Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 33935 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 33935 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21880/2023 R.G. proposto da: COGNOME rappresentato e difeso dall’avv.to COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentati e difesi da ll’avvocato COGNOME
– controricorrente –
avverso la ORDINANZA di CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE ROMA n. 16518/2023 depositata il 12/06/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
20/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME conveniva NOME COGNOME dinanzi al Tribunale di Napoli premettendo di essere proprietaria di un appartamento con terrazzo, confinante con altro terrazzo separato da un muro di proprietà del convenuto e che il convenuto, nel corso degli anni: (a) aveva realizzato una serie di opere in violazione delle distanze tra le costruzioni e per le vedute; (b) aveva alterato il decoro architettonico dell’edificio, nella sua qualità di proprietaria dell’unità immobiliare e di condom ina, domandava la condanna alla riduzione in pristino e la condanna generica al risarcimento dei danni.
Il convenuto COGNOME contestava la domanda, eccependo sia l’usucapione che la prescrizione dell’azione altrui.
Il Tribunale accertava che COGNOME aveva realizzato, in appoggio al muro di confine tra i due terrazzi, un manufatto abitabile composto da più vani, coperto dai seguenti tre solai calpestabili, costituenti lastrici solai, situati a differenti quote: il primo a 2,25 metri dal calpestio, raggiungibile da una scala provvisoria e privo di parapetto; i restanti due rispettivamente a 3,00 e 3,30 metri, accessibili dal primo tramite un gradino di 75 centimetri, muniti di parapetti, posizionati a 1,03 metri dal terrazzo dell’attrice e a 5,90 metri dalla finestra del salone di quest’ultima. Il giudice di primo grado accertava poi che dai due lastrici protetti era possibile sporgersi e guardare in tutte le direzioni nel fondo della vicina, applicava l’art. 905 c.c. (distanza minima di un metro e mezzo per l’apertura di vedute dirette), di conseguenza ordinava l’arretramento dei parapetti, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio. Escludeva, invece, la violazione dell’art. 873 c.c., osservando che era osservata la distanza minima
dalla costruzione dell’attrice, poiché era possibile costruire in aderenza al muro, in applicazione del principio della prevenzione, senza che il regolamento comunale prevedesse qualcosa in contrario.
La Corte d ‘ Appello di Napoli rigettava l’appello principale del COGNOME e quello incidentale dell’attrice.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di due motivi.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso e ha proposto ricorso incidentale con quattro motivi, illustrati anche da memoria.
Con ordinanza n. n.16518 del 2023 questa Corte ha accolto il ricorso principale, ha rigettato i primi quattro motivi del ricorso incidentale, assorbito il quinto, ha cassato la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti del ricorso principale e rinviato la causa alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione anche per le spese del giudizio di legittimità.
Per quel che ancora rileva nel presente giudizio la Corte ha rigettato il secondo motivo del ricorso incidentale con il quale si deduceva violazione e falsa applicazione degli artt. 1158, 2934 c.c., 31 l. 47/1985, nonché omesso esame circa un fatto decisivo, per avere la Corte di appello omesso di dichiarare l’usucapione del diritto di servitù a mantenere le opere realizzate a distanza inferiore a quella prevista dalla legge e dai regolamenti edilizi locali.
In particolare, si è ritenuto il motivo non fondato in quanto la sentenza impugnata aveva accertato il difetto di prova che le opere effettuate nel 1993 avessero investito una superficie analoga a quella attualmente occupata e che l’edificazione sulla zona prospiciente il muro di confine fosse rimasta immutata nel tempo.
Al contrario, la seconda istanza di condono rinveniva la propria ragione sufficiente nell’esigenza di sanare l’abbattimento dell’originaria veranda, sostituita da una nuova costruzione in muratura. Da questo e da altri elementi, la Corte territoriale aveva desunto che l’inclusione del precedente manufatto in una più vasta struttura imponeva di qualificare come nuova l’opera e impediva di far regredire il dies a quo del ventennio utile alla prescrizione (acquisitiva ed estintiva) al completamento della precedente struttura (veranda), totalmente diversa. Tale apprezzamento non aveva profili censurabili nel giudizio di legittimità.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per revocazione ex art. 391-bis cod. proc. civ. della suddetta ordinanza, sulla base di unico motivo.
Il consigliere delegato ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti.
A seguito di tale comunicazione, il ricorrente a mezzo del difensore munito di nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.
È stata fissata l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ.
Il ricorrente con memoria depositata in prossimità dell’udienza ha insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso è così rubricato: revocazione per errore di fatto dell’ordinanza 16518/2023 emessa dalla Seconda Sezione civile della Suprema Corte di Cassazione per aver fondato
la propria decisione su una circostanza di fatto erronea che emergerebbe in maniera evidente dagli atti di causa.
