Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 27687 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 27687 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso 24330-2024 proposto da:
NOME COGNOME, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza n. 23046/2024 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 22/08/2024 R.G.N. 2809/2019;
Oggetto
R.G.N.NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud 08/10/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/10/2025 dal AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO.
RILEVATO CHE
NOME COGNOME chiede la revocazione dell’ordinanza di questa Corte n. 23046/2024 (decisione sul ricorso rg. n. 2809/2019) che ha accolto il ricorso dell’RAGIONE_SOCIALE e cassato la sentenza n. 512/2018 della Corte d’appello di Torino che, in sede di rinvio da Cass. n. 20698/2015, aveva disposto l’applicazione sulla pensione del dante causa del ricorrente della cd ‘clausola oro’ di cui all’art. 30 del regolamento Enpi, a seguito di una CTU che, in applicazione dei criteri forniti, aveva calcolato le differenze maturate dal 1° gennaio 1991 al 30 novembre 2010 in € 429.001,15, al cui pagamento aveva condannato RAGIONE_SOCIALE.
Il ricorrente lamenta errore di fatto ex art. 395 n. 4 cod. proc. civ., illustrando le censure con memoria.
Resiste RAGIONE_SOCIALE con controricorso.
Chiamata la causa all’adunanza camerale dell’8 ottobre 2025, il Collegio ha riservato il deposito della motivazione nel termine di sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Come ancora di recente ribadito da Cass. n. 12506/2024, «questa Corte ha ripetutamente affermato che l’errore di fatto previsto dall’art. 395 n. 4 cod. proc. civ. idoneo a costituire motivo di revocazione si configura come una falsa percezione della realtà, una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, la quale abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolge l’attività valutativa del giudice di
situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività. L’errore deve, pertanto, apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche. Esso non può consistere in un preteso inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, vertendosi, in tal caso, nell’ipotesi dell’errore di giudizio, denunciabile con ricorso per cassazione, entro i limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 cod . proc. civ.. L’errore revocatorio presuppone il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio sul piano logico giuridico, ossia di una viziata valutazione delle prove o delle allegazioni delle parti, essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione (cfr., tra le altre, Cass. n. 16439 del 2021, n. 22171 del 2010, n. 8180 del 2009, n. 14267 del 2007, n. 4015 del 2006, n.3652 del 2006)».
Con specifico riferimento alla revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, l’errore rilevante ai sensi dell’art. 395 n. 4 cod. proc. civ., secondo le acquisizioni della giurisprudenza di questa Corte da ultimo ricordate da Cass., Sez. Un., n.20013/2024, «a) consiste nell’erronea percezione dei fatti di causa che abbia indotto la supposizione della esistenza o della inesistenza di un fatto, la cui verità è incontestabilmente esclusa o accertata dagli atti di causa, sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito terreno di discussione tra le parti; b) non può concernere l’attività interpretativa e valutativa; c) deve possedere i caratteri della evidenza assoluta e della immediata rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la
sentenza impugnata e gli atti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; d) deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione erronea e la decisione revocanda deve esistere un nesso causale tale da affermare con certezza che, ove l’errore fosse mancato, la pronuncia avrebbe avuto un contenuto diverso; e) deve riguardare solo gli atti interni al giudizio di cassazione ed incidere unicamente sulla pronuncia della Corte, poiché l’errore che inficia il contenuto della decisione impugnata in cassazione deve essere fatto valere con le impugnazioni esperibili contro la decisione stessa» (Cass., Sez. Un., n. 20013/2024 e giurisprudenza ivi citata).
Tanto premesso, il ricorso è inammissibile.
La sentenza della Corte d’appello di Torino n. 518//2018 portata all’attenzione di questa Corte nel giudizio definito con l’ordinanza revocanda, riporta testualmente il quesito posto al CTU, al quale era stato chiesto di calcolare le eventuali differenze pensionistiche tenendo conto: che al COGNOME era stata attribuita la qualifica di coordinatore prima qualifica professionale settore sanitario dal gennaio 1980, che nel calcolo della retribuzione di riferimento del COGNOME bisognava fare riferimento a detta p osizione e qualifica applicando l’art. 30 del regolamento Enpi (clausola oro), che nell’applicazione di detta clausola bisognava fare riferimento alle qualifiche che hanno sostituito quelle previgenti una volta soppresso l’Ente (ed in particolare al trattamento pensionistico correlato alla retribuzione spettante a un dirigente medico con incarico primariale SSN), che il CTU doveva tener conto che la domanda era limitata a far data dal 1 aprile 1991. Non erano state fornite indicazioni in merito al fatto ch e l’applicazione della clausola oro dovesse essere limitata al 31.12.1997.
Sulla base di ciò la Corte territoriale ha concluso che il CTU ‘ha quantificato (sulla base di parametri di cui sopra) un importo per differenze pensionistiche spettanti dal 1.4.1991 al 30.11.2010 – mese del decesso ) pari ad € …’.
L’ordinanza revocanda ha così motivato:
-la legge n. 449/1997, all’art. 59, comma 4, ha stabilito la soppressione, a decorrere dal 1° gennaio 1998, dei meccanismi di adeguamento diversi da quello previsto dal d.lgs. n. 503/1992 art. 11 anche se collegati all’evoluzione delle retribuzioni del personale in servizio, il che impedisce, da tale data, la riliquidazione automatica, ai sensi delle disposizioni regolamentari, dei trattamenti pensionistici dei dipendenti e quindi l’operatività del meccanismo della clausola oro;
-la corte torinese, dopo aver riportato i quesiti formulati al CTU, ha quantificato le differenze pensionistiche ‘spettanti dall’1.1.1991 al 30.11.2010 mese del decesso -pari ad € 429.001,15’ e per tale somma ha pronunciato condanna;
-poiché la statuizione che quantifica le differenze anche in relazione ad un periodo successivo al 31.12.1997 si pone in contrasto con la normativa indicata, la causa va rinviata alla Corte territoriale per procedere al calcolo degli importi dovuti limitan do l’operatività del meccanismo di adeguamento del trattamento pensionistico in virtù della clausola oro al 31 dicembre 1997.
Secondo il ricorrente, l’ordinanza de qua sarebbe il frutto di un manifesto travisamento degli atti di causa e delle risultanze istruttorie, sub specie della relazione peritale cui la sentenza della Corte torinese ha fatto richiamo, poiché non avrebbe considerato che la clausola oro era stata applicata da detta Corte solo fino al 1993, come si desumerebbe dalle affermazioni della sentenza, lette ed interpretate alla luce di quanto
convenuto dalle parti in sede di operazioni peritali, e dalle considerazioni svolte dal Ctu quanto ai criteri di calcolo applicati. Il ricorrente chiede, quindi, la revocazione dell’ordinanza, il rigetto del precedente ricorso in Cassazione dell’RAGIONE_SOCIALE e la condanna di quest’ultimo, oltre che al pagamento delle spese anche del precedente giudizio di cassazione, anche al risarcimento del danno ex art. 96 comma 1 cod. proc. civ. o al pagamento di una somma ex art. 96 comma 3 cod. proc. civ.
Dal testo della sentenza della Corte torinese non si ricava che la clausola oro sia stata applicata solo sino al 1993: la frase su cui l’odierno ricorrente fa leva ossia: ‘evidenziava che dal 1° gennaio 1998 per effetto della legge n. 449 del 1997 comunque erano scomparse dal settore pubblico tutte le forme di adeguamento pensionistico diverse da quelle ordinarie’ è riferita alla sentenza della Corte d’appello di Genova che era stata impugnata con il primo ricorso in Cassazione.
Dalla sentenza non emerge neppure che tale limite fosse stato posto al CTU, perché, come detto, il quesito non lo riporta.
In definitiva il ricorrente chiede un nuovo giudizio di cassazione, ponendo le stesse questioni già evidenziate nel controricorso del giudizio precedente, che l’ordinanza revocanda non ha condiviso.
Così facendo, non ci si duole di un errore revocatorio nei sensi sopra indicati, tanto meno evidente.
E’ principio consolidato quello per cui «l’errore di fatto non è ravvisabile nell’ipotesi di errore costituente il frutto di un qualsiasi apprezzamento delle risultanze processuali, ossia di una viziata valutazione delle prove o delle allegazioni delle parti, essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione. Pertanto, l’errore di fatto consiste in un errore meramente
percettivo che in nessun modo coinvolga l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività; ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico -giuridico» (Cass. n.10973/2024).
L’ordinanza qui gravata ha accolto il ricorso con cui RAGIONE_SOCIALE aveva impugnato la sentenza della Corte torinese che, in sede di rinvio da Cass. n. 20698/2015, ha disposto l’applicazione sulla pensione del dante causa della parte privata della cd clausola oro d i cui all’art. 30 del regolamento Enpi. RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE aveva denunciato violazione dell’art. 59, comma 4, della legge n. 449/1997 (che a decorrere dal 1° gennaio 1998 ha bloccato meccanismi di adeguamento diversi da quello generalizzato di cui all’art. 11 del d .lgs. n. 503/1992), perché i giudici di merito, nel rideterminare il trattamento pensionistico spettante al dante causa, avrebbero applicato la clausola oro anche per il periodo successivo al 1° gennaio 1998.
Nell’ordinanza revocanda la doglianza è stata accolta perché, posto che la pronuncia rescindente non si era occupata del periodo in relazione al quale ha operato il sistema di adeguamento della clausola oro, e posto il tenore dell’art. 59, comma 4, della legge n. 449/1997, la sentenza impugnata, dopo aver riportato i quesiti formulati al CTU e affermato di prestare adesione alle conclusioni, ha quantificato un importo per differenze pensionistiche spettanti dall’1.1.1991 al 30.11.2010 -mese del decesso, pr onunciando condanna: ‘per come espressasi, la statuizione che quantifica le differenze anche in relazione ad un periodo successivo al 31.12.1997 si pone in contrasto con la normativa indicata’.
Trattasi di attività valutativa inidonea ad integrare errore revocatorio.
Con la censura secondo cui la Corte di legittimità non si sarebbe avveduta che l’applicazione della clausola oro era stata già esclusa per il periodo successivo al 1993 in sede di operazioni peritali, si deduce una erronea valutazione delle risultanze in atti: in tal modo, vengono, in realtà, reiterate le doglianze già veicolate nell’originario ricorso per cassazione, riprodotto anche nell’odierno ricorso, poiché, in definitiva, ci si duole di un (supposto) errore che coinvolge proprio l’attività valutativa del giudice, impugnando la decisione in quanto conseguenza di un’asserita errata interpretazione di documenti e risultanze processuali e non di una loro inesatta percezione (Cass. Sez.Un. n.13181/2013; Cass.n.10184/2018).
Non viene in rilievo una falsa percezione della realtà, intesa come svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, che abbia portato «ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato» e che presuppone «l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa» (Cass. Sez.Un. 31032/2019).
Se «l’errore di fatto ricorre quando la Corte di cassazione non ha avuto contezza dell’esistenza di un documento, e non già quando lo abbia esaminato – e quindi di necessità anche valutato» e «si deve manifestare al di fuori di ciò che è stato il dibattito processuale, estrinsecandosi in un vizio soltanto percettivo, che non coinvolge in nessun modo la valutazione del giudice di situazioni processuali esattamente percepite o percepibili nella loro oggettività» (Cass. n.5326/2023), nella
specie l’ordinanza impugnata ha dato contezza della CTU, richiamando il quesito posto, e «non sono suscettibili di revocazione le sentenze della Corte di cassazione per le quali si deduca come errore di fatto un errore che attiene alla valutazione di atti sottoposti al controllo della Corte stessa poiché un tale errore può risolversi al più in un inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, in ogni caso qualificabile come errore di giudizio» (Cass. n. 5326/2023).
Né può affermarsi che il supposto errore, anche per come rappresentato in ricorso, possegga i caratteri della evidenza assoluta e della immediata rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche.
Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile con condanna al pagamento delle spese secondo soccombenza, come liquidate in dispositivo.
In considerazione della dichiarazione di inammissibilità del ricorso, va dichiarata la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 8000,00 per compensi ed € 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale dell’8 ottobre 2025 La Presidente NOME COGNOME