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Equa riparazione: quando il creditore ha diritto

Una società, creditrice in una lunga procedura fallimentare, si è vista negare l’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo. La corte inferiore aveva presunto la sua consapevolezza sulla scarsa possibilità di recupero del credito. La Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione, affermando che l’ammissione al passivo fallimentare convalida la pretesa creditoria e che la consapevolezza non può essere presunta, ma deve essere provata concretamente, riaffermando il diritto del creditore all’indennizzo.

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Equa Riparazione: Diritto all’Indennizzo Anche se il Credito non è Recuperabile

Il diritto a una giustizia celere è un pilastro fondamentale del nostro ordinamento. Quando un processo si protrae oltre una durata ragionevole, la legge prevede un meccanismo di equa riparazione per indennizzare il cittadino del danno subito. Ma cosa accade quando il processo in questione è una procedura fallimentare e il creditore, alla fine, non riesce a recuperare nulla? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce un punto cruciale: la mancata soddisfazione del credito non esclude automaticamente il diritto all’indennizzo.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda una società metalmeccanica, creditrice in una procedura fallimentare avviata nel 2009 e conclusasi solo nel 2019. Nonostante l’ammissione del proprio credito al passivo del fallimento, la società non ha ricevuto alcun pagamento a causa dell’assenza di attivo da distribuire. Di fronte a una procedura durata dieci anni, la società ha richiesto l’indennizzo per irragionevole durata del processo ai sensi della Legge Pinto.

La Decisione della Corte d’Appello

Inizialmente, la Corte d’Appello ha respinto la domanda. Secondo i giudici di merito, la società era sostanzialmente consapevole fin dall’inizio delle scarse, se non nulle, probabilità di recuperare il proprio credito, dato il ‘modesto e difficilmente recuperabile attivo’ dell’impresa fallita. Questa presunta ‘consapevolezza’ dell’inutilità della pretesa è stata considerata sufficiente per escludere il patimento di un danno non patrimoniale e, di conseguenza, per negare l’equa riparazione.

Il Ricorso in Cassazione e il Diritto all’Equa Riparazione

La società ha impugnato la decisione dinanzi alla Corte di Cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello avesse errato nell’applicare la normativa. Il punto centrale del ricorso era che non si può presumere la consapevolezza del creditore e, su questa base, negare un diritto sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Costituzione. L’irragionevole durata del processo causa un danno ‘in re ipsa’, cioè un danno la cui esistenza è implicita nella violazione stessa, a prescindere dall’esito finale della procedura presupposta.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, cassando la decisione della Corte d’Appello e stabilendo principi di diritto fondamentali. I giudici supremi hanno chiarito che l’ammissione del creditore al passivo fallimentare costituisce già una ‘valutazione positiva della fondatezza delle ragioni di credito’. Questo atto formale è sufficiente a dimostrare che la pretesa del creditore non era infondata.

La Corte ha inoltre specificato che la ‘consapevolezza sopravvenuta dell’infondatezza della domanda’, che può escludere l’indennizzo, deve essere oggetto di un accertamento specifico e concreto da parte del giudice. Non può essere semplicemente presunta sulla base dell’ammontare dello stato passivo o della difficoltà di recupero. In altre parole, non basta dire che ‘c’era poco o nulla da recuperare’ per negare il danno derivante da un’attesa decennale per una risposta definitiva dalla giustizia.

Un altro passaggio chiave della motivazione distingue la procedura concorsuale dal giudizio ordinario: una volta ammesso al passivo, il creditore non ‘insiste’ nella sua pretesa, ma è tenuto unicamente ad attendere l’esito della liquidazione. La sua posizione è di attesa passiva, e la lunghezza di questa attesa, se irragionevole, è fonte di pregiudizio indennizzabile.

Conclusioni

Questa ordinanza riafferma un principio di civiltà giuridica: il danno da lungaggini processuali esiste indipendentemente dall’esito economico della controversia. Per i creditori coinvolti in procedure fallimentari interminabili, ciò significa che il diritto all’equa riparazione non può essere negato sulla base di una mera presunzione circa le loro aspettative di recupero. La valutazione deve essere concreta e rigorosa, riconoscendo che l’incertezza e l’attesa prolungata costituiscono di per sé un danno meritevole di ristoro.

Un creditore in una procedura fallimentare ha diritto all’equa riparazione se il suo credito non viene pagato per mancanza di fondi?
Sì, la mancata soddisfazione del credito a causa dell’assenza di attivo fallimentare non esclude di per sé il diritto a ottenere un indennizzo per l’irragionevole durata del processo.

L’ammissione del credito al passivo fallimentare ha importanza ai fini del riconoscimento del danno da irragionevole durata?
Sì, secondo la Corte di Cassazione, l’ammissione al passivo rappresenta una valutazione positiva sulla fondatezza del credito, elemento che supporta la sussistenza del danno non patrimoniale patito dal creditore a causa dei ritardi.

Può il giudice negare l’indennizzo presumendo che il creditore fosse ‘consapevole’ di non poter recuperare il suo credito?
No, la Corte ha stabilito che la consapevolezza del creditore circa l’infondatezza o l’impossibilità di recupero del credito non può essere presunta, ma deve essere oggetto di un accertamento specifico e concreto basato sullo sviluppo del procedimento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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