La Corte di Cassazione ha rigettato il secondo motivo di ricorso incidentale proposto da COGNOME NOME, avente ad oggetto la dichiarazione dell’intervenuta usucapione del diritto a mantenere le opere realizzate sulla ‘ zona prospiciente il muro di confine ‘ sul presupposto come si legge a pag. 8 dell’ordinanza -che ‘ la seconda istanza di condono rinviene la propria ragione sufficiente nell’esigenza di sanare l’abbattimento dell’originaria veranda, sostituita da una nuova costruzione in muratura’, ragion per cui ‘l’inclusione del precedente manufatto in una più vasta struttura impone di qualificare come nuova l’opera e impedisce di far regredire il dies a quo del ventennio utile alla prescrizione (acquisitiva ed estintiva) al completamento della precedente struttura (veranda), totalmente diversa’ .
Il ricorrente rileva che , in presenza di due condoni, l’uno richiesto nel lontano 1986 dal dante causa dell’attuale ricorrente (avente ad oggetto i luoghi per cui è causa) ed il secondo richiesto invece dal COGNOME nel 1995 (ma relativo ad altro luogo dell’appartamento, del tutto estraneo al muro di confine), la Corte avrebbe erroneamente riferito le circostanze di fatto del primo alla concessione del secondo, così errando nel calcolo dei termini per il maturarsi dell’usucapione.
La proposta di definizione del giudizio formulata ai sensi dell’art. 380 -bis c.p.c. è di inammissibilità e/o manifesta infondatezza del ricorso per le seguenti ragioni: la censura, priva di enunciazione del vizio lamentato e di indicazione delle norme di diritto asseritamente violate, è inammissibile, o comunque
manifestamente infondata, in quanto essa, oltre ad essere confezionata mediante l’inserimento nel corpo dell’atto di impugnazione delle riproduzioni in fotocopia di alcuni documenti acquisiti agli atti del giudizio di merito, si risolve nella contestazione della statuizione confermativa del rigetto della domanda riconvenzionale di usucapione del diritto di servitù di veduta, oggetto del ricorso incidentale spiegato dall’odierna parte ricorrente. La parte ricorrente, in realtà, invoca una revisione della valutazione di fatto e dell ‘apprezzamento delle prove operati dalla Corte distrettuale, che la Corte di cassazione ha ritenuto intangibile in sede di legittimità, trattandosi di giudizio di merito.
Il ricorso per revocazione, dunque, lungi dal prospettare un errore di percezione, contesta il giudizio sulla idoneità delle prove a dimostrare il dies a quo ai fini del computo dell’usucapione del diritto di servitù di veduta, senza avvedersi che detto giudizio è stato condotto dal giudice di merito, al quale è riservata la valutazione del fatto e delle risultanze istruttorie, e non dalla Corte di Cassazione, la quale, con l’ordinanza oggi impugnata, si è limitata ad affermare, in punto di diritto, l’infon datezza della doglianza concernente la detta valutazione del compendio istruttorio, appunto in quanto attinente ad un ambito riservato al giudice di merito.
Il ricorrente con la memoria depositata in prossimità dell’udienza insiste nella richiesta di accoglimento del ricorso e in aggiunta alle deduzioni ivi formulate, tenuto conto anche delle conclusioni della proposta, ribadisce che: L’errore di fatto denunciato con il ricorso per revocazione è da individuarsi nella circostanza che la Corte, a pag. 8 dell’ordinanza n. 16518/2023, ha
erroneamente affermato che il dott. COGNOME avrebbe realizzato sul luogo di causa una nuova costruzione in muratura nel 1993 tanto che nel 1995 avrebbe presentato il secondo condono per sanare le dette opere. Sulla base di tale erroneo presupposto, la Corte avrebbe fatto decorrere il termine di usucapione ventennale dal 1993 rigettando il secondo motivo del ricorso incidentale avente ad oggetto il diritto a mantenere la costruzione prospiciente il terrazzo per decorso del termine. In realtà il dott. COGNOME aveva chiesto di accertare il diritto a mantenere sul terrazzo di sua proprietà la costruzione realizzata nel 1970 dal suo dante causa che nel 1986 aveva presentato istanza di condono, rilasciata nel 1998 (Concessione n. 72/98, all. 6/A, doc. n. 6 fascicolo revocazione) dopo l’acquisto dell’appartamento. L’errore di fatto, quindi, sarebbe stato quello di ricollegare il condono richiesto dal COGNOME nel 1986, relativo ai lavori del 1970 (all. 6/A, doc. n. 6) ai lavori effettuati in altra zona dal COGNOME nel 1993. Ciò risulterebbe anche dalla sentenza del TAR Campania n. 2454/2023 pubblicata successivamente alla decisione impugnata per revocazione.
Il ricorso è infondato.
