Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20465 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 20465 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 15915-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 715/2020 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 01/12/2020 R.G.N. 1044/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/05/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Oggetto
Errore nella certificazione Unica -risarcimento danni
R.G.N.15915/2021
Cron. Rep. Ud 20/05/2025 CC
Fatti di causa
La Corte d’appello di Firenze ha accolto l’appello di NOME COGNOME e, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato RAGIONE_SOCIALE a risarcire alla dipendente la somma di euro 852,16, oltre accessori di legge.
La Corte territoriale ha accertato che il mancato conteggio, nella busta paga di novembre 2016 e nella Certificazione Unica relativa all’anno 2016, di 7 ore e 15 minuti di lavoro prestato aveva impedito alla dipendente di risultare in possesso dei requisiti per ottenere il cd. bonus Renzi, credito Irpef introdotto dall’art. 1, commi 12 e 13 della legge 190 del 2014. Ha escluso qualsiasi concorso di colpa della lavoratrice nella causazione del danno atteso che la stessa si era accorta dell’errore a marzo 2017, esaminando la C.U. 2016, ed aveva tempestivamente segnalato l’errore, mettendo la società in condizione di rettificare lo stesso con il pagamento di una sanzione minima (euro 33,00 per la rettifica entro 60 giorni) o, comunque, contenuta (euro 100,00).
Avverso la sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, illustrati da memoria. NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.), per avere la Corte d’appello errato nel supporre che la lavoratrice avesse, nel ricorso introduttivo di primo grado, fornito indicazioni e dati di calcolo
idonei e sufficienti a provare il suo diritto al citato bonus e per avere considerato tali dati non contestati da parte della società. Il motivo di ricorso è inammissibile poiché non deduce l’omesso esame di un fatto storico avente rilievo decisivo, come necessario ai fini del vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. Cass., S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014), ma argomenta sulla inidoneità delle prove raccolte a dimostrare il reddito percepito dalla lavoratrice nel 2016. La censura quindi si concentra in chiave critica sulla valutazione del materiale probatorio, compito riservato al giudice di merito e non suscettibile di revisione in sede di legittimità.
Con il secondo motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte d’appello posto a fondamento della decisione fatti e argomentazioni dedotti dalla signora COGNOME, contestati da Unicoop Firenze s.c., e non supportati da elementi di prova.
Il motivo è inammissibile per mancato rispetto delle prescrizioni imposte dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 c.p.c., perché la società censura l’affermazione dei giudici di appello sulla mancata contestazione dei dati di calcolo forniti dalla lavoratrice, assumendo di avere invece contestato tali allegazioni, ma non si premura di trascrivere o localizzare in modo specifico gli atti processuali contenenti le contestazioni mosse ed i termini delle stesse. Come affermato in plurimi precedenti di legittimità, il ricorso per cassazione con cui viene dedotta la violazione del principio di non contestazione deve indicare, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., sia la sede processuale in cui sono state dedotte le tesi ribadite o lamentate come disattese, inserendo nell’atto la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi, sia, specificamente, il contenuto degli atti e degli ulteriori scritti difensivi, in modo da consentire la valutazione di
sussistenza dei presupposti per la corretta applicazione dell’art. 115 c.p.c. (Cass. n. 15058 del 2024; n. 12840 del 2017; n. 16655 del 2016).
3. Con il terzo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 commi 1 e 2 c.c., nonché l’erronea applicazione ed interpretazione del concetto giuridico di onere di diligenza gravante sul lavoratore e violazione dell’art. 115 c.p.c. (ar t. 360 n. 3 c.p.c.). Si assume che la Corte d’appello abbia errato nel ritenere non esigibile dalla lavoratrice un comportamento ordinariamente diligente nei confronti del datore di lavoro e nell’escludere, a differenza di quanto aveva fatto il tribunale, che la condotta diligente della stessa – di tempestiva rilevazione delle ore mancanti nella busta paga di novembre 2016, consegnatale nel dicembre 2016 o, almeno, di segnalazione dell’errore nei primi di febbraio, quando le fu consegnata la C.U, – avrebbe potuto impedire il verificarsi del danno, ai sensi dell’art. 1227, comma 2 c.c. (con correzione della C.U. inviata all’Agenzia delle entrate solo nel marzo 2017); parimenti errata sarebbe la negazione di un concorso di colpa della lavoratrice, ai sensi del comma 1 dell’art. 1227 cit., con conseguente diritto della società alla riduzione proporzionale del danno risarcibile. 4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 115 c.p.c., nonché dell’art. 4 co. 6 D.P.R. 22 luglio 1998 n. 322, art. 51, co. 1, TUIR, per avere la Corte d’appello errato nel fondare la propria dec isione sull’assunto che Unicoop Firenze s.c. fosse ‘obbligata’ a rettificare la certificazione unica relativa all’anno 2016 della signora COGNOME (obbligo in realtà inesistente perché la residua paga di novembre 2016 era stata versata nel 2017 e inclusa nella C.U. del 2017) e per non avere considerato che comunque, anche ove la rettifica fosse stata temporalmente praticabile (e
non lo era ostandovi l’art. 51, co. 1, TUIR), la lavoratrice non aveva fornito prova di essersi quanto meno attivata per consentire la rettifica entro il 7 maggio 2017, cioè entro 60 giorni dalla scadenza del 7.3.2017.
Il terzo e il quarto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente per connessione logica e non sono fondati.
L’art. 1 della legge n. 4 del 1953 fa ‘obbligo ai datori di lavoro di consegnare, all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto di paga in cui devono essere indicati il nome, cognome e qualifica professionale del lavoratore, il periodo cui la retribuzione si riferisce, gli assegni familiari e tutti gli altri elementi che, comunque, compongono detta retribuzione, nonché, distintamente, le singole trattenute. Tale prospetto paga deve portare la firma, sigla o timbro del datore di lavoro o di chi ne fa le veci’. Il datore di lavoro è obbligato, a monte, a versare ai dipendenti la retribuzione corrispondente al lavoro prestato, il che presuppone che siano correttamente conteggiate le ore di lavoro mensilmente eseguite e che la retribuzione sia puntualmente parametrata alle stesse.
Nel caso di specie, è pacifico che nella busta paga di novembre 2016, predisposta dalla società datoriale, vi era un errore nel computo delle ore di lavoro e che questo errore, rifluito nella C.U., ha provocato un danno alla dipendente, risultata non in possesso dei requisiti reddituali per accedere al bonus introdotto dalla legge 190/2014. È altrettanto pacifico che la dipendente (e non la società) si è accorta dell’errore (non dopo aver ricevuto il prospetto paga ma solo) esaminando la C.U. e quindi dopo la consegna della stessa.
La società assume che la lavoratrice avrebbe potuto e dovuto rilevare l’errato computo delle ore di lavoro esaminando la busta paga di novembre e che sarebbe pertanto tardivo il rilievo
dell’errore avvenuto solo in base alla C.U., ed anzi alcuni mesi dopo il ricevimento della stessa. Tali premesse varrebbero, nell’ottica di parte ricorrente, a dimostrare il difetto di diligenza della dipendente e il suo concorso colposo rivendicato ai sensi sia del primo e sia del secondo comma dell’art. 1227 c.c.
7.1. Costituisce affermazione costante di questa Corte che il concorso del danneggiato nella causazione o nell’aggravamento del danno, ai sensi dell’art. 1227, commi 1 e 2, c.c., possa derivare solo da una sua condotta colposa e, cioè, irrispettosa di specifici obblighi di legge, di patti contrattuali o di regole di comune prudenza (Cass. n. 7515 del 2018; n. 36357 del 2023); occorre, in altri termini, che il creditore medesimo sia tenuto, per legge o per contratto o per generico dovere di correttezza, ad adottare un determinato comportamento, inerente all’esecuzione del rapporto obbligatorio e idoneo a ridurre, o escludere, gli effetti pregiudizievoli dell’inadempimento (Cass. n. 420 del 1981, in relazione all’art. 1227, comma 1 c.c.).
A proposito di concorso colposo del danneggiato, occorre poi distinguere l’ipotesi prevista dall’art. 1227, comma 1, c.c., che concerne il contributo eziologico del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso, da quella contemplata nel comma 2 dello stesso articolo, riferita al comportamento dello stesso danneggiato, successivo all’evento e che abbia prodotto un aggravamento del danno, inserendosi, in via esclusiva, nello sviluppo delle conseguenze, ovvero che non abbia contribuito a ridurne l’entità (Cass. n. 16588 del 2005; n. 1165 del 2020).
Ala luce di tali coordinate in diritto, non vi è spazio, nel caso in esame, per ritenere integrata l’ipotesi descritta dal primo comma dell’art. 1227, in cui il comportamento colposo del danneggiato in tanto rileva in quanto abbia un’incidenza causale nell’eziologia dell’evento lesivo (Cass. n. 29475 del 2024; n.
1295 del 2017), costituisca cioè un antecedente causale necessario del verificarsi dell’evento (cfr. Cass. 11698 del 2014). Non è ravvisabile alcun apporto causale della condotta della lavoratrice nella produzione dell’evento dannoso, coincidente con l’er ronea certificazione unica, che ha impedito alla stessa di godere del bonus cui avrebbe avuto diritto se fossero state contabilizzate tutte le ore di lavoro prestate. Non solo è mancata qualsiasi forma di cooperazione attiva nella produzione dell’evento ma neppure può ipotizzarsi una corresponsabilità per omissione, per non essersi la dipendente attivata al fine di rimuovere tempestivamente l’errore altrui (cfr. Cass. n. 24406 del 2011), in mancanza di un preciso obbligo giuridico della stessa di controllare tempestivamente e di segnalare immediatamente al datore di lavoro eventuali errori nella redazione dei prospetti paga.
Questa Corte ha riconosciuto il nesso di causalità tra la condotta del (nella specie ex) datore di lavoro che aveva erroneamente attestato al (nella specie ex) dipendente un periodo di servizio superiore al reale e la richiesta di pensionamento presentata dal lavoratore anzitempo, fidando nell’esattezza dei calcoli compiuti dal primo circa la sua posizione contributiva, con conseguente impossibilità di godere della pensione nel periodo immediatamente successivo ed ha escluso che fosse ravvisabile, nella suddetta ipotesi, un concorso di colpa del danneggiato nella produzione dell’evento ‘non essendo da questi esigibile -alla stregua dell’ordinaria diligenza – alcuna verifica di dati forniti che, provenendo dalla (nella specie ex) parte datoriale, dovevano ri tenersi per ciò solo attendibili’ (Cass. n. 15992 del 2011).
Sull’art. 1227, comma 2 c.c., la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che tale disposizione, escludendo il
risarcimento per il danno che il creditore avrebbe potuto evitare con l’uso della normale diligenza, impone a quest’ultimo una condotta attiva, espressione dell’obbligo generale di buona fede, diretta a limitare le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, a tal fine richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (Cass. n. 26639 del 2013; n. 25750 del 2018; n. 22352 del 2021).
Ai fini del secondo comma dell’art. 1227 c.c. rileva unicamente la condotta tenuta dalla dipendente dopo aver ricevuto la C.U., contenente l’errore contabile commesso dalla società e tale da determinare l’evento dannoso, vale a dire la mancanza del requisito reddituale per accedere al beneficio per cui è causa. La censura mossa dalla società, di violazione dell’art. 1227 comma 2 c.c., si rivela, per alcuni aspetti inammissibile e per altri aspetti infondata.
È inammissibile nella parte in cui sostiene che la C.U. sarebbe stata consegnata alla dipendente i primi di febbraio 2017, argomentando che se la predetta avesse tempestivamente rilevato l’errore e informato la società, questa avrebbe potuto procedere alla correzione prima dell’invio delle certificazioni all’Agenzia, cosa avvenuta solo nel marzo 2017; secondo la tesi datoriale, la lavoratrice si sarebbe attivata solo nel maggio 2017, precludendo la correzione anteriore al primo invio delle certificazioni, e deve considerarsi interamente responsabile del danno subito, in base al disposto dell’art. 1227, comma 2 c.c. In tal modo, tuttavia, la società denuncia la violazione della citata disposizione partendo da una ricostruzione in fatto diversa da quella accolta dai giudici di appello. In nessuna parte della sentenza è acclarata la consegna della C.U. nel mese di febbraio
2017 ma tale consegna è riferita al mese di marzo 2017, come allegato dalla lavoratrice e confermato dalla data (6.3.2017) apposta sulla certificazione medesima. Non solo, la Corte d’appello ha appurato che la dipendente ‘ha verosimilmente effettuato la segnalazione prima del maggio 2017, ovvero ad aprile 2017’, come desumibile da una serie di e.mail dalla stessa inviate e come ‘esposto in ricorso e non contestato’ (sentenza, p. 5).
Posto che il vizio di violazione di legge presuppone un accertamento in fatto incontestato, la deduzione in esame risulta inammissibile essendo la violazione di legge articolata sul presupposto di una erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa (v. Cass. n. 3340 del 2019; n. 640 del 2019; n. 10320 del 2018; n. 24155 del 2017; n. 195 del 2016).
La censura in esame è, per il resto infondata, poiché la Corte non solo ha escluso che la lavoratrice ha aggravato le conseguenze dell’errore (avendo effettuato la segnalazione in un congruo intervallo temporale) ma ha anche accertato che la società avrebbe potuto limitare il danno poiché, avuto conoscenza dell’errore nell’aprile 2017, avrebbe potuto procedere alla rettifica della C.U. entro 60 giorni, decorrenti dal 7.3.2017 (data di trasmissione delle certificazioni uniche all’Agenzia delle entrate), paga ndo una sanzione minima di 33 euro, oppure anche dopo i 60 giorni a fronte di una sanzione di euro 100, come segnalato dalla stessa lavoratrice; i giudici di appello hanno anche accertato che la società aveva omesso la rettifica della C.U. senza motivare il proprio rifiuto se non in ragione del costo della stessa.
Deve quindi escludersi la violazione dell’art. 1227 c.c., sia del primo e sia del secondo comma.
8. Le censure oggetto del quarto motivo di ricorso, sub specie di violazione dell’art. 51, comma 1, del TUIR, si rivelano inammissibili perché nuove, non avendo la società indicato in che termini e in quali atti processuali abbia sollevato la relativa questione nei precedenti gradi di merito, atteso che la sentenza non reca alcun cenno in proposito ed anzi afferma che la sola giustificazione fornita dalla società a supporto della mancata rettifica risiedeva nel costo della stessa (cfr. Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del 2018; n. 20694 del 2018).
Peraltro, l’impossibilità tecnica di una rettifica della C.U. successiva al 7.3.2017 non avrebbe alcun rilievo al fine di dimostrare l’aggravamento del danno per fatto colposo della lavoratrice, posto che la consegna del C.U. risale, in base a quanto accer tato dalla sentenza d’appello, a data non anteriore al 6.3.2017.
Infine, non vi è alcuna contraddizione logica nella motivazione della decisione impugnata che, una volta giudicata tempestiva e conforme alla normale diligenza la comunicazione, ad opera della lavoratrice, dell’errore nella C.U., ha considerato, solo in via ipotetica e senza alcun effetto pratico, che al più si sarebbe potuto addebitare alla dipendente ‘la sola colpa della tardiva segnalazione rispetto alla consegna della CU a marzo 2017’, quindi una colpa (ipotetica) per il ritardo nella segnalazione riferita al periodo marzo/maggio 2017.
Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma
1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 1.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 20 maggio 2025.