Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 5647 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 5647 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6338/2023 R.G. proposto da COGNOME, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO;
-ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli AVV_NOTAIO, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in RomaINDIRIZZO INDIRIZZO;
-controricorrente –
e
RAGIONE_SOCIALE;
-intimata – avverso l’ordinanza della Corte di cassazione n. 824/23, depositata il 13 gen-
naio 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 novembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME, in qualità di socia della RAGIONE_SOCIALE, con una quota pari al 16,666%, convenne in giudizio la società, chiedendo la dichiarazione di nullità o l’annullamento della delibera adottata il 6 maggio 2009, con cui l’assemblea della società aveva approvato il bilancio dell’esercizio 2008 ed una situazione patrimoniale al 30 aprile 2009.
A sostegno della domanda, l’attrice riferì che la delibera era stata adottata con il voto determinante della RAGIONE_SOCIALE, divenuta socia con una quota dell’83,3334% nonostante il rifiuto del gradimento da parte di essa attrice, lamentando inoltre la mancanza di chiarezza, trasparenza e veridicità del bilancio sotto vari profili.
Si costituì la RAGIONE_SOCIALE, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.
Spiegò intervento nel giudizio la RAGIONE_SOCIALE, aderendo alle difese della convenuta.
1.1. Con sentenza del 22 dicembre 2014, il Tribunale di Rimini rigettò la domanda, rilevando che l’iscrizione della RAGIONE_SOCIALE nel libro dei soci, oltre a non essere stata impugnata, era stata seguita da altre delibere, anch’esse non impugnate, aggiungendo che l’art. 8bis dello statuto sociale, che subordinava l’ingresso di nuovi soci al gradimento della maggioranza dei soci non alienanti, doveva essere interpretato nel senso che dal quorum costitutivo e deliberativo dell’assemblea dovessero essere escluse le azioni del singolo socio di volta in volta proposte in vendita, ed osservando che le censure riguardanti la validità del bilancio si riferivano in realtà a meri atti di gestione della società.
Sull’appello proposto da NOME COGNOME, il giudizio fu dichiarato interrotto, a causa della cancellazione della RAGIONE_SOCIALE dal registro delle imprese.
2.1. A seguito della riassunzione, la Corte d’appello di Bologna dichiarò la
sopravvenuta carenza d’interesse dell’attrice con sentenza dell’8 febbraio 2018, accogliendo l’appello incidentale proposto dalla RAGIONE_SOCIALE, e condannando l’attrice al pagamento delle spese del giudizio cautelare e dei due gradi del giudizio di merito.
Premesso che l’estinzione della RAGIONE_SOCIALE, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, aveva comportato il venir meno della legittimazione processuale della stessa, la Corte ritenne che la successione dei soci nelle poste attive e passive della società estinta non consentisse di riconoscere la legittimazione processuale della RAGIONE_SOCIALE, osservando che la domanda non aveva ad oggetto elementi dell’attivo o del passivo e non costituiva il presupposto per il riconoscimento di ulteriori situazioni giuridiche di vantaggio in favore dell’attrice. Ritenne comunque che quest’ultima fosse ormai carente d’interesse ad agire, poiché all’accoglimento dell’impugnazione non avrebbe potuto far seguito alcuna statuizione da parte della società estinta, con la conseguenza che la decisione richiesta si sarebbe risolta in una mera pronuncia sulla legittimità della delibera, inidonea ad attribuire un bene della vita di cui NOME COGNOME potesse beneficiare.
Rilevato invece che il Tribunale aveva omesso di pronunciare sulle spese del procedimento cautelare di sospensione della delibera impugnata e di quello di reclamo, condannò l’attrice al pagamento delle stesse e di quelle dei due gradi del giudizio di merito, conformemente al criterio della soccombenza virtuale. Ritenne infatti che, indipendentemente dal difetto di specificità delle censure proposte dall’appellante, l’interpretazione dell’art. 8bis dello statuto sociale fornita dalla sentenza di primo grado fosse perfettamente logica e coerente con l’intenzione dei soci di sottoporre l’ingresso del nuovo socio al gradimento della maggioranza dei soci non alienanti, aggiungendo che la RAGIONE_SOCIALE aveva assunto la qualità di socio per effetto non già di una delibera dell’assemblea, ma di un lodo arbitrale che aveva dato esecuzione in forma specifica all’obbligo di vendere le azioni contratto da NOME, NOME e NOME COGNOME.
Avverso la predetta sentenza NOME COGNOME propose ricorso per cassazione, dichiarato inammissibile da questa Corte con ordinanza n. 824/23 del 13 gennaio 2023.
A fondamento della decisione, questa Corte ha rilevato il difetto di autosufficienza delle censure mosse all’interpretazione della clausola di gradimento, in quanto non accompagnate dall’indicazione del suo contenuto e del luogo in cui era reperibile lo statuto sociale che la conteneva. Ha aggiunto che, ai fini della valutazione della soccombenza virtuale, la sentenza impugnata aveva fatto ricorso a tre diverse rationes decidendi , due delle quali (riflettenti la genericità dei motivi di appello e l’assunzione della veste di socio da parte della RAGIONE_SOCIALE in virtù non già della cessione delle quote, ma di un lodo arbitrale) erano rimaste incensurate. Ha ritenuto inoltre che la denuncia di violazione dell’art. 1362 cod. civ. eccedesse i limiti del sindacato di legittimità, non avente ad oggetto il risultato interpretativo in sé, ma solo il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la correttezza e logicità della motivazione, affermando infine, relativamente alla censura di apparenza della motivazione, che il giudice d’appello ben può motivare per relationem alla decisione di primo grado, purché dia conto delle ragioni della conferma in relazione ai motivi d’impugnazione.
4. Avverso la predetta ordinanza NOME COGNOME ha proposto ricorso per revocazione, affidato a un solo motivo, illustrato anche con memoria. La RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso. La RAGIONE_SOCIALE non ha svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia un errore di fatto, ai sensi dell’art. 395 n. 4 cod. proc. civ., osservando che, nel dichiarare inammissibile per difetto di autosufficienza il primo motivo di ricorso, riguardante l’interpretazione dell’art. 8bis dello statuto sociale, questa Corte non ha considerato che il contenuto della clausola di gradimento era illustrato nella narrativa dell’atto, in cui era indicato anche il luogo in cui era reperibile lo statuto sociale che la conteneva. Premesso che il contenuto della clausola non era mai stato contestato dalla controparte, sostiene inoltre che il motivo di ricorso era volto a censurare l’interpretazione della clausola sotto il profilo non già della preferibilità di un diverso canone ermeneutico, ma dell’illogicità della motivazione.
1.1. Il motivo è inammissibile.
Com’è noto, l’errore di fatto rilevante ai fini della revocazione della sentenza, ivi comprese quelle della Corte di cassazione, postula l’esistenza di un contrasto fra due rappresentazioni dello stesso oggetto, risultanti una dalla sentenza impugnata e l’altra dagli atti processuali, e deve a) consistere in un errore di percezione o in una mera svista materiale che abbia indotto, anche implicitamente, il giudice a supporre l’esistenza o l’inesistenza di un fatto che risulti incontestabilmente escluso o accertato alla stregua degli atti di causa, sempre che il fatto stesso non abbia costituito oggetto di un punto controverso sul quale il giudice si sia pronunciato, b) risultare con immediatezza ed obiettività, senza bisogno di particolari indagini ermeneutiche o argomentazioni induttive, c) essere essenziale e decisivo, nel senso che, in sua assenza, la decisione sarebbe stata diversa (cfr. Cass., Sez. VI, 10/06/2021, n. 16439; Cass., Sez. III, 14/02/2006, n. 3190). In riferimento alle sentenze di cassazione, esso deve inoltre riguardare gli atti interni al giudizio di legittimità, cioè quelli che la Corte può esaminare direttamente, con propria indagine di fatto, nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d’ufficio, e deve avere carattere autonomo, nel senso di incidere esclusivamente sulla sentenza di cassazione (cfr. Cass., Sez. I, 22/10/2018, n. 26643; Cass., Sez. V, 5/03/2015, n. 4456; Cass., Sez. lav., 18/02/2014, n. 3820).
Nella specie, il vizio denunciato dalla ricorrente attiene certamente all’esame degli atti interni al giudizio di legittimità, consistendo nell’affermazione del difetto di autosufficienza del primo motivo del ricorso per cassazione, riguardante l’interpretazione dell’art. 8bis dello statuto sociale, e quindi nella rilevazione di un vizio processuale, demandata a questa Corte, in quanto incidente sulla corretta instaurazione del giudizio di cassazione. L’inesattezza della predetta affermazione è indubbiamente suscettibile d’immediato riscontro attraverso la lettura del ricorso, avendo questa Corte giustificato tale rilievo con la mancata trascrizione della clausola statutaria a corredo delle censure e con la mancata indicazione del luogo in cui, tra gli atti e i documenti prodotti a sostegno del ricorso, era reperibile lo statuto. L’erronea supposizione dell’inesistenza delle predette indicazioni non ha svolto tuttavia un ruolo determinante ai fini della decisione, avendo questa Corte addotto una NOME–
lità di ragioni a sostegno della stessa, ciascuna delle quali deve ritenersi autonomamente idonea a giustificare la dichiarazione d’inammissibilità del motivo d’impugnazione: l’ordinanza impugnata ha infatti rilevato per un verso la mancata impugnazione di due delle tre rationes decidendi su cui era fondata la sentenza d’appello, nella parte riguardante la soccombenza virtuale, per altro verso la genericità delle critiche mosse all’interpretazione della clausola statutaria, in quanto non accompagnate dalla specifica indicazione dei canoni ermeneutici violati, e per altro verso ancora la genericità della censura di apparenza della motivazione, in quanto fondata sulla mera affermazione della insufficienza del richiamo alla decisione di primo grado, non corredata dall’indicazione delle doglianze formulate nel giudizio di appello. Trova pertanto applicazione il principio, più volte ribadito in tema di revocazione delle sentenze di legittimità per errore di fatto, secondo cui, ove la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, contenuta nella pronuncia revocanda, si regga su due o più autonome rationes decidendi , una sola delle quali revocabile perché affetta da errore percettivo, l’intangibilità delle altre, in quanto immuni da vizi, consente di escludere la sussistenza del requisito della decisività dell’errore, ossia dell’idoneità dello stesso a travolgere la ragione giuridica sulla quale si regge la decisione impugnata, prescritto dall’art. 395 n. 4 cod. proc. civ., richiamato dall’art. 391bis cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. III, 14/02/2022, n. 4678; Cass., Sez. I, 31/10/2017, n. 25871; Cass., Sez. VI, 25/03/2013, n. 7413).
Quanto poi all’asserito travisamento del vizio dedotto attraverso le censure riguardanti l’interpretazione della clausola statutaria, è appena il caso di rilevare che, in quanto consistente in un errore percettivo, ovverosia in una falsa rappresentazione della realtà processuale, emergente prima facie dal confronto tra la decisione e gli atti o i documenti di causa, e tale da indurre a supporre l’esistenza o l’inesistenza di un fatto la cui verità risulti incontestabilmente esclusa o stabilita, l’errore revocatorio non è configurabile nell’ipotesi in cui si affermi che la decisione di questa Corte sia conseguenza di un’errata valutazione od interpretazione delle risultanze processuali, essendo esclusa dall’area dell’impugnazione per revocazione la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione (cfr. Cass., Sez. III, 29/03/
2022, n. 10040; Cass., Sez. VI, 31/08/2017, n. 20635; Cass., Sez. II, 22/06/ 2007, n. 14608). Non può quindi ritenersi inficiata da un errore di fatto, tale da giustificarne la revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 cod. proc. civ., richiamato dall’art. 391bis cod. proc. civ., una decisione di legittimità della quale, come nella specie, si censuri la valutazione di uno dei motivi di ricorso, affermandosi che sia stata compiuta senza considerare le argomentazioni svolte nell’atto d’impugnazione, poiché ciò che viene dedotto, in tal caso, non è una falsa rappresentazione del contenuto dell’atto, dovuta a una mera svista materiale, ma un’errata individuazione dell’oggetto del ricorso, che, in quanto riconducibile all’interpretazione dell’atto, si traduce, ove effettivamente sussistente, in un errore di giudizio (cfr. Cass., Sez. VI, 27/04/2018, n. 10184; 15/02/2018, n. 3760; Cass., Sez. II, 12/05/2011, n. 10466).
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 10/11/2023