Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 688 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 688 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7327/2023 R.G. proposto da: COGNOME rappresentato e difeso da ll’avvocato COGNOME ed elettivamente domiciliato a ll’ indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;;
– ricorrente –
contro
MINISTERO RAGIONE_SOCIALE domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’ AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di CATANIA n. 1103/2021 depositata il 25/01/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/07/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME proponeva opposizione avverso il decreto della C orte d’A ppello di Catania con il quale era stata rigettata la sua domanda di equa riparazione rispetto a tre giudizi amministrativi introdotti dinanzi il TAR.
La C orte d’A ppello di Catania rigettava l’opposizione e confermava il decreto opposto. In particolare, evidenziava che il ricorrente aveva dedotto che gli atti impugnati riguardavano procedimenti amministrativi conclusi con autonomi provvedimenti aventi presupposti e fatti costitutivi diversi e che pertanto non ricorrevano le condizioni di cui all’art. 70 del codice del processo amministrativo e non andava chiesta la riunione.
La Corte d’Appello, pur prescindendo dalla valutazione sulla fondatezza delle censure mosse dall’opponente, riteneva che la domanda di indennizzo non potesse trovare accoglimento non avendo il ricorrente fornito alcuna prova del pregiudizio subito. Infatti, quanto ai due processi definiti, il giudizio si era concluso con la sentenza che aveva dichiarato la cessazione della materia del contendere trovando dunque applicazione l’art. 2, comma 2 sexies, lettera c), della legge n. 89 del 2001.
Sebbene, infatti, la norma richiamasse esplicitamente la sola rinuncia al ricorso di cui all’art. 84 del codice del processo amministrativo, per consolidata giurisprudenza doveva applicarsi anche all’ipotesi di definizione del giudizio presupposto con declaratoria di sopravvenuta carenza di interesse.
La suddetta norma non escludeva a priori l’esistenza del pregiudizio predisponendo solo un’inversione dell’onere della prova,
Ric. 2023 n. 7327 sez. S2 – ud. 09/07/2024
ponendo a carico del ricorrente l’onere di dimostrare di aver effettivamente subito una sofferenza riconducibile alla anomala lungaggine processuale. Il ricorrente non aveva assolto a tale onere non essendoci alcun elemento concreto dal quale poter trarre la conclusione che avesse subito patema per gli anni di ritardo anche perché era stata accolta la sua istanza cautelare con sospensione degli effetti degli atti impugnati.
Alla stessa conclusione doveva pervenirsi riguardo al processo ancora pendente, avente ad oggetto il rigetto dell’istanza di ammissione nel ruolo degli agenti della Polizia di Stato e l’esclusione dal corso propedeutico. Infatti, il ricorrente era stato nominato agente della Polizia di Stato a fini giuridici dal 13 giugno 2002 ed economici a decorrere dal 31 gennaio 2003, risultava certo che il giudizio fosse definito con pronuncia di cessazione della materia del contendere essendo l’inquadramento del ricorrente avvenuto con decorrenza del 13 giugno 2002, vale a dire dopo solo 7 mesi dall’inizio del processo.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto.
Il Ministero dell ‘economia e delle finanze ha resistito con controricorso.
Il ricorrente , in prossimità dell’udienza, ha depositato memoria con la quale ha insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso è così rubricato: erronea applicazione dall’art. 2 , comma 2 sexies, lettera c), della L. n. 89 del 2001, nella versione vigente a seguito della modifica apportata
dall’art. 1 comma 777 , lettera d), della l. n. 280 del 2015 e dell’art. 2697 c.c. censurabile ex art. 360 c.p.c. n. 3
Secondo il ricorrente nella fattispecie non c’è mai stat a una pronuncia di improcedibilità dei ricorsi per la sopravvenuta carenza di interesse, dunque mancherebbe il presupposto, peraltro, non condivisibile, di assimilazione della dichiarazione di improcedibilità per carenza di interesse alla ipotesi di rinuncia.
Le due pronunce del TAR oggetto di esame da parte della Corte Territoriale sono, infatti, sentenze emesse per cessazione della materia del contendere che è cosa totalmente diversa della sopravvenuta carenza di interesse, perché vi è stata una pronuncia sull’illegittimità dell’operato dell’A mministrazione anche ai fini della soccombenza virtuale e della condanna alle spese.
La cessazione della materia del contendere presuppone il pieno soddisfacimento dell’interesse fatto valere in giudizio, mentre la sopravvenuta carenza di interesse presuppone la mancanza di interesse alla decisione, che è cosa ben diversa e pare che la Corte Territoriale abbia confuso i due istituti.
Peraltro, la documentazione prodotta avrebbe dato piena prova ex art. 2607 c.c. del grave patema d’animo subito dal ricorrente che, per avere il legittimo posto a cui da piccolo aspirava e fare carriera nella Polizia (il ricorrente ora è ispettore di Polizia), ha dovuto proporre, nonostante i provvedimenti cautelari ottenuti, un notevole numero di ricorsi e di motivi aggiunti.
1.1 Il motivo è infondato.
Va premesso che, in linea di principio, si applica al caso di specie, ratione temporis , la previsione della lett. c) del 2° co. sexies dell’art. 2 della legge n. 89/2001, a tenor della quale “si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo,
Ric. 2023 n. 7327 sez. S2 – ud. 09/07/2024
salvo prova contraria, nel caso di: (…) c) estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti ai sensi degli articoli 306 e 307 del codice di procedura civile e dell’articolo 84 del codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 “
Va premesso, inoltre, che l’art. 84 c.p.a. dispone, al primo comma che “la parte può rinunciare al ricorso in ogni stato e grado della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa stessa o dall’avvocato (…)” ed, al terzo comma, che “la rinuncia deve essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza (…)”. Nondimeno il medesimo articolo soggiunge, al quarto comma, che “anche in assenza delle formalità di cui ai commi precedenti il giudice può desumere dall’intervento di fatti o atti univoci dopo la proposizione del ricorso ed altresì dal comportamento delle parti argomenti di prova della sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione della causa”.
In questi termini, il fenomeno della “sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione della causa” non è avulso dalla rinuncia al ricorso amministrativo. E del resto si spiega che nel giudizio amministrativo, anche in vigenza del nuovo codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010), la sopravvenienza del difetto di interesse è causa di pronuncia di improcedibilità, ai sensi dell’art. 35 c.p.a., e può desumersi anche da una rinuncia irrituale o da atti e fatti sopravvenuti e perfino dal comportamento delle parti, ai sensi dell’art. 84, 4° co., del medesimo codice.
Cosicché non meritano seguito le ragioni di censura, specificamente veicolate dal primo mezzo di impugnazione, secondo cui “l’ipotesi della rinuncia di cui all’art. 84 c.p.a. è diversa dal sopravvenuto difetto di interesse che è stato dichiarato nel giudizio
Ric. 2023 n. 7327 sez. S2 – ud. 09/07/2024
presupposto”, secondo cui la Corte d ‘appello “ha fatto applicazione, di una disposizione che disciplina fattispecie diverse”.
La tesi del ricorrente della differenza tra cessazione della materia del contendere e sopravvenuto difetto di interesse non è fondata e non è supportata da alcuna motivazione condivisibile circa le diverse ragioni, rispetto alla sopravvenuta carenza di interesse, della pronuncia di cessazione della materia del contendere.
Al cospetto, dunque, dell’operatività della presunzione relativa ex lett. c) del 2° co. sexies dell’art. 2 della legge n. 89/2001 – con precipuo riferimento al secondo motivo di ricorso – i ricorrenti avrebbero dovuto addurre, evidentemente, di aver allegato e dimostrato, specificamente, la sussistenza di un pregiudizio, sub specie di “paterna d’animo”, decorso il periodo di ragionevole durata del giudizio amministrativo “presupposto”.
Di conseguenza deve riaffermarsi il principio di diritto secondo cui «In tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, la definizione del giudizio presupposto con una declaratoria di improcedibilità del ricorso per “sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa” configura un’ipotesi assimilabile alla rinuncia disciplinata dall’art. 84 del c.p.a., con conseguente operatività della presunzione relativa di non spettanza dell’indennizzo per rinuncia o inattività delle parti, ex art. 2, comma 2-sexies, lett. c), della l. n. 89 del 2001, come introdotto dalla l. 208 del 2015, il cui superamento richiede l’allegazione e la prova, specificamente, della sussistenza di un pregiudizio, “sub specie” di “patema d’animo”, decorso il periodo di ragionevole durata del giudizio presupposto (Sez. 2, Ordinanza n. 7040 del 12/03/2021, Rv. 660787 – 01)».
Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione dell’art. 6 della Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, ratificata in Italia con L. 848 del 04.08.1955 Violazione dell’art. 2 sexies della L. n. 89/2001(c.d. Legge Pinto) e succ. mod.
La Corte in composizione monocratica aveva, infatti, rigettato l’istanza con riferimento ad ‘ altri giudizi ‘ assumendo che per gli stessi fosse applicabile l’art. 2 sexies della legge n . 89/2001.
Precisazione condivisa, seppur senza alcuna motivazione dalla Corte di Appello in composizione collegiale a seguito di opposizione, nonostante nel decreto non viene spiegato il motivo per cui si sarebbero verificate le ipotesi di cui alle lett. e) ed f) dell’art. 2 sexies della L. 89/2001 e per quali giudizi.
Il ricorrente precisa che i tre giudizi per i quali è stato richiesto l’equo indennizzo hanno diverso petitum e causae petendi . In ogni caso, anche a volerli considerare, per mera ipotesi, connessi vi sarebbe la prova contraria richiesta dalla norma. Ed infatti, ammesso che il ricorrente avesse impugnato tutti gli atti oggetto della richiesta con motivi aggiunti e/o avesse richiesto la riunione, il procedimento principale (il primo) annotato al n.r.g. 5650/2000 si è, comunque concluso con sentenza n. 2000/2020 del 03.08.2020 a distanza di venti anni.
Anche quest’aspetto sarebbe stato totalmente trascurato. La durata ventennale del primo ricorso sarebbe una prova inequivocabile ed esplicita che si è determinata una illegittima durata di tutte e tre procedimenti e la stessa norma invocata dal Giudice che ha emesso il decreto opposto, fa salva appunto la prova contraria.
Inoltre, la Corte Territoriale non spiega come si possa negare l’equa riparazione almeno per il primo (conclusosi nel 2020) e per il terzo ricorso che riguarda diritti reclamati dopo la costituzione del rapporto.
2.1 Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
La censura non si confronta con la ratio decidendi del provvedimento impugnato che ha rigettato la domanda di equo indennizzo per irragionevole durata del processo amministrativo per l’intervenuta cessazione della materia del contendere (da intendersi quale sopravvenuto difetto di interesse) in due dei tre giudizi in esame e ha evidenziato come nel terzo giudizio a distanza di soli sette mesi dalla sua instaurazione il ricorrente avesse ottenuto l’assunzione nei ruoli della Polizia di Stato.
La censura in esame lamenta l’erronea applicazione della lettera e) ed f) del comma 2 sexies dell’art. 2 della l. n. 89 del 2001 mentre la decisione si è fondata sull’applicazione dell’art. 2, comma 2 sexies, lett. c) , e sull’insussistenza del pregiudizio per avere ottenuto quanto richiesto.
Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione dell’art. 91 e 92 c.p.c. censurabile ex art. 360, n. 3, c.p.c.
La Corte Territoriale avrebbe sicuramente errato nel pronunciarsi sulle spese del precedente grado di giudizio essendo stato necessario proporre una opposizione e dovendo le spese essere poste a carico dell’A mministrazione essendo pienamente fondata la richiesta risarcitoria.
3.1 Il terzo motivo di ricorso è del tutto privo di fondamento.
La domanda di equo indennizzo proposta dal ricorrente è stata integralmente rigettata e non c’è stata condanna alle spese unicamente perché l’amministrazione non si è costituita nel giudizio.
Ric. 2023 n. 7327 sez. S2 – ud. 09/07/2024
La Corte rigetta il ricorso.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti del Ministero dell’Economia e finanze , parte controricorrente, che liquida in euro 2000,00, oltre alle spese prenotate a debito e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione