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Errore chirurgico: prova per presunzioni e risarcimento

Un paziente, a seguito di un incidente, subiva un errore chirurgico durante la rimozione dei mezzi di sintesi, con un frammento di vite lasciato nella gamba. Dopo un iniziale rigetto della domanda per mancanza di prova diretta, la Cassazione ha cassato la sentenza, stabilendo che la responsabilità medica può essere provata anche per presunzioni basate sulla documentazione clinica. La Corte d’Appello, in sede di rinvio, ha quindi riconosciuto l’errore chirurgico, condannando la struttura sanitaria al risarcimento del solo danno temporaneo (prolungamento della malattia e danno morale), escludendo il danno permanente in quanto conseguenza dell’incidente originario.

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Pubblicato il 21 novembre 2024 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Errore Chirurgico: Come la Prova per Presunzioni Determina il Risarcimento

Un recente caso deciso dalla Corte di Appello di Salerno offre spunti fondamentali sulla responsabilità medica e, in particolare, su come si possa provare un errore chirurgico anche quando manca una prova schiacciante. La vicenda riguarda un intervento di rimozione di mezzi di sintesi non riuscito completamente, che ha richiesto una successiva operazione correttiva. La sentenza illustra il valore della prova per presunzioni e chiarisce i criteri per la quantificazione del danno risarcibile.

I Fatti: Un Intervento Chirurgico Incompleto

Tutto ha origine da un incidente stradale che causa a un giovane paziente una frattura alla gamba. Dopo un primo intervento, si rende necessaria una seconda operazione per rimuovere i mezzi di sintesi (chiodo e viti) precedentemente impiantati. Tuttavia, durante questa seconda procedura, i sanitari rimuovono solo parzialmente i dispositivi, lasciando in situ il chiodo endomidollare e un moncone di vite. Questo errore chirurgico costringe il paziente a sottoporsi a un terzo intervento presso un’altra struttura per completare la rimozione.

Il Percorso Giudiziario e l’Importanza dell’Errore Chirurgico

Il paziente cita in giudizio la struttura sanitaria pubblica, ma sia in primo grado che nel primo giudizio d’appello la sua domanda viene respinta. Il motivo? La mancanza di una prova “diretta” dell’errore e del nesso causale. I giudici ritengono che la documentazione medica prodotta non sia sufficiente a dimostrare con certezza che il terzo intervento fosse una conseguenza di una negligenza avvenuta nel secondo.

La svolta arriva con il ricorso in Corte di Cassazione. La Suprema Corte ribalta la decisione precedente, affermando un principio cruciale: la prova di un fatto può essere raggiunta anche attraverso presunzioni. Sebbene i documenti clinici non dichiarassero esplicitamente l’errore, nel loro insieme (certificati, cartella anestesiologica che menzionava la “rimozione di chiodo endomidollare con il moncone della vite”) fornivano indizi gravi, precisi e concordanti. Questi elementi erano sufficienti a fondare una “prova per presunzioni” dell’errore chirurgico. La causa viene quindi rinviata alla Corte di Appello per una nuova valutazione.

La Decisione della Corte d’Appello in Sede di Rinvio

Seguendo le indicazioni della Cassazione, la Corte di Appello dispone una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU). I periti confermano la negligenza dei sanitari: la buona pratica medica imponeva la rimozione completa di tutti i mezzi di sintesi, cosa che non è avvenuta. La struttura sanitaria viene quindi dichiarata responsabile per l’errore commesso nell’esecuzione dell’intervento.

La Quantificazione del Danno: Cosa Viene Risarcito?

Questa è una delle parti più interessanti della sentenza. La Corte opera una distinzione netta tra i danni derivanti dall’incidente stradale originario e quelli causati specificamente dall’errore chirurgico. La perizia chiarisce che le lievi menomazioni permanenti del paziente (ipotrofia muscolare, cicatrici) sono una normale conseguenza della frattura iniziale e non dell’intervento errato.

Di conseguenza, il risarcimento viene limitato ai soli danni direttamente riconducibili alla negligenza medica, che sono:
1. Danno da invalidità temporanea: Un “allungamento del periodo di malattia” quantificato in 3 giorni di invalidità totale e 30 giorni di invalidità parziale al 50%, corrispondenti al periodo di ricovero e convalescenza per il terzo intervento correttivo.
2. Danno morale: La sofferenza, la frustrazione e l’ansia patite dal paziente a causa della scoperta dell’errore e della necessità di subire un’ulteriore operazione non prevista.
3. Danno patrimoniale: Il rimborso delle spese mediche documentate.

La Corte esclude il risarcimento per danno permanente e per la perdita di capacità lavorativa, poiché non collegati all’errore medico ma alla lesione originaria.

Le motivazioni

La Corte di Appello ha motivato la propria decisione basandosi sull’orientamento vincolante della Corte di Cassazione. Il giudice del rinvio ha riconosciuto che, sebbene mancasse un’ammissione esplicita di errore nella cartella clinica, l’insieme dei documenti creava una presunzione sufficientemente forte. La descrizione di un intervento per rimuovere un “moncone di vite” e la necessità di una terza operazione per la rimozione dei mezzi di sintesi, a distanza di mesi dalla seconda, costituivano elementi logici che portavano a concludere per una rimozione incompleta e quindi negligente. La responsabilità contrattuale della struttura sanitaria è stata quindi affermata. Per quanto riguarda il danno, la motivazione si fonda sulle conclusioni della CTU, che ha isolato in modo scientifico le conseguenze dell’errore medico (il ritardo nella guarigione) da quelle della patologia iniziale (gli esiti permanenti della frattura). Questo ha permesso una liquidazione del danno mirata e proporzionata alla sola condotta colposa.

Le conclusioni

Questa sentenza è un importante promemoria su due fronti. In primo luogo, consolida il principio per cui, in ambito di responsabilità medica, il paziente non è sempre tenuto a fornire una prova “diretta” dell’errore; un quadro indiziario solido, basato sulla documentazione clinica, può essere sufficiente a fondare una prova per presunzioni. In secondo luogo, illustra con chiarezza come il danno risarcibile debba essere rigorosamente collegato, tramite un nesso di causalità, alla sola condotta negligente, escludendo le conseguenze che sarebbero comunque derivate dalla condizione patologica originaria del paziente.

È possibile provare un errore chirurgico anche senza una prova diretta, come una confessione o un documento esplicito?
Sì. La sentenza, seguendo le indicazioni della Corte di Cassazione, conferma che la prova può essere raggiunta anche “per presunzioni”. Se dalla documentazione medica complessiva emergono indizi gravi, precisi e concordanti, il giudice può ritenere provato l’errore anche in assenza di una prova diretta.

Se un errore medico peggiora una condizione preesistente, come viene calcolato il risarcimento?
Il risarcimento copre solo il danno differenziale, ovvero il peggioramento o il danno aggiuntivo causato specificamente dall’errore medico. Nel caso esaminato, le conseguenze permanenti della frattura originaria non sono state risarcite, ma lo sono state quelle derivanti dal terzo intervento resosi necessario per l’errore (prolungamento della malattia e sofferenza morale).

Cosa succede se un paziente non deposita nuovamente i documenti in appello? Perde la causa?
Inizialmente l’appello rischiava di essere rigettato per l’inerzia della parte. Tuttavia, la Corte, anche alla luce di un recente intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, ha ritenuto di poter ordinare l’acquisizione dei documenti indispensabili già prodotti in primo grado, superando l’ostacolo e permettendo di decidere nel merito.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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