4.1 La memoria del ricorrente non offre argomenti tali da consentire di modificare le conclusioni di cui alla proposta di definizione accelerata
La decisione della Corte si è fondata su un giudizio complessivo in relazione al quale si è ritenuto che la domanda del secondo condono si giustificava per sanare l’abbattimento della originaria veranda e sostituire la superficie in lamiera metallica con una superficie piana oggetto del secondo condono. Come indicato nella proposta la decisione della Corte d’Appello si è fondata sul difetto
di prova il cui onere ricadeva sul ricorrente circa il fatto che le opere effettuate nel 1993 avessero investito una superficie diversa rispetto a quella attualmente occupata e che l’edificazione sulla zona prospiciente il muro di confine fosse rimasta immutata nel tempo. Sulla base di tale premessa si è ritenuto che la seconda istanza di condono rinvenisse la propria ragione sufficiente nell’esigenza di sanare l’abbattimento dell’originaria veranda, sostituita da una nuova costruzione in muratura.
Deve ribadirsi, infatti, che: «L’errore di fatto che può legittimare la revocazione di una sentenza della Corte di cassazione deve riguardare gli atti “interni” al giudizio di legittimità, ossia quelli che la Corte esamina direttamente nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili di ufficio, e deve avere quindi carattere autonomo, nel senso di incidere direttamente ed esclusivamente sulla sentenza medesima. Ne consegue che, ove il dedotto errore di fatto sia stato causa determinante della sentenza pronunciata in grado di appello o in unico grado, in relazione ad atti o documenti esaminati dal giudice di merito, o che quest’ultimo avrebbe dovuto esaminare, la parte danneggiata è tenuta a proporre impugnazione, ex artt. 394, primo comma, n. 4, e 398, cod. proc. civ., contro la decisione di merito, non essendole consentito addurre tale errore in un momento successivo» ( ex plurimis Sez. L, Sentenza n. 3820 del 18/02/2014, Rv. 629917 -01; Sez. 1, Sent. n . 24860 del 2006 Rv. 593075).
Peraltro, deve sottolinearsi che non solo da questo ma anche da altri elementi, la Corte territoriale ha ritenuto che l’inclusione del precedente manufatto in una più vasta struttura imponesse di qualificare come nuova l’opera e impedisse di far regredire il dies a
quo del ventennio utile alla prescrizione (acquisitiva ed estintiva) al completamento della precedente struttura (veranda), totalmente diversa.
In conclusione, n on sussistono i presupposti per l’errore revocatorio che al più doveva essere rivolto avverso la sentenza della Corte d’Appello .
Deve ribadirsi, infatti, il principio secondo il quale l’errore di fatto rilevante ai fini della revocazione della sentenza, compresa quella della Corte di Cassazione, presuppone l’esistenza di un contrasto tra due rappresentazioni dello stesso oggetto, risultanti una dalla sentenza impugnata e l’altra dagli atti processuali; il detto errore deve: a) consistere in un errore di percezione o in una mera svista materiale che abbia indotto, anche implicitamente, il giudice a supporre l’esistenza o l’inesistenza di un fatto che risulti incontestabilmente escluso o accertato alla stregua degli atti di causa, sempre che il fatto stesso non abbia costituito oggetto di un punto controverso sul quale il giudice si sia pronunciato, b)risultare con immediatezza e obiettività senza bisogno di particolari indagini ermeneutiche o argomentazioni induttive; c) essere essenziale e decisivo, nel senso che, in sua assenza, la decisione sarebbe stata diversa (Cass. Sez. 6-2 10-6-2021 n. 16439 Rv. 661483-01, Cass. Sez. 3 14-2-2006 n. 3190 Rv. 590611-01).
Nella specie non ricorre alcuna delle suddette ipotesi che peraltro devono concorrere tra loro avendo questa Corte, nei limiti propri del giudizio di legittimità, ritenuto di confermare il giudizio espresso dalla Corte d ‘ Appello sul mancato assolvimento dell’onere della prova circa il momento di costruzione del manufatto dal quale
far decorrere il dies a quo ai fini del computo dell’usucapione del diritto di servitù di veduta.
Del tutto inammissibile la produzione della sentenza del Tar che è successiva all’ordinanza di cui si chiede la revocazione e dunque non può avere alcun rilievo in relazione al presunto e asserito errore di percezione.
Il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
6.1 Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., vanno applicati -come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380-bis cod. proc. civ. -il terzo e il quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., con conseguente condanna della parte ricorrente al pagamento, in favore delle parti controricorrenti, di una somma equitativamente determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagame nto di una ulteriore somma – nei limiti di legge in favore della cassa delle ammende.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della parte controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle
spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge;
condanna altresì la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., al pagamento, in favore di ciascuna delle parti controricorrenti, della ulteriore somma determinata equitativamente in euro 4.000,00, nonché ex art. 96, quarto comma, c.p.c. al pagamento della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende;
dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda