Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 31024 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 31024 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26930/2022 R.G. proposto da MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv.to NOME COGNOME del foro di Modena con procura speciale in calce al ricorso ed elettivamente domiciliata all’indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
-controricorrente – avverso il decreto della Corte di appello di Brescia n. 80/2022 depositato il 14 aprile 2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8 febbraio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Osserva in fatto e in diritto
Ritenuto che:
– con decreto del 23.11.2021 il Consigliere delegato dal Presidente della Corte di appello di Brescia accoglieva, per quanto di ragione, la domanda di equa riparazione presentata dalla RAGIONE_SOCIALE in relazione alla irragionevole durata del fallimento della RAGIONE_SOCIALE, dichiarato dal Tribunale di Brescia con sentenza depositata il 10.04.2009 e concluso con decreto del 03.04.2019, riconoscendo la irragionevole durata della procedura in tre anni, cinque mesi e diciotto g iorni, liquidato l’indennizzo in euro 1.200,00, oltre accessori;
-decidendo sull’opposizione ex art. 5 -ter legge n. 89/2001 proposta avverso il citato decreto dal Ministero della giustizia deducendo l’inesistenza del danno e l’insussistenza del diritto all’indennizzo per la irrilevanza oggettiva e soggettiva della posta in gioco nel fallimento (credito di complessivi euro 2.000,00), stante l’impossibilità di partecipare al riparto finale, la Corte di appello di Brescia, nella resistenza della RAGIONE_SOCIALE, con decreto n. 80 del 2022, respingeva l ‘opposizione e per l’effetto confermava il decreto impugnato, provvedendo anche sulle spese processuali, affermando -sulla base di consolidato orientamento della Suprema Corte -che andava esclusa l’applicabilità dell’art. 2 bis legge n. 89 del 2001 alle procedure concorsuali in termini assoluti, con la conseguenza che il valore della causa andava individuato con quello del credito azionato per cui si era stati ammessi al passivo e non già con l’entità dell’importo che il creditore in concreto riusciva a r ecuperare, dipendendo da variabili e molteplici fattori indipendenti;
– avverso il citato decreto n. 80/2022 della Corte di appello di Brescia propone ricorso per cassazione il Ministero, fondato su due motivi, cui resiste la società RAGIONE_SOCIALE con controricorso;
-in prossimità dell’adunanza camerale parte controricorrente ha anche curato il deposito di memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.
Atteso che:
va preliminarmente evidenziato che non sussiste la denunziata inammissibilità del ricorso perché sottoscritto da Procuratore dello Stato e non anche da Avvocato dello Stato, dedotta nel controricorso.
Invero, non risulta l’esistenza di norme che precludano al Procuratore dello Stato la sottoscrizione del ricorso per cassazione.
Ai sensi dell’art. 9 della legge n. 103 del 1979 (recante Modifiche all’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato), è previsto che “l’Avvocatura generale dello Stato provvede alla rappresentanza e difesa delle amministrazioni nei giudizi davanti alla corte costituzionale, alla corte di cassazione, al tribunale superiore delle acque pubbliche, alle altre supreme giurisdizioni, anche amministrative, ed ai collegi arbitrali con sede in Roma, nonché nei procedimenti innanzi a collegi internazionali o comunitari”; il precedente art. 8 statuisce, altresì, che “l’Avvocatura generale dello stato è costituita dall’Avvocato generale dello stato, da Avvocati e da Procuratori dello stato (…) i Procuratori dello stato possono assumere la rappresentanza in giudizio delle amministrazioni nei modi di cui al testo unico approvato con R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 1, comma 2”, il quale dispone che “gli avvocati dello stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede e non hanno bisogno di mandato, neppure nei casi nei quali le norme ordinarie richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità-; ai sensi del successivo art. 19, poi, “gli avvocati e procuratori dello stato trattano gli affari contenziosi e consultivi loro assegnati (…) i procuratori dello stato provvedono anche al servizio di procura per le cause trattate dagli avvocati e dagli altri procuratori dello stato, secondo le disposizioni dei dirigenti degli uffici cui sono addetti”.
L’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato sebbene sia è stato
profondamente innovato dalla l. 3 aprile 1979 n. 103, tuttavia la riforma ha provveduto a lasciare inalterate le attribuzioni e le funzioni previste per questa istituzione dalle norme del R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611, limitando il riassetto alla carriera, in analogia a quello operato per i magistrati ordinari dalla l. 22 dicembre 1973 n. 831. Nell’ambito delle due qualifiche di ”procuratore dello stato” e di ”avvocato dello stato” sono state così soppresse tutte le preesistenti differenze di qualifiche e sono previsti solo criteri di progressione economica in ragione della mera anzianità di servizio. Sia per i procuratori che per gli avvocati, dunque, è applicabile l’art. 1 del R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611, che consente di esercitare le funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede senza bisogno di mandato.
Del resto nel medesimo solco si è posta la Corte costituzionale con la sentenza n. n. 245 del 2017, che seppure in un obiter dictum ha affermato che ‘il tenore testuale dell’art. 1, secondo comma, del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato) e dell’art. 8, terzo comma, della legge 3 aprile 1979, n. 103 (Modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatu ra dello Stato) chiarisce come nessuna limitazione sia prevista per i procuratori dello Stato, i quali, pertanto, possono esercitare, allo stesso modo degli avvocati dello Stato, le funzioni anche innanzi alle magistrature superiori (ciò è confermato dalla stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 11 febbraio 2013, n. 769);
-passando all’esame nel merito, con il primo e con il secondo motivo il Ministero deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2 -bis, comma 3 e dell’art. 2, comma 2 -sexies lett. g) legge n. 89 del 2001 in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., con riferimento al valore della causa nell’ambito di una procedura fallimentare in caso di consapevolezza ex ante dell’incapienza dell’attivo. Ad avviso del
ricorrente, inoltre, la Corte distrettuale non avrebbe considerato il carattere irrisorio o bagatellare della pretesa fatta valere nel processo presupposto, circostanza da valorizzare unitamente alla c.d. posta in gioco.
Le censure -per le quali è opportuna la trattazione unitaria per la evidente connessione che le avvince -sono infondate.
In tema di equa riparazione l’ammissione del creditore al passivo fallimentare consente al giudice, una volta accertata l’irragionevole durata del processo e la sua entità secondo le norme della L. n. 89 del 2001, di ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che esso sia stato subito dal ricorrente, stante la valutazione positiva della fondatezza delle ragioni di credito insita nel provvedimento emesso dagli organi della procedura fallimentare, senza che rilevi, in senso contrario, l’art. 2, comma 2 quinquies, lett. a), della L.n.89 del 2001, introdotto dalla L. n. 208 del 2015, secondo cui non è riconosciuto alcun indennizzo alla parte consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, atteso che la posizione del creditore, insinuato al passivo e rimasto insoddisfatto per l’incapienza dell’attivo, non è assimilabile a quella della parte avente pretese, “ab origine” o per fatti sopravvenuti, infondate (Cass. 24.4.2023 n. 10849; Cass. n. 19555 del 2021).
L’art. 2 bis, comma 3, L. 89/2001, inoltre, dispone che la misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice.
Nell’individuazione della nozione di “valore della causa” ex art. 2 bis, comma 3, della legge n. 89/2001 e, in generale, tutte le volte che si debba avere riguardo a tale valore ai fini dell’equa riparazione del danno da durata non ragionevole del processo, deve farsi ricorso, in via di interpretazione analogica, al criterio fissato dagli artt. 10 e ss. c.p.c. e quindi all’importo richiesto con la domanda proposta nel processo
presupposto (cfr. Cass. n. 24362 del 2018, secondo cui, per le opposizioni all’esecuzione, viene in rilievo il valore indicato dall’art. 17 c.p.c., ossia quello del credito per il quale si procede).
In particolare, ai fini dell’equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo fallimentare, il valore della causa ex art. 2-bis, terzo comma, legge n. 89/2001, deve essere riferito al valore del credito ammesso al passivo fallimentare e non alla somma di cui al piano di riparto divenuto esecutivo, atteso che tali ultimi importi dipendono da molteplici variabili, indipendenti sia dalla natura e dall’entità del credito azionato, sia dalla situazione soggettiva del creditore (Cass. 24 febbraio 2023 n. 5757; Cass. 30 novembre 2022 n. 35319; Cass. 27 ottobre 2022 n. 31800; Cass. 29 aprile 2019 n. 11372; Cass. 27 aprile 2018 n. 10176).
Quanto poi alla presunzione di insussistenza del pregiudizio prevista dall’art. 2, comma 2 sexies , lett. g), della l. n. 89 del 2001, e invocata dal Ministero, l’irrisorietà della pretesa deve essere valutata alla stregua di due elementi: uno obiettivo, correlato al valore del bene che è oggetto della lite e uno soggettivo, per il quale si tiene conto delle condizioni della parte (Cass. 13 febbraio 2024 n. 3970).
Alla nozione di ‹‹irrisorietà della pretesa o del valore della causa››, in particolare, si deve attribuire il significato che si trae dalla giurisprudenza consolidata della Corte europea dei diritti dell’uomo, dalla quale non è permesso di discostarsi nell’esercizio del potere interpretativo garantito al giudice nazionale in sede di applicazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, in quanto la legge n. 89 del 2001 fornisce unicamente un rimedio giurisdizionale interno che permette di assicurare la sussidi arietà dell’intervento del giudice convenzionale.
Al di là dei casi in cui il giudice comune torni a occuparsi della richiesta di cessazione degli effetti lesivi della violazione accertata dalla Corte di Strasburgo (Corte cost. 18 luglio 2013, n. 210; Corte cost. 7 aprile 2011, n. 113), l’interpretazione offerta dalla Corte EDU vincola il giudice nazionale soltanto in quanto espressiva di un ‘diritto
consolidato’, mentre nessun obbligo esiste a fronte di pronunce che non siano il frutto di un orientamento divenuto definitivo (Corte cost. 26 marzo 2015, n. 49 che ribadisce e precisa quanto affermato dalle sentenze 22 luglio 2011, n. 236 e 26 novembre 2009, n. 311 secondo cui il giudice comune è tenuto a uniformarsi alla « giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente », « in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza », fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro, Corte cost. 6 gennaio 2012, n. 15 e n. 317/2009).
La Corte di Strasburgo considera la sproporzione tra il carattere banale dei fatti del caso, cioè la natura irrisoria della somma in questione, e il sovraccarico della Corte di numerosi ricorsi pendenti che sollevano gravi questioni di diritti umani. In tale contesto, la giurisprudenza consolidata della Corte europea dei diritti dell’uomo tiene conto anche della situazione finanziaria del ricorrente e delle possibili ripercussioni della causa in questione su di essa, nonché della natura e dell’importanza della presunta violazione della Convenzione ( Bock c. Germania , n. 22051/07, 19 gennaio 2010, e Jenik c. Austria , nn. 37794/07, 11568/08, 23036/08, 23044/08, 23047/08, 23053/08, 23054/08, 48865/08, 20 novembre 2012), appuntandosi principalmente sul valore meramente bagatellare della lite. In tal senso, la Corte di Strasburgo ha applicato il criterio del ‘danno significativo’ ai sensi dell’articolo 35, paragrafo 3, lettera b), per consentirle di trattare rapidamente le domande futili, sul presupposto che la violazione di un diritto, qualunque sia la sua realtà da un punto di vista strettamente giuridico, deve raggiungere una soglia minima di gravità per giustificare l’esame da parte di un tribunale internazionale ( Korolev c. Russia , déc. no 25551/05, 1° luglio 2010, principio de minimis non curat praetor ). Per quanto riguarda l’impatto finanziario irrilevante, in particolare, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha finora riscontrato l’assenza di ‘svantaggio significativo’ in casi in cui la pretesa era di entità minima, con un importo in genere pari o inferiore a circa 500 euro: in un caso
relativo a un procedimento in cui l’importo in questione era di 90 euro ( Ionescu c. Romania (dec.), n. 36659/04, 1° giugno 2010).
Ed invero, il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla legge n. 89/2001 si fonda non sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito (Cass. 25 luglio 2023 n. 22378; Cass. 9 novembre 2019 n. 28749; Cass. 25 settembre 2018 n. 22646).
In tal senso, anche un danno pecuniario modesto può essere significativo alla luce della condizione specifica della persona e della situazione economica del Paese o della regione in cui vive. Pertanto, la Corte -tenuto conto dei criteri esaminati -considera l’effetto della perdita finanziaria alla luce della situazione economica dell’individuo.
Nel solco di questo indirizzo, e con specifico riferimento al caso di specie, la Corte d’appello di Brescia, nell’ambito dell’apprezzamento di fatto spettante al giudice di merito -non sindacabile in questa sede se non nei limiti dell’articolo 360, comma 1 n. 5 c.p.c., così come formulato dopo la riforma del 2012 (nelle ipotesi di mancanza assoluta della motivazione, o di motivazione apparente, perplessa o incomprensibile, o di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili), ha ritenuto sussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo per la non irrisorietà obiettiva della pretesa (un credito di euro 2.000,00), che al più poteva incidere sul quantum dell’indennizzo.
Conclusivamente il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione in favore della controricorrente evocata, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 10 d.p.r. n. 115/2002 non è soggetto a contributo unificato il giudizio di equa riparazione ex lege n. 89/2001. Il che rende inapplicabile l’art. 13, 1° co. quater, d.p.r. 30.5.2002, n. 115 (cfr.
Cass., Sez. Un., 28 maggio 2014 n. 11915).
P . Q . M .
La Corte rigetta il ricorso;
condanna l’Amministrazione alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente che liquida in complessivi euro 1.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese generali e agli accessori come per legge
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda