, nell’impropria pretesa di una rivalutazione di merito. La Corte locale, invero, condividendo la decisione del Tribunale, sulla base dell’insindacabile vaglio istruttorio, reputa che l’odierna ricorrente non abbia fornito la prova dell’ ‘animus possidendi’ e della durata temporale.
La ricostruzione probatoria, come noto, anche qualora sostenuta dall’asserita violazione degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ. (qui non viene espressamente evocata una tale violazione, ma il risultato al quale la ricorrente mira, come si è già detto, presuppone un riesame di essa), non può essere contestata in questa sede, poiché, come noto, l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito non è, in questa sede, sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’art. 116, cod. proc. civ., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (cfr., da ultimo, Sez. 6, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299).
Punto di diritto, questo, che ha trovato recente conferma nei principi enunciati dalle Sezioni unite in epoca recente (sent. n. 20867, 30/09/2020, conf. Cass. n. 16016/2021), essendosi
affermato che in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Rv. 659037). E inoltre che per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Rv. 659037).
10.3. Sotto altro profilo deve evidenziarsi che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d. l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (S.U. n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629831). Qui, per vero, ben lungi da una tale ben circoscritta ipotesi, la ricorrente, piuttosto che individuare un fatto siccome sopra descritto, invocano un improprio integrale riesame di merito.
10.4. È del tutto palese che attraverso la denunzia di violazione di legge la ricorrente sollecita – non determinando essa, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente
evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente – un improprio riesame di merito (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459).
10.5. La dedotta (sia pure in maniera promiscua e impropria, non essendo logicamente plausibile sostenere, a un tempo, che un motivo non sia stato esaminato e che lo sia stato peccando nella motivazione) violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. non è in questa sede scrutinabile, non avendo la ricorrente puntualmente riportato il contenuto dell’asserito motivo d’appello, sul quale, afferma, la Corte locale avrebbe omesso di decidere; motivo che la sentenza impugnata non riporta affatto. 10.6. Infine, è appena il caso di soggiungere che la configurabilità in astratto della servitù di parcheggio (per l’affermativa e i necessari presupposti cfr. Cass. n. 7561/2019) qui non rileva, essendo stata negata ‘ab imis’ la sussistenza del possesso ‘ad usucapionem’.
11. Di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ., da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334, comma 2, cod. proc. civ., sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis cod. proc. civ. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste
nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”. 12. Le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi, a carico della ricorrente e in favore del controricorrente, siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle attività espletate.
12. All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., vigente art. 96, co. 3 e 4, cod. proc. civ., la condanna della ricorrente al pagamento in favore della controparte e della cassa delle ammende, delle somme, stimate congrue, di cui in dispositivo (cfr. S.U. n. 27195/2023).
13. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge, nonché al pagamento dell’ulteriore somma di € 3.500,00 (sempre in favore del controricorrente), ai sensi dell’art. 96, co. 3, cod. proc. civ.;
nonché della somma di € 3.000, ai sensi dell’art. 96, co. 4, cod. proc. civ., in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto. ‘
3. Il motivo di ricorso per revocazione denuncia ex art. 395, n. 4, c.p.c. il fatto che, sebbene la stessa ordinanza riferisca dell’avvenuta proposizione di cinque motivi di ricorso, la decisione abbia poi riguardato solo i primi quattro motivi, risultando del tutto omessa ogni statuizione in relazione al quinto motivo.
La doglianza è fondata.
Questa Corte ha affermato che l’impugnazione per revocazione delle sentenze della Corte di cassazione è ammessa nell’ipotesi di errore compiuto nella lettura degli atti interni al giudizio di legittimità, errore che presuppone l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa; pertanto, è esperibile, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, comma 1, n. 4, c.p.c., la revocazione per l’errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità che non abbia deciso su uno o più motivi di ricorso, dovendo però escludersi il vizio revocatorio tutte volte che la pronunzia sul motivo sia effettivamente intervenuta, anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi di censura del
punto, perché in tal caso è dedotto non già un errore di fatto (Cass. S. U. n. 31032/2019; Cass. n. 26301/2018).
Nella fattispecie si palesa con evidenza l’errore revocatorio che connota l’ordinanza impugnata che, pur avendo riferito in premessa che il ricorso verteva su cinque motivi, si è limitato alla disamina solo dei primi quattro, omettendo ogni statuizione sia pure implicita sul quinto motivo, che come si dirà oltre, non era direttamente inerente al merito della vicenda dominicale che contrapponeva le parti, ma si concentrava unicamente sulla correttezza della statuizione del giudice di appello, quanto alla regolamentazione delle spese di lite.
Per l’effetto la revocazione deve essere accolta, e deve pertanto procedersi in via rescissoria alla pronuncia sul motivo di ricorso a suo tempo non esaminato.
Il quinto motivo del ricorso ab origine proposto avverso la sentenza della Corte d’Appello, denuncia la violazione dell’art. 4, comma 5, del Decreto Ministero della Giustizia 10 marzo 2014 n. 55, in relazione all’art. 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012 n. 247, dell’art. 15 e dell’art. 91 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.; nullità della sentenza per carenza di motivazione, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c.
Assume la ricorrente che la sentenza impugnata per cassazione ha liquidato le spese del giudizio di appello, attribuendo alle controparti anche il compenso per la fase decisionale, e ciò sebbene i difensori degli appellati non avessero partecipato all’udienza di precisazione delle conclusioni, non avessero quindi concluso, e non avessero depositato alcuno scritto conclusionale, essendo perciò escluso, sulla base delle previsioni di cui al DM n.
55 del 2014 che potesse essere accordato un compenso anche per un’attività difensiva in realtà mai svolta.
Con una seconda doglianza lamenta che la Corte d’Appello abbia liquidato le spese sulla base dello scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile a media complessità, trascurando che in realtà entrambe le parti avevano indicato il valore della controversia contenuto nell’importo di € 26.000,00, così che non era dato applicare lo scaglione previsto per la causa di valore indeterminabile.
Tale ultima doglianza appare priva di fondamento.
Nel richiamare il tradizionale principio per cui, in tema di contributo unificato, la dichiarazione del difensore è ininfluente ai fini dell’individuazione del valore della domanda, poiché essa è indirizzata al funzionario di cancelleria, cui compete il relativo controllo, sicché, non appartenendo tale dichiarazione di valore alle conclusioni della citazione, deve escludersi la possibilità di considerarla come parte della “domanda”, nel senso cui vi allude il primo comma dell’art. 10 c.p.c., quando dice che “il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle disposizioni seguenti” (Cass. n. 12770/2023; Cass. n. 9195/2017), la determinazione del valore doveva avvenire
sulla base delle previsioni del codice di procedura civile.
In particolare, trattandosi di controversia avente ad oggetto beni immobili, viene in rilievo la previsione di cui all’art. 15 c.p.c.
La stessa ricorrente, però, riferisce che i beni oggetto di controversia sarebbero privi di rendita catastale, e ed in ogni caso non risulta indicata la rendita per alcune porzioni che invece sembrerebbero essere registrare al catasto.
Pertanto, ai sensi dell’art. 15 citato, in assenza delle rendite catastali, sulla scorta delle quali il codice consente la determinazione del valore a mente del primo comma della norma, il terzo comma dell’art. 15 c.p.c. dispone che il giudice debba ricorrere in via residuale a quanto emerge dagli atti, e se questi non offrono elementi per la stima, debba ritenere la causa di valore indeterminabile.
In assenza di rendita e non emergendo elementi per determinare in altro modo il valore della causa, appare pertanto incensurabile il ricorso della Corte d’Appello al criterio del valore indeterminabile, sulla scorta del quale ha quindi liquidato le competenze spettanti alle parti vittoriose.
E’ invece fondata la prima censura, in quanto dalla lettura dei verbali del giudizio di appello non risulta che la difesa dei controricorrenti abbia partecipato all’udienza di conclusioni, né risulta che abbia depositato scritti conclusionali, come appunto sostanzialmente riconosciuto in controricorso.
E’ pur vero che una fase decisionale si è avuta, ma alla stessa è rimasta estranea la difesa degli appellati, con la conseguenza che in sede di liquidazione delle spese a carico della parte soccombente non può essere posto un compenso per una fase che non ha visto l’espletamento di attività difensiva da parte delle parti risultate vittoriose.
Pertanto, in parziale accoglimento del quinto motivo di ricorso, la sentenza di appello deve essere cassata quanto alle spese di lite, ma si palesa la possibilità di decidere nel merito, non apparendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, sicché, in parziale riforma della sentenza appellata, le spese dovute dalla ricorrente
in favore dei controricorrenti per il giudizio di appello devono essere rideterminate al netto della voce per la fase decisionale, risultando quindi dovuta la somma di € 3.894,00 (di cui € 2.309,00 per la fase di studio, ed € 1.585,00 per la fase introduttiva), il tutto oltre spese generali ed accessori di legge se dovuti.
L’accoglimento del solo quinto motivo di ricorso impone per il resto la conferma dell’ordinanza di questa Corte quanto alla decisione sui primi quattro motivi di ricorso.
Quanto alle spese del giudizio di legittimità, si ritiene che invece ricorrano i presupposti, in ragione dell’accoglimento del solo quinto motivo, per compensare per la metà le spese del giudizio di cassazione e del presente giudizio di revocazione, ponendo la residua parte a carico della ricorrente, attesa la sua prevalente soccombenza sul piano sostanziale, come liquidata in dispositivo.
Nulla a disporre per le spese nei confronti della parte rimasta intimata.
Tuttavia, sempre in ragione dell’accoglimento del quinto motivo di ricorso l’ordinanza di questa Corte deve essere modificata nella parte in cui aveva applicato le previsioni sanzionatorie di cui al terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c., sul presupposto, poi non confermato, della definizione del giudizio in conformità della proposta del relatore di cui al primo comma dell’art. 380 bis c.p.c.
Analogamente, deve essere dichiarata l’insussistenza dell’obbligo del pagamento dell’ulteriore contributo unificato a
norma di quanto disposto dall’art. 13 comma 1 -quater del DPR n. 115/2002.
PQM
La Corte accoglie il ricorso per revocazione proposto avverso l’ordinanza di questa Corte n. 10508/2024, e, confermata la declaratoria di inammissibilità dei primi quattro motivi del ricorso originario, accoglie il quinto motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza di appello, e decidendo nel merito, condanna la ricorrente al rimborso in favore dei controricorrenti delle spese del giudizio di appello rideterminate nell’importo di € 3.894,00, oltre spese generali ed accessori di legge se dovuti;
compensa per la metà le spese del precedente giudizio di legittimità e quelle del giudizio di revocazione, e condanna la ricorrente al rimborso in favore dei controricorrenti della residua parte che liquida in tale ridotta misura in complessivi € 3.400,00 (di cui € 1.600,00 per il giudizio di revocazione), oltre € 200,00 per esborsi (di cui € 100,00 per il giudizio di revocazione), oltre spese generali ed accessori di legge, se dovuti.
Così deciso nella camera di consiglio del 22 maggio 2025