Sentenza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 19340 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 3 Num. 19340 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/07/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 10743/2022 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall ‘ avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) ed elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, rappresentata e difesa dall ‘ avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) ed elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di BRESCIA n. 175/2022 depositata il 14/02/2022.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 18/04/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
R.G. 10743/2022
COGNOME.
Rep.
U.P. 18/4/2024
C.C. 14/4/2022
CONTRATTI AGRARI. AFFITTO. EREDI.
Udito il AVV_NOTAIO Generale AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha concluso per l’accoglimento del settimo motivo di ricorso, respinti gli altri.
Uditi gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso alla Sezione specializzata agraria del Tribunale di Bergamo NOME COGNOME convenne in giudizio il proprio fratello NOME COGNOME, chiedendo che fosse condannato a rilasciarle una serie di beni immobili che la madre di entrambi, NOME COGNOME, le aveva lasciato nel testamento olografo del 1° maggio 2005 e nel successivo testamento pubblico del 2 novembre 2010, ove aveva espressamente dichiarato di non lasciare nulla al figlio NOME, avendo costui ricevuto in vita molto di più della quota a lui spettante a titolo di legittima. In via subordinata, l’attrice chiese che, in ipotesi di riconosciuta esistenza di un contratto di affitto agrario, ne venisse determinata la scadenza e il canone a lei spettante.
Espose a sostegno della domanda, tra l’altro, che ella era divenuta proprietaria di un compendio immobiliare costituito da un capannone con tettoia, stalla all’aperto e terreno siti nel Comune di Cologno al Serio e che il proprio fratello, titolare di un’azienda agricola, occupava detti beni senza averne alcun titolo.
Si costituì in giudizio il convenuto, chiedendo il rigetto della domanda. Rilevò NOME COGNOME di avere da sempre coadiuvato il padre nella gestione dell’azienda agricola, divenendone poi titolare nel 1998, di aver realizzato una serie di ampliamenti e migliorie e di aver versato ai genitori un canone annuo di euro 4.000, per tutti i beni aziendali da lui gestiti. Sostenne, quindi, che il relativo contratto, iniziato nel 1998, sarebbe scaduto solo nel 2028 e che, comunque, facendo applicazione dell’art. 49 della legge 3 maggio 1982, n. 203, egli aveva diritto a succedere nel contratto
medesimo; chiese, infine, che gli fosse attribuita la somma di euro 246.662,50 a titolo di indennità per le migliorie realizzate.
Il Tribunale accolse la domanda di parte attrice, ritenne che tra le parti non fosse stata dimostrata l’esistenza di alcun contratto e condannò il convenuto alla restituzione del compendio immobiliare in questione, nonché al pagamento dell’indennità di occupazione fissata in euro 13.449,85 dal 22 agosto 2011 al rilascio, il tutto con il carico delle spese di NOME.
La pronuncia fu impugnata dal convenuto soccombente e la Corte d’appello di Brescia, Sezione specializzata agraria, in riforma di quella di primo grado, accertò l’esistenza di un contratto di affitto agrario tra RAGIONE_SOCIALE e il figlio NOME COGNOME e, in accoglimento della domanda riconvenzionale da quest’ultimo proposta, fissò la scadenza del contratto agrario alla data del 10 novembre 2028, condannando NOME COGNOME a restituire all’appellante le somme percepite in esecuzione della sentenza del Tribunale.
La sentenza d’appello fu a sua volta impugnata da NOME COGNOME e questa Corte, con ordinanza 21 settembre 2021, n. 25522, accolse il ricorso, cassò la pronuncia impugnata e rinviò la causa alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione.
La decisione di legittimità rilevò, tra l’altro, che era onere di NOME COGNOME provare l’esistenza di un contratto agrario, sempre negata da NOME COGNOME, padre dei due fratelli litiganti; per cui la causa andava rimessa in appello affinché fosse accertata in modo specifico l’esistenza di un contratto agrario tra RAGIONE_SOCIALE e il figlio NOME COGNOME, anche in considerazione del fatto che doveva essere rigorosamente dimostrata l’esistenza, in capo al padre NOME COGNOME, del potere di rappresentare la moglie NOME COGNOME in relazione ad alcune scritture private prodotte in causa e oggetto di precedente valutazione da parte dei giudici di merito.
Riassunto il giudizio, in sede di rinvio, da NOME COGNOME, la Corte d’appello di Brescia, Sezione specializzata agraria, con sentenza del 14 febbraio 2022, ha accertato l’inesistenza di un contratto di affitto agrario tra RAGIONE_SOCIALE e il figlio NOME e ha perciò condannato quest’ultimo al rilascio immediato, in favore della sorella, del compendio immobiliare in discussione, confermando la condanna di NOME COGNOME al pagamento, in favore di NOME COGNOME, dell’indennità di occupazione fissata in euro 13.449,85 annui, dal 22 agosto 2011 al rilascio effettivo, con interessi dalla data della domanda al saldo, e ha posto a carico del soccombente le spese di primo e secondo grado, nonché del giudizio di cassazione e di quello di rinvio.
4.1. Dopo aver premesso quali siano i limiti del giudizio di rinvio, la Corte territoriale ha osservato che, proprio recependo il tenore della pronuncia di cassazione, il giudice di merito era tenuto a fornire adeguata motivazione circa l’esistenza o meno di un contratto agrario tra la madre e NOME COGNOME; quesito al quale la Corte bresciana ha dato risposta negativa.
La sentenza ha rilevato, a questo proposito, che la prospettazione dei fatti resa da NOME COGNOME non trovava «alcun supporto probatorio», risultando in contrasto «con le emergenze processuali». Ed infatti, tenendo in particolare considerazione la deposizione del padre NOME COGNOME -sulla quale nessuna delle parti aveva sollevato questioni di incapacità processuale -emergeva che l’azienda agricola, gestita in origine dal padre e dalla madre, aveva visto poi la collaborazione di tutti e tre i figli (cioè gli odierni litiganti e l’altra sorella NOME COGNOME). Risultava che il figlio NOME aveva sempre lavorato in azienda, anche se non aveva mai corrisposto al padre alcuna somma per il lavoro da lui prestato, «una volta che l’azienda era stata intestata al figlio». Nella sua deposizione, inoltre, il padre aveva fatto presente di non aver mai percepito somme per l’affitto dei terreni, che il figlio
NOME si era trattenuto arbitrariamente tre miliardi delle vecchie lire derivanti da vendite di terreni dei genitori, per di più facendo firmare al padre cinque fogli in bianco. E tale versione era stata confermata anche dall’altra sorella NOME COGNOME.
La Corte d’appello, poi, soffermandosi in particolare sul documento NUMERO_DOCUMENTO -del quale si era discusso nei precedenti gradi -ha aggiunto che esso aveva «un valore indiziario molto labile circa l’effettiva conclusione di un contratto di affitto tra COGNOME NOME e la madre», per il tramite del padre NOME. Da esso, infatti, risultava che il padre aveva attestato di aver ricevuto l’affitto per le annate agrarie 1999 e 2000 ma senza indicazione di alcuna cifra; che alcuni dei mappali per i quali si dava atto della ricezione appartenevano alla sorella NOME COGNOME, per cui si trattava di documentazione non idonea a dimostrare l’esistenza di un contratto di affitto agrario, data l’indeterminatezza dell’oggetto del contratto e del canone. Oltre a ciò, deponevano contro l’esistenza di un contratto anche ulteriori elementi, tra i quali il fatto che il padre aveva sempre negato di aver riscosso canoni di affitto e che non vi era alcuna prova dell’esistenza di un suo potere di rappresentanza della madre, tanto più che mai nelle quietanze appariva il nome di NOME, nonostante fosse proprietaria dei terreni poi lasciati alla figlia NOME COGNOME.
Sulla base di tutte queste argomentazioni la Corte d’appello ha affermato l’inesistenza di un contratto agrario, con conseguente obbligo immediato di restituzione del compendio immobiliare da parte di NOME COGNOME.
4.2. In riferimento, poi, all’ulteriore domanda avanzata dall’occupante di applicazione dell’art. 49 della legge n. 203 del 1982, la sentenza ha osservato che quella norma non poteva trovare applicazione, occorrendo che chi la invoca abbia realmente la qualità di erede. Nel caso in esame, al contrario, NOME COGNOME non poteva essere ritenuto tale, «non essendo stato menzionato
nel testamento materno e non avendo esperito l’azione di riduzione».
4.3. Quanto alla determinazione dell’indennità di occupazione, la sentenza ha stabilito che, avendo le parti nel corso del giudizio di primo grado deciso di indicare «un tecnico di fiducia a cui demandare la descrizione dei beni», la relativa decisione poteva assumere valore di perizia contrattuale, per cui la determinazione di un possibile canone doveva «essere dunque posta a fondamento della pretesa indennità di occupazione senza titolo».
In riferimento, infine, alla domanda riconvenzionale di NOME COGNOME volta al rimborso delle migliorie apportate, la Corte d’appello ha accertato, richiamando il testo della perizia contrattuale, che le varie costruzione facenti parte del compendio erano state realizzate dalla proprietaria COGNOME, mentre le presunte migliorie apportate dal figlio non avevano determinato «alcun aumento di valore del fondo». Sicché la domanda riconvenzionale doveva essere respinta.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Brescia propone ricorso NOME COGNOME con atto affidato a otto motivi.
Resiste NOME COGNOME con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria.
Trattato il ricorso nella camera di consiglio del 20 novembre 2023, questa Corte ha deciso il rinvio alla pubblica udienza con ordinanza interlocutoria del 3 gennaio 2024, n. 104.
In vista della pubblica udienza le parti hanno depositato ulteriori memorie e il AVV_NOTAIO generale ha rassegnato conclusioni per iscritto, chiedendo che la Corte accolga il settimo motivo di ricorso, con rigetto di tutti gli altri.
RAGIONI COGNOMEA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ., degli artt. 2726,
2721 e 2729 cod. civ., per inammissibilità della prova per testi in quanto contraria al contenuto di un documento (le quietanze e contabili bancarie).
Il ricorrente osserva che alle prove testimoniali invocate per provare l’effettuazione di un pagamento si applicano le stesse regole previste in materia contrattuale; dovrebbe quindi essere ritenuta inammissibile la prova testimoniale del padre NOME in quanto volta «a contrastare il contenuto di un documento, ossia le ricevute di pagamento sottoscritte da COGNOME NOME». Poiché erano state prodotte in causa le contabili di bonifico, la prova testimoniale doveva sul punto essere ritenuta inammissibile.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), n. 4) e n. 5) cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., per vizio di travisamento della prova.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello sarebbe incorsa nel denunziato vizio per una serie di ragioni. Innanzitutto, per aver utilizzato ai fini della decisione la deposizione testimoniale di NOME COGNOME benché contraddetta dai documenti offerti in causa. Da questi ultimi risultava, infatti, che il padre aveva ricevuto bonifici già nell’anno 2006, cioè prima della morte di NOME COGNOME, avvenuta nell’agosto 2011. Allo scopo di non riconoscere al documento n. NUMERO_DOCUMENTO) la giusta valenza di prova, la Corte di merito avrebbe poi svolto affermazioni contraddette dai documenti, in riferimento ai pagamenti ricevuti a titolo di affitto. Dai bonifici e dalle contabili prodotte emerge, secondo il ricorrente, che erano indicati i mappali in relazioni ai quali veniva effettuato il pagamento dei canoni, così come risulterebbe pure l’effettivo versamento della somma di euro 4.000 all’anno a titolo di canone concordato per tutto il compendio immobiliare in questione.
I primi due motivi, da trattare congiuntamente in considerazione dell’evidente connessione che li unisce, sono, quando non inammissibili, comunque privi di fondamento.
Essi ruotano intorno alla deposizione testimoniale di NOME COGNOME, da un lato contestandone l’ammissibilità e, dall’altro, sostenendo che la Corte d’appello avrebbe compiuto un’errata valutazione delle prove a sua disposizione. Simile impostazione delle censure ne evidenzia, ictu oculi , la dubbia ammissibilità; sia perché (nel primo motivo) non si dice con chiarezza se e quando l’odierno ricorrente si sia opposto all’ammissione della prova (prima e dopo la sua assunzione) sia perché (nel secondo motivo) si finisce col censurare il merito di una complessiva valutazione delle prove operata dalla Corte d’appello.
Bisogna tenere presente che, a seguito della pronuncia di cassazione, il giudice di rinvio era chiamato, in via principale, ad accertare se vi fosse o meno la prova dell’esistenza di un contratto agrario. In vista di tale obiettivo la Corte di merito ha analizzato con grande scrupolo le prove a sua disposizione, confrontando quanto il padre aveva dichiarato nella sua deposizione con i documenti prodotti. Nel compiere questo riscontro, la sentenza in esame (pp. 14-15) ha compiuto una valutazione globale delle prove, non limitandosi solo a considerare i bonifici e le contabili di pagamento, ma inserendoli nel quadro complessivo. Ha ritenuto, pertanto, di dover svalutare la valenza del documento n. 4), evidenziando una serie di elementi contraddittori che non consentivano di ritenere provata l’esistenza del contratto; in particolare, il riferimento ai mappali di proprietà dell’altra sorella (NOME) e il fatto che non vi fosse un riferimento sicuro all’entità del canone e agli anni di riferimento etc. sono elementi più che sufficienti a dare conto della decisione. Né a questa Corte è consentito sindacare simile valutazione senza oltrepassare i limiti del presente giudizio di legittimità.
Le censure, d’altra parte, al di là del loro aspetto formale, nel quale vengono prospettate violazioni di legge, appaiono piuttosto rivolte proprio a sollecitare un diverso e non consentito esame del merito. In particolare, con specifico riferimento alla deduzione della violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., non si rispettano i criteri indicati a suo tempo da Cass. n. 11892 del 2016 e ribaditi, ex multis , da Cass., Sez. Un., n. 20867 del 2020.
Né in esse viene realmente prospettato il c.d. travisamento della prova nel senso esaminato e chiarito dalla recentissima sentenza 5 marzo 2024, n. 5792, delle Sezioni Unite di questa Corte.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 437 e 394 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione in ordine alla mancata ammissione delle prove.
Il motivo ha ad oggetto l’ammissione di nuove prove nel giudizio di rinvio. Il ricorrente sostiene, al riguardo, che la Corte d’appello, nonostante egli avesse sollecitato l’ammissione di nuovi documenti allegati in comparsa di risposta nel giudizio di rinvio, avrebbe omesso ogni decisione sul punto. Si tratterebbe di omissione decisiva, perché da quegli estratti conto -ottenuti in seguito al decesso del padre avvenuto in pendenza del giudizio di cassazione -risulterebbero gli accrediti dei bonifici effettuati dal ricorrente a favore del padre, per somme incassate e mai restituite; per cui le deposizioni dei testi NOME COGNOME e NOME COGNOME sarebbero superate da quei documenti. D’altra parte, pur essendo indubbia la natura del giudizio di rinvio come giudizio chiuso, nel rito del lavoro il principio dispositivo deve essere contemperato con le esigenze di ricerca della verità materiale; e poiché, nel caso in esame, la pronuncia di cassazione aveva rimesso al giudice di rinvio la valutazione sull’esistenza o meno del contratto di affitto, l’ammissione della produzione dei
documenti richiesti sarebbe stata decisiva per quell’obiettivo, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello. L’omissione da parte di quest’ultima sarebbe priva di ogni motivazione.
4.1. Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza di questa Corte ha anche di recente ribadito che nel giudizio di rinvio, configurato dall’art. 394 cod. proc. civ. quale giudizio ad istruzione sostanzialmente ‘chiusa’, è preclusa l’acquisizione di nuove prove e, segnatamente, la produzione di nuovi documenti, salvo che la stessa sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti la controversia in decisione, da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione o dall’impossibilità di produrli in precedenza per causa di forza maggiore (ordinanza 22 settembre 2022, n. 27736, in linea con la sentenza 30 settembre 2015, n. 19424).
Nel caso di specie -anche tralasciando la genericità della censura, nella quale si parla di bonifici e di somme incassate e non restituite (senza ulteriori precisazioni), e il fatto che la richiesta di ammissione di documenti non risulta formulata nelle conclusioni trascritte nell’epigrafe della sentenza impugnata resta il fatto, decisivo, che non è dato comprendere per quale ragione detti documenti non siano stati prodotti in precedenza. La circostanza, genericamente addotta dal ricorrente, secondo cui quei documenti sarebbero stati ottenuti dopo il decesso del padre non è sufficiente ad evidenziare in modo certo l’impossibilità di una precedente produzione e, pertanto, l’esistenza di una delle condizioni nelle quali è consentita, in base alla citata giurisprudenza, la produzione di nuovi documenti in sede di giudizio di rinvio. Ed è palese che anche il richiamo alle regole del rito del lavoro e alle esigenze di ricerca della verità materiale è troppo labile per consentire di accogliere il motivo in esame.
Tanto è assorbente anche a prescindere da un ‘ evidente violazione dell’art. 366 , primo comma, n. 6), cod. proc. civ. sotto il
profilo della riproduzione diretta od almeno indiretta del contenuto rilevante dei documenti.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1388 cod. civ. e dell’art. 116 cod. proc. civ. in relazione alla contemplatio domini .
Il motivo si concentra sul problema della prova della sussistenza, in capo al padre, di un potere di rappresentanza della madre. Secondo il ricorrente, nei contratti a forma libera non sarebbe necessario l’utilizzo di formule sacramentali per dimostrare l’esistenza dei poteri in capo al rappresentante. Nella specie, la sentenza impugnata avrebbe escluso l’esistenza di tale potere in base ad una valutazione «sbilanciata esclusivamente sulla motivazione dell’assunto della mancata prova della spendita del nome della sig.ra NOME COGNOME da parte del sig. COGNOME NOME»; senza considerare che il potere rappresentativo del padre per conto della moglie si evinceva da una serie di elementi, fra cui la disponibilità che NOME NOME aveva dei terreni, il fatto che comunque l’amministrazione e la contabilità fossero in mano a RAGIONE_SOCIALE, la continuità dei bonifici, con la causale indicata, effettuati anche quando la madre era ancora in vita, nonché la mancata contestazione e restituzione delle somme ricevute.
5.1. Il motivo è inammissibile.
La sentenza impugnata ha dato conto con una serie di argomentazioni, prive di vizi logici, del perché dovesse ritenersi esclusa l’esistenza di un potere di rappresentanza, in capo ad NOME COGNOME, della moglie NOME COGNOME. Ed è pervenuta a questa conclusione non soltanto per la mancanza di una «dichiarazione espressa ed univoca» in tal senso, anche se priva di «formule solenni», ma anche in base ad altre considerazioni, quali l’assenza, nelle quietanze, di ogni riferimento alla COGNOME, il
fatto che i presunti canoni non fossero mai confluiti su di un conto a lei intestato e la circostanza che fosse la RAGIONE_SOCIALE, di regola, ad occuparsi della contabilità e dei rapporti con le banche.
Ne consegue che il motivo in esame si risolve nel palese tentativo di ottenere in questa sede un diverso e non consentito esame del merito.
Quanto all’evocazione dell’art. 116 cod. proc. civ., valgono i rilievi già svolti a proposito dei primi due motivi.
Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 49 della legge n. 203 del 1982 e degli artt. 553 e ss. cod. civ., per l’asserita mancata qualità di erede in capo al ricorrente.
Sostiene NOME COGNOME che la Corte d’appello avrebbe errato nel negare l’applicabilità dell’art. 49 cit. per l’asserita mancanza della qualità di erede in capo al ricorrente. Dopo aver richiamato il contenuto del testamento olografo della COGNOME, il ricorrente osserva che l’azione di riduzione di cui all’art. 553 cit. tende al soddisfacimento dei diritti dei legittimari nei limiti in cui siano lesi dalle disposizioni testamentarie; nel caso specifico, però, il COGNOME non potrebbe ritenersi pretermesso a causa degli atti di disposizione compiuti in suo favore dalla madre, mentre era in vita. La sentenza impugnata avrebbe travisato la portata dell’art. 49 cit., norma «con la quale il legislatore ha inteso assicurare l’integrità e la continuità dell’azienda agricola insediata sui fondi di proprietà del de cuius , facendo prevalere l’interesse alla continuità di gestione ed alla conservazione dell’unità economica costituita dalla medesima azienda e ciò conduce a ritenere di poter operare una interpretazione estensiva della disposizione». Poiché la finalità della citata norma è quella di mantenere, per quanto possibile, la concentrazione della titolarità dei fondi agricoli in capo ai soggetti titolari delle capacità necessarie per coltivarli, non vi sarebbe
dubbio, nel caso di specie, sul fatto che il ricorrente possegga tali capacità. Egli, infatti, sostiene di essere un imprenditore agricolo e un coltivatore diretto, come emerso in corso di causa (la circostanza sarebbe incontestata); di talché dovrebbe considerarsi pacifica l’applicabilità in suo favore della norma dell’art. 49 della legge n. 203 del 1982.
6.1. Per esaminare questa censura occorre prendere le mosse da quanto ha deciso la Corte d’appello nella sentenza impugnata.
Come si è già detto, essa ha respinto il motivo di appello relativo all’applicazione dell’art. 49 cit. richiamandosi, pur senza esplicita menzione, alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal de cuius , a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria che in quella ab intestato , in qualità di terzo e non in veste di erede, acquisendo quest’ultima qualità solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione (v. le sentenze 23 dicembre 2011, n. 28632, e 19 novembre 2019, n. 30079, nonché l’ordinanza 7 febbraio 2020, n. 2914). E la più recente sentenza 17 agosto 2022, n. 24836, ha chiarito che, in caso di successione legittima, il legittimario, sebbene non possa ritenersi diseredato in senso formale, poiché chiamato per legge all’eredità, è considerato pretermesso qualora il de cuius abbia distribuito tutto il suo patrimonio mediante disposizioni a titolo particolare inter vivos .
È opportuno tenere presente che, a norma dell’art. 457 cod. civ., l’eredità si devolve per legge o per testamento e che le disposizioni testamentarie «non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari». Come insegna anche la dottrina, non esiste un terzo tipo di successione (quella necessaria), perché la legge ne indica solo due. Nel caso in esame, siamo nell’ambito di una successione testamentaria, perché è pacifico in causa che NOME COGNOME, madre di entrambi i fratelli oggi in NOME, ebbe a
lasciare non uno, ma due testamenti, il primo olografo e il secondo pubblico, coincidenti peraltro nel senso di escludere il figlio NOME dalla chiamata all’eredità, avendo egli già ricevuto in vita molto di più della sua quota di legittima (così si esprime la Corte d’appello, né vi sono contestazioni su questo punto).
6.2. Tanto premesso, la Corte osserva che nel caso in esame, come si è detto, non siamo in presenza di un legittimario totalmente pretermesso, perché nel testamento ora citato la madre dei fratelli NOME ha ritenuto di dover escludere il figlio NOME dall’eredità per avere egli già ricevuto in vita un quantitativo di beni idonei ad integrare e a superare ampiamente la quota di legittima.
La questione di diritto sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste, dunque, nello stabilire se un figlio, che in quanto tale è legittimario (art. 536 cod. civ.), il quale ha ricevuto in vita un certo quantitativo di beni, è stato poi escluso dal testamento materno e non ha ritenuto di dover esercitare l’azione di riduzione nei confronti degli altri eredi, abbia o meno diritto ad agire ai sensi dell’art. 49 della legge n. 203 del 1982.
La questione -che non risulta essere stata oggetto di precedenti pronunce -è resa complessa dal fatto che non si può pervenire alla sua soluzione facendo semplicemente applicazione dei principi del diritto successorio; è invece necessario che questi siano contemperati e, per così dire, integrati e letti alla luce della norma speciale dell’art. 49 cit., che risponde ad una sua ben precisa logica. Questa norma dispone che, in caso di morte del proprietario di fondi rustici condotti o coltivati direttamente da lui o dai suoi familiari, « quelli tra gli eredi che, al momento dell’apertura della successione, risultino avere esercitato e continuino ad esercitare su tali fondi attività agricola », quali imprenditori o coltivatori diretti, « hanno diritto a continuare nella conduzione o coltivazione dei fondi stessi anche per le porzioni ricomprese nelle
quote degli altri coeredi e sono considerati affittuari di esse ». Tale rapporto, regolato dalla legge stessa, ha inizio dalla data di apertura della successione.
Si tratta di una disposizione originale e innovativa contenuta nella legge del 1982, costruita sull’idea della costituzione coattiva di un rapporto di affitto tra gli eredi coltivatori diretti e gli altri successori (sentenza 22 marzo 2013, n. 7268). Gli eredi imprenditori agricoli o coltivatori diretti hanno, cioè, un diritto potestativo di costituzione del rapporto di affitto agrario anche in contrasto con la volontà degli altri.
La disposizione, com’è noto, è stata accolta non senza riserve, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di costituzione di una sorta di affitto coatto a discrezione degli eredi coltivatori diretti; ed è, peraltro, passata indenne al vaglio della Corte costituzionale la quale -con la risalente ma non superata ordinanza n. 597 del 1988 -ebbe a dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 49 qui in esame, sollevata in riferimento agli artt. 3, 41 e 42 della Costituzione. Rilevò il Giudice delle leggi, in quella pronuncia, che «la ratio della norma di cui all’art. 49 della legge n. 203 del 1982 è da individuarsi nell’esigenza di assicurare, anche dopo la morte dell’imprenditore agricolo, l’integrità dell’azienda e la continuità e l’unità dell’impresa e, pertanto, la garanzia di continuità nella conduzione di un fondo data ad uno dei coeredi non può essere considerata nella prospettiva di un privilegio attribuito ad uno di essi a danno degli altri, bensì nel più ampio quadro dell’interesse pubblico alla conservazione di un’impresa produttiva».
Deve dunque rilevarsi, recependo l’insegnamento della Corte costituzionale, che la scelta compiuta dal legislatore è stata dettata dall’intento di favorire la conservazione e la continuità dell’attività di coltivazione, evitare la dispersione della forza-lavoro e incentivare la permanenza della coltivazione nell’ambito familiare;
e di questo costituisce indiretta conferma il secondo comma dell’art. 49, a norma del quale l’alienazione della propria quota effettuata dagli eredi è causa di decadenza dal diritto di cui al primo comma. La giurisprudenza di questa Corte ha affermato, tra l’altro, che l’art. 49 cit. non si applica ove tra il de cuius ed uno degli eredi risulti in precedenza stipulato un regolare contratto agrario, poiché in tal caso l’erede stesso, in qualità di concessionario ex contractu , continua ad usufruire del godimento del fondo rustico ai sensi della (diversa e successiva) disposizione di cui al terzo comma del medesimo articolo, secondo cui «i contratti agrari non si sciolgono per la morte del concedente» (così la sentenza 4 aprile 2001, n. 4975, confermata dalle sentenze 20 agosto 2015, n. 17006, e 30 settembre 2016, n. 19412).
Il fatto che, nella specie, la preesistenza di un contratto agrario tra NOME e i suoi genitori non sia stata dimostrata dà conto, a maggior ragione, della decisività della questione che la Corte è chiamata a risolvere.
6.3. Così correttamente inquadrati i termini del problema, la Corte ritiene che il quinto motivo di ricorso sia fondato.
Ed invero, pur essendo certo che l’art. 49 cit. fa continui richiami alla figura dell’erede , e tale deve ritenersi colui il quale è chiamato all’eredità , è altrettanto vero che, come si è visto, nel caso di specie NOME COGNOME fu menzionato nel testamento materno e fu escluso dai benefici con esso attribuiti in ragione del fatto di aver ricevuto in precedenza una serie di beni facenti comunque parte dell’asse ereditario. Ne consegue che, seguendo il percorso logico fatto proprio dalla Corte d’appello, si viene a determinare la paradossale situazione di un soggetto legittimario, di fatto -e in tesi -imprenditore agricolo o coltivatore diretto del fondo appartenente alla famiglia, il quale non può esercitare l’azione di riduzione perché non c’è stata lesione della sua quota di legittima; e, nello stesso tempo, quel soggetto si vede preclusa per
tale ragione la possibilità di esercitare il diritto di cui all’art. 49 cit., diritto che sarebbe esercitabile, invece, dal legittimario totalmente pretermesso.
Né può essere taciuto che il legittimario totalmente o parzialmente pretermesso potrebbe, per ragioni personali di etica familiare , degne certamente di rispetto, preferire di non esercitare l’azione di riduzione pur avendone diritto, onde evitare l’aggravarsi dei dissapori all’interno della famiglia ristretta.
Il legittimario, non totalmente pretermesso in quanto ha già ricevuto in vita una significativa parte del patrimonio familiare e nominato, come nella specie, nella disposizione testamentaria proprio con la considerazione di tanto, deve essere quindi ammesso ad agire ai sensi della norma qui in esame.
Resta inteso, ovviamente, che il positivo esercizio dell’azione potrà aversi soltanto se si concluda con esito positivo per il ricorrente lo scrutinio sull’esistenza delle condizioni indicate dall’art. 49 della legge n. 203 del 1982. Su questo punto la giurisprudenza ha da tempo stabilito che la successione dell’erede all’affittuario coltivatore diretto nel contratto agrario, di cui era già parte il de cuius , è possibile, sempre che il preteso successore dimostri la ricorrenza delle condizioni richieste dalla legge. In caso di contestazione, perciò, chi intenda subentrare nel rapporto non solo deve dedurre la propria qualità di erede dell’affittuario, del mezzadro, del colono, del compartecipante o del soccidario, ma anche fornire la prova di essere imprenditore agricolo a titolo principale (ora qualificato imprenditore agricolo professionale dall’art. 1 del d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99), coltivatore diretto o, ancora, eventualmente, soggetto equiparato ai coltivatori diretti ex art. 7, secondo comma, della legge n. 203 del 1982, e di avere esercitato e di continuare ad esercitare, al momento dell’apertura della successione, attività agricola sui terreni coltivati dal de cuius
(sentenza 31 gennaio 2013, n. 2254, e ordinanza 23 novembre 2022, n. 34411).
Quest’accertamento, che la Corte bresciana non ha compiuto per le ragioni suindicate, è ora rimesso alla medesima, in qualità di giudice di rinvio.
L’accoglimento del quinto motivo di ricorso determina l’assorbimento dei successivi motivi sesto, settimo e ottavo, i quali riguardano profili che risultano di conseguenza superati.
In conclusione, sono rigettati i motivi di ricorso primo, secondo, terzo e quarto, è accolto il quinto, con assorbimento dei motivi sesto, settimo e ottavo.
Deve essere enunciato il seguente principio di diritto:
« In materia di contratti agrari, l’erede legittimario (nella specie, figlio) che sia stato escluso dal testamento del genitore per aver ricevuto in vita un quantitativo di beni idonei a soddisfare la sua quota di legittima e si trovi, per tale ragione, nell’impossibilità di impugnare il testamento con l’azione di riduzione, ha titolo per esercitare l’azione di cui all’art. 49 della legge 3 maggio 1982, n. 203 e, ricorrendo le condizioni indicate da tale norma, può ottenere di continuare nella conduzione o coltivazione dei fondi agricoli anche per le porzioni ricomprese nelle quote degli altri coeredi e di essere considerato affittuario delle stesse ».
La sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Brescia, Sezione specializzata agraria, in diversa composizione personale, la quale deciderà attenendosi alle indicazioni della presente decisione.
Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare le spese del presente giudizio di cassazione, dei precedenti due giudizi di appello e del primo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta i motivi di ricorso primo, secondo, terzo e quarto, accoglie il quinto, con assorbimento dei motivi sesto,
settimo e ottavo, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Corte d’appello di Brescia, Sezione specializzata agraria, in diversa composizione personale, anche per le spese del giudizio di cassazione, dei precedenti due giudizi di appello e del primo giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza