Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 31173 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 31173 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5948/2022 R.G. proposto da NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. Prof. NOME COGNOME del foro di Roma, con procura speciale allegata al ricorso, ed elettivamente domiciliato press lo studio del difensore in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la quale è elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso il decreto della Corte di appello di Potenza n. 625/2021 depositato il 23 luglio 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8 febbraio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Osserva in fatto e in diritto
Ritenuto che:
-con ordinanza n. 21498 del 2019 la Corte di Cassazione nell’accogliere il ricorso proposto da NOME COGNOME cassava con rinvio il decreto n. 515 del 2014 della Corte di appello di Potenza di improcedibilità della domanda ex art. 3 legge n. 89 del 2001 dello stesso ricorrente, sul rilievo che nel giudizio amministrativo presupposto egli non aveva presentato l’istanza di prelievo di cui all’art. 71 del codice del processo amministrativo (decreto legislativo n. 104 del 2 luglio 2010), richiesta come condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione dall’articolo 54, comma 2, del decreto legge n. 112/2008, nel testo, in vigore dal 16.9.10, modificato dall’articolo 3, comma 23, dell’allegato n. 4 al suddetto decreto legislativo n. 104/2010 e, successivamente, dall’articolo 1, comma 3, lett. “a”, n. 6, d.lgs. 195/2011, per essere intervenuta nelle more del giudizio la sentenza della Corte Costituzionale n. 34 del 6 marzo 2019 di incostituzionalità del medesimo art. 54, comma 2 del dl. n. 112/2008;
-riassunto il giudizio, ai sensi dell’art. 392 c.p.c., dallo stesso Surace, la Corte di appello di Potenza, nella contumacia del Ministero dell’economia e delle finanze, con decreto n. 625 del 2021, in accoglimento dell’originaria opposizione liquidava in favore del ricorrente l’indennizzo in euro 6.000,00, oltre accessori e le spese dell’intero procedimento, riconoscendo una durata irragionevole di 14 anni e 6 mesi arrotondati a 15 anni, su diciotto anni e sei mesi di durata complessiva del procedimento presupposto svoltosi dinanzi al Tar Puglia iniziato con ricorso notificato e depositato in data 06.12.1994 e definito dal giudice amministrativo con sentenza depositata il 28.6.2013;
avverso il citato decreto n. 625/2021 della Corte di appello di Potenza propone ricorso per cassazione il Surace, fondato su quattro motivi, cui
resiste il Ministero dell’economia e delle finanze con controricorso; in prossimità dell’adunanza camerale parte ricorrente ha curato anche
-il deposito di memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.
Atteso che:
-con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2 bis, comma 1 legge n. 89 del 2001 e seguenti, sotto il profilo del mancato riconoscimento della ‘frazione di anno superiore a sei mesi’ ai fini del calcolo dell’equa riparazione. Infatti, la Corte di merito bench é abbia correttamente preso in considerazione le date di deposito del ricorso dinanzi al g.a. e quella di pubblicazione della sentenza, tuttavia la durata complessiva era stata di 18 anni, sei mesi e 22 giorni, con la conseguenza che la durata irragionevole doveva essere considerata di sedici anni per eccesso e non già di quindici anni.
Il motivo è fondato.
Il primo comma dell’art. 2 bis legge n. 89/2001, ratione temporis applicabile, prevede che ‘Il giudice liquida a titolo di equa riparazione, di regola, una somma di denaro non inferiore a euro 400 e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo.’.
La Corte d’appello ha deciso la questione di diritto non considerando l’uniforme orientamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 2, comma 2-bis della l. n. 89 del 2001 detta i criteri per determinare la durata del processo presupposto in base al principio della unitarietà dello stesso, sicché, agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, tale durata va calcolata avendo riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo. Ne consegue che la durata complessiva si determina sommando il tempo effettivo trascorso per la sua definizione, con arrotondamento ad un anno della frazione superiore a sei mesi operato solo una volta sulla durata complessiva così determinata (Cass. Sez. 2,
05/07/2022, n. 21194; Cass. Sez. 2, 30/10/2019, n. 27782; Cass. Sez. 6 – 2, 21/01/2019, n. 1520; Cass. Sez. 1, 13/04/2006, n. 8717).
Ha dunque errato la Corte d’appello di Potenza a verificare il rispetto del termine ragionevole computando in quindici anni la durata eccedente la ragionevole durata del processo, dal momento che la durata complessiva era stata di 18 anni, sei mesi e 22 giorni, per cui detratti i tre anni di ragionevole durata, rimanevo 15 anni, sei mesi e 22 giorni, con arrotondamento di un anno per esservi la frazioni di anno superiore a sei mesi per 22 giorni;
-con il secondo motivo è lamentata, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2 -bis, comma 1 legge n. 89 del 2001, come aggiunto dall’art. 55, comma 1 lett. b) d.l. n. 83 del 2012, conv. con modificaz. con legge n. 134 del 2012, sotto il profilo della determinazione dell’equa riparazione in misura inferiore a quella minima prevista dalla norma applicabile ratione temporis . Ad avviso del ricorrente essendo stato il ricorso per equa riparazione depositato il 25.09.2014, deve trovar e applicazione la disciplina previgente dell’art. 2 bis comma 1 legge n. 89 del 2001, pertanto una somma di denaro non inferiore ad euro 500,00 e non superiore a euro 1.500,00 per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, per essere la novella applicabile ai ricorsi depositati successivamente al 01.01.2016.
Anche il secondo motivo è fondato non trovando applicazione nella specie il comma 1 dell’art. 2 -bis della legge 24 marzo 2001, n. 89, come risultante dalle sostituzioni operate dall’art. 1, comma 777, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 per essere stato il ricorso per equa riparazione depositato in data 25.09.2014 e dunque in epoca antecedente alla sua entrata in vigore, fissata al 10 gennaio 2016.
Ne consegue l’applicazione dell’art. 2 bis della legge 24 marzo 2001, n. 89, come inserito dal d.l. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, che aveva limitato la misura dell’indennizzo in una somma di
denaro, non inferiore a 500 curo e non superiore a 1.500 euro per anno di ritardo. L’interpretazione data da questa Corte chiarì subito, allora, che le disposizioni in tema di misura dell’indennizzo di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, non avevano natura di interpretazione autentica né efficacia retroattiva, pur escludendone l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, par. 1, della CEDU, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione e la ragionevolezza del criterio di 500 euro per anno di ritardo recepivano comunque, nella sostanza, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte E.D.U. e della stessa Corte di cassazione (Cass. 22 settembre 2014 n. 19897; Cass. 27 ottobre 2014 n. 22772).
L’art. 2-bis, legge n. 89/2001, nello stabilire la misura ed i criteri di determinazione dell’indennizzo a titolo di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, rimette, quindi, al prudente apprezzamento del giudice di merito – sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360, n. 5, c.p.c. – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati (dapprima non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, poi non inferiore a 400 euro e non superiore a 800 euro per ciascun anno), da applicare al ritardo nella definizione del processo presupposto, orientando il quantum della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nel comma 2 della stessa disposizione, che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico (Cass. 16 luglio 2015 n. 14974; Cass. 1° febbraio 2019 n. 3157).
Nella specie, la Corte territoriale ha erroneamente applicato l’art. 2, comma 2 bis legge cit. nel tenore della riforma intervenuta successivamente;
-con il terzo motivo viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3
c.p.c., la violazione del D.M. n. 55/2012, Tab. 12 (giudizi innanzi alla Corte di appello) e Tab. 13 (giudizi innanzi alla Corte di Cassazione e alle giurisdizioni superiori), sotto il profilo dell’errata applicazione dei parametri medi e della liquidazione delle spese al di sotto dei parametri minimi.
La censura è parzialmente fondata nei termini di seguito illustrati.
Gli importi complessivi dei compensi professionali, relativi al giudizio di opposizione e a quello di rinvio, definiti con l’impugnato decreto, come liquidati dalla Corte di Potenza risultano certamente inferiori al totale del minimo tabellare, avuto riguardo ai parametri tariffari contemplati dal D.M. n. 37/2018.
Nel caso di specie, si è dinanzi alla situazione di opposizione ex art. 5ter della l. n. 89 del 2001 che investe la questione della determinazione del quantum del danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo. In tal caso, il giudizio di opposizione non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza una fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo; sennonché, ove detta opposizione sia proposta dalla parte privata rimasta insoddisfatta dall’esito della fase monitoria e, dunque, abbia carattere pretensivo, le spese di giudizio vanno liquidate in base al criterio della soccombenza, a misura dell’intera vicenda processuale, solo in caso di suo accoglimento, come nel caso che ci occupa; mentre, ove essa venga rigettata, fatta salva l’ipotesi di opposizione incidentale da parte dell’amministrazione, le spese vanno regolate in maniera del tutto autonoma e poste, pertanto, anche a carico integrale della parte privata opponente, ancorché essa abbia diritto a ripetere quelle liquidate nel decreto, in quanto il Ministero opposto, avendo prestato acquiescenza al decreto medesimo, affronta un giudizio che non aveva interesse a provocare e del quale, se vittorioