Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 977 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 977 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11569/2023 R.G. proposto da:
COGNOME, rappresentato e difeso con procura in calce al ricorso dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE del foro di Bari ed elettivamente domiciliato a ll’ indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
-ricorrente-
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore;
-intimato-
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO di BARI n. 1183/2022 depositato il 15.3.2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9.7.2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con decreto n. 1620/2022 il Consigliere delegato della Corte d’Appello di Bari, accogliendo parzialmente la domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata della procedura fallimentare della RAGIONE_SOCIALE (aperta con sentenza del Tribunale di Bari n. 48/2008 del 10.4.2008 e chiusa il 26.10.2021), nella quale a seguito di accordo transattivo COGNOME NOME era stato ammesso al passivo il 17.7.2014 in via privilegiata per un credito di lavoro di € 84.903,86 a fronte di un’iniziale sua richiesta di ammissione per €169.807,72, riconosceva una durata illegittima della procedura di un anno, dalla data di ammissione al passivo alla data di chiusura del fallimento, e liquidava a favore del COGNOME un indennizzo di € 400,00, oltre interessi legali dalla domanda e spese processuali, liquidate in € 27,00 per spese vive ed € 225,00 per compensi oltre accessori.
Proponeva opposizione ex art. 5 ter L. 89/2001 nei confronti del Ministero della Giustizia il Dell’Olio, che chiedeva di computare la durata irragionevole della procedura dalla data della domanda di ammissione al passivo (8.2.2010) e non dall’ammissione del 17.7.2014, di applicare un moltiplicatore annuo di €800,00 per i primi tre anni, con aumento del 20% per ciascuno dei tre anni successivi, e non di € 400,00, o liquidargli gli interessi maturati nel corso della procedura fallimentare, indicati in € 8.795,09, e di liquidargli per le spese processuali nell’ambito dello scaglione per le cause di valore fino ad € 5.200,00 l’importo massimo dei compensi di € 810,00, o almeno quello medio di € 450,00.
La Corte d’Appello di Bari, in composizione collegiale, col decreto n. 826/2023 del 15.3.2023, nella resistenza del Ministero,
accoglieva parzialmente l’opposizione, computando la durata irragionevole dalla data della domanda di ammissione al passivo alla chiusura del fallimento (sei anni), utilizzando il moltiplicatore di € 500,00 annui senza maggiorazioni, liquidando al COGNOME l’indennizzo di € 3.000,00 oltre interessi legali dalla domanda, ed in aggiunta ai già liquidati compensi e spese della fase monitoria, i compensi del giudizio di opposizione di € 712,50 oltre accessori, con applicazione della tabella 12 allegata al D.M. n. 55/2014, esclusa la fase di trattazione e con riduzione del 50% per la fase decisionale per l’esiguità delle prestazioni riconducibili a tale fase.
Avverso il decreto collegiale della Corte d’Appello di Bari ha proposto ricorso a questa Corte, notificato al Ministero della Giustizia il 12.5.2023, COGNOME NOMECOGNOME affidandosi a cinque motivi, e depositando anche memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.
Il Ministero è rimasto intimato.
Col primo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo, n. 5) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 bis della L. n. 89/2001, dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132, comma secondo n. 2) c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. per errata e/o mancante motivazione in fatto ed in diritto e/o per avere reso una mera motivazione apparente.
Si duole il ricorrente che l’impugnato decreto dopo avere richiamato al punto 10.1 i criteri stabiliti dall’art. 2 bis comma 1 e 2 della L. n. 89/2001, come modificato dalla L. 28.12.2015 n. 208, per la determinazione dell’equo indennizzo (esito del processo, comportamento del giudice e delle parti nel giudizio presupposto, natura degli interessi coinvolti, valore e rilevanza della causa anche in relazione alla condizione personale delle parti), non ne abbia poi tenuto conto, richiamando precedenti della Suprema Corte inconferenti, e non valorizzando adeguatamente, nella scelta del moltiplicatore di € 500,00 annui, il fatto che si trattasse di un credito privilegiato per prestazioni di lavoro subordinato di notevole
consistenza, non tenendo conto neppure del criterio suggerito dal ricorrente, del riferimento all’importo degli interessi legali maturati sul credito nel corso della procedura fallimentare, né dell’aumento del 20% per il periodo successivo al terzo anno previsto dall’art. 2 bis della L. n. 89/2001.
2) Col secondo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360, comma primo n. 5) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 bis della L. n. 89/2001, dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 132 comma secondo n. 2) c.p.c., per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, individuato nella mancata valutazione dei criteri invocati dal ricorrente per la liquidazione dell’indennizzo (natura di credito alimentare di lavoro, durata della procedura fallimentare, notevole importo del credito anche se ridotto su base transattiva ed ammontare degli interessi legali su esso maturati in corso di procedura fallimentare).
I primi due motivi vanno esaminati congiuntamente, in quanto entrambi relativi alla motivazione addotta dal decreto impugnato nella scelta del moltiplicatore annuo applicato (€ 500,00) per la determinazione dell’indennizzo per l’irragionevole durata della procedura fallimentare.
Va premesso che quelli richiamati dal ricorrente ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5) c.p.c. non sono fatti storici decisivi che siano stati oggetto di discussione tra le parti, ma o criteri dettati dal legislatore all’art. 2 bis comma 1 e 2 della L. n. 89/2001, come modificato dalla L. 28.12.2015 n. 208, per orientare la scelta del giudice nell’individuazione del moltiplicatore annuo da utilizzare per la determinazione dell’indennizzo tra il minimo di € 400,00 ed il massimo di € 800,00, o un criterio (quello del riferimento agli interessi legali sul credito ammesso al passivo che sarebbero maturati in corso di procedura fallimentare) che è del tutto estraneo ai criteri elencati dalla norma sopra citata, afferendo ad
una quantificazione risarcitoria e non ad una determinazione indennitaria.
Va poi evidenziato che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, dev’essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie Cass. sez. un. n. 2767/2023; Cass. sez. un. n. 8053/2014). Nel caso della motivazione apparente, la motivazione pur graficamente presente, è totalmente inidonea ad illustrare le ragioni della decisione adottata (vedi Cass. n.16772/2006).
Orbene, nel caso di specie, il decreto impugnato ha giustificato la scelta del moltiplicatore annuo di € 500,00, che è superiore al minimo previsto dalla L. n. 89/2001 di € 400,00 annui, oltre che col richiamo generico ai criteri dettati dal legislatore all’art. 2 bis comma 1 e 2 della L. n. 89/2001, come modificato dalla L. 28.12.2015 n. 208, anche col riferimento specifico all’entità del credito e alla sua natura privilegiata (credito di lavoro e TFR) ed alla durata del procedimento presupposto, richiamando per la misura alcuni precedenti della Suprema Corte relativi ad eccessiva durata di procedimenti amministrativi, sicché una motivazione, sia
pure succinta, come richiesto dalla materia trattata, è stata fornita, e l’eventuale sua insufficienza non è più sindacabile.
Ad ogni modo, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, la determinazione discrezionale del moltiplicatore annuo in materia di equa riparazione è frutto di un giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità se compreso tra il minimo (€ 400,00) ed il massimo (€ 800,00) previsto dalla L.n.89/2001 (vedi in tal senso Cass. n.33470/2023; Cass. n. 14521/2019), e nel nostro caso il moltiplicatore annuo è stato fissato in € 500,00 e l’aumento fino al 20% a partire dal terzo anno previsto dall’art. 2 bis della L. n.89/2001 non è automatico, ma discrezionale e presuppone che sia allegata una specifica giustificazione (vedi in tal senso con riferimento all’analoga disposizione della tariffa previgente Cass. ord. n. 16327/2020).
3) Col terzo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360, comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., degli artt. 1, 4 e 5 del D.M. n. 55/2014 e dell’art. 2233 cod. civ. per l’errata o mancata motivazione del decreto impugnato circa i compensi dovuti per la fase monitoria, svoltasi davanti al Consigliere delegato della Corte d’Appello.
Assume il ricorrente che la Corte d’Appello, contraddittoriamente, abbia da un lato confermato la liquidazione dei compensi e delle spese della fase monitoria già avvenuta sul presupposto di un indennizzo determinato in soli € 400,00 (€27,00 per esborsi ed € 225,00 per compensi oltre accessori), e dall’altro abbia ritenuto assorbita la questione della riliquidazione delle spese della fase monitoria, alla luce della compiuta rideterminazione dello scaglione della tariffa forense effettuata in sede di opposizione, in base ad un indennizzo riconosciuto di € 3.000,00, che invece avrebbe dovuto imporle, data la lievitazione dell’indennizzo da € 400,00 ad €3.000,00, la liquidazione, per i compensi della fase monitoria, di un importo superiore al minimo della tabella 8 allegata alla tariffa
forense del D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n.147/2022, di € 225,00 e non inferiore alla misura media tariffaria, risultandone altrimenti leso il decoro della professione forense, sicché per i compensi della fase monitoria il decreto impugnato avrebbe dovuto liquidare l’importo massimo di €810,00, o almeno l’importo medio di € 450,00.
Il terzo motivo è infondato.
Va anzitutto ribadito che l’opposizione di cui all’art. 5 -ter della L. n.89 del 2001 non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza una fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo, per cui ove detta opposizione sia proposta dalla parte privata rimasta insoddisfatta dall’esito della fase monitoria e, dunque, abbia carattere pretensivo, le spese di giudizio vanno liquidate in base al criterio della soccombenza, a misura dell’intera vicenda processuale, in caso di suo accoglimento, senza la necessaria separazione della liquidazione dei compensi per la fase monitoria e per l’opposizione, e senza vincoli della liquidazione compiuta in fase monitoria (vedi Cass. ord. 26.4.2024 n. 11246; Cass. ord. n.26398/2023; Cass. ord n. 26517/2023; Cass. ord. n.23826/2023; Cass. ord. n. 9728/2020; Cass. ord. 26.5.2020 n.9728), sicché la Corte d’Appello ha correttamente liquidato i compensi sulla base dell’indennizzo rideterminato nel giudizio di opposizione di € 3.000,00, e nell’ambito della sua discrezionalità, ha riconosciuto al ricorrente anche un aumento per la fase monitoria nella misura di € 225,00.
Nel rinviare alla trattazione del quarto e del quinto motivo per lo sforamento dei minimi tariffari nel giudizio conseguente all’opposizione, lesivo del decoro della professione di avvocato, va poi evidenziato che non solo l’aumento per la fase monitoria poteva anche non essere concesso, ma anche che la rideterminazione
dell’indennizzo da € 400,00 ad € 3.000,00 in sede di opposizione non determinava un cambiamento dello scaglione applicato, che era sempre quello per le cause da € 1.101,00 fino ad € 5.200,00, e che dovendosi applicare il D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n. 147/2022, e non la tariffa forense precedente, i valori medi non erano vincolanti nella liquidazione del compenso (vedi in tal senso Cass. ord. n. 89/2021; Cass. ord. n.2386/2017; Cass. ord. n. 26608/2017; Cass. ord. n. 29606/2017).
4) Col quarto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., degli articoli 1, 4 e 5 del D.M. n. 55/2014 e dell’art. 2233 cod. civ., per la mancata liquidazione dei compensi per la voce ‘fase di trattazione’ del giudizio di opposizione.
Si duole il ricorrente che l’impugnato decreto, pur avendo correttamente applicato la tabella 12 allegata al D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n.147/2022, per cause contenziose di valore fino ad € 5.200,00 in base all’indennizzo riconosciuto dovuto di € 3.000,00, non gli abbia liquidato alcun importo per la fase di trattazione, che pure si era regolarmente svolta, come provato dal decreto della Corte d’Appello che invitava le parti alla trattazione scritta (doc. 9), dal deposito da parte di COGNOME NOME delle note di trattazione scritta per l’udienza dell’8.11.2022 (doc. 11), effettuato il 13.10.2022 (doc. 8), e dal verbale di udienza del 29.11.2022, nel quale si dava atto dell’avvenuto deposito delle note di trattazione delle parti (doc. 12), e chiede quindi per tale voce l’ulteriore compenso di € 992,00.
5) Col quinto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., degli articoli 1, 4 e 5 del D.M. n. 55/2014 e dell’art. 2233 cod. civ., per avergli il decreto impugnato liquidato un compenso per il giudizio di equa riparazione inferiore ai minimi tariffari, lesivo del decoro della professione di avvocato.
Si duole il ricorrente che il decreto impugnato dopo avere indicato in motivazione di liquidare i compensi minimi tariffari per le fasi di studio, introduttiva e decisionale, con riduzione di quest’ultima del 50% (esclusi i compensi per la fase di trattazione) per un totale di € 749,00 (€ 268,00 + €268,00 + € 213,00), gli abbia riconosciuto in dispositivo, senza alcuna motivazione, l’inferiore compenso di €712,50, peraltro inferiore al minimo tariffario previsto per le quattro voci dalla tabella 12 allegata al D.M. n.55/2014, come modificata dal D.M. n. 147/2022, pari ad € 1.458,00 (€268,00 per fase di studio + € 268,00 per fase introduttiva + € 496,00 per fase di trattazione + € 426,00 per fase decisionale), e chiede quindi la liquidazione dei compensi per il giudizio di opposizione per €1.458,00, fermi restando il rimborso delle spese già anticipate, salvo i maggiori importi dovuti in caso di riconoscimento di un indennizzo superiore ad € 5.200,00 per l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso.
Il quarto ed il quinto motivo, da esaminare congiuntamente, in quanto entrambi relativi alla liquidazione dei compensi spettanti nel giudizio di equa riparazione, a seguito di accoglimento parziale dell’opposizione di COGNOME NOME, sono parzialmente fondati e meritano accoglimento nei termini che seguono.
Anzitutto è fondata la doglianza relativa alla mancata liquidazione del compenso secondo la tabella 12 allegata alla tariffa forense del D.M. n.55/2014, come modificata dal D.M. n. 147/2022, (inerente alle cause civili contenziose fino ad € 5.200,00), per la fase di trattazione, dal momento che la sua liquidazione nei giudizi di opposizione in tema di equa riparazione, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, è ineludibile (Cass. ord. 26.6.2024 n.17602; Cass. ord. n. 26608/2023; Cass. ord. n. 164/2022; Cass. ord. n.35373/2022), tanto più che dai documenti richiamati dal ricorrente emerge che un’effettiva trattazione, anche se scritta,
della causa, vi è stata, avendo oltre tutto contrastato le richieste dell’opponente il Ministero della Giustizia.
Occorre poi rilevare che la complessiva liquidazione dei compensi compiuta dal decreto impugnato (€ 712,50 per il giudizio di opposizione + € 225,00 di aumento per la fase monitoria), di €937,50, è inferiore al minimo tariffario previsto per le quattro voci (studio, introduttiva, trattazione, decisionale) dall’allegato 12 alla tariffa forense del D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n. 147/2022, per cause dello scaglione compreso tra € 1.101,00 ed €5.200,00, che è pari ad € 1.458,00 (€ 268,00 per fase di studio, €268,00 per fase introduttiva, € 496,00 per fase istruttoria ed €426,00 per fase decisionale), importo che ridotto del 30%, ai sensi dell’art. 4 comma 1 del D.M. n. 55/2014, dà luogo all’importo di € 1.020,60 per compensi, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%, che va riconosciuto dovuto al ricorrente per evitare la lesione del decoro della professione di avvocato (vedi Cass. 26.6.2024 n. 17613; Cass. ord. n. 28325/2022).
Conclusivamente, accolti per quanto di ragione i motivi quarto e quinto, rigettati i primi tre, cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e non essendo necessari ulteriori accertamenti, decidendo nel merito, condanna il Ministero al pagamento in favore del ricorrente delle spese del giudizio di opposizione che vengono liquidate in complessivi euro 1.020,60, oltre accessori.
Quanto alle spese del giudizio di legittimità, la reiezione dei primi tre motivi del ricorso, ed il limitato accoglimento del quarto e quinto motivo, giustificano la integrale compensazione fra le parti delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione accoglie il quarto ed il quinto motivo di ricorso per quanto di ragione, respinti i primi tre motivi, cassa l’impugnato decreto in relazione ai motivi accolti, e decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in favore del ricorrente dei compensi del giudizio di opposizione liquidati in € 1.020,60, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%; dichiara interamente compensate fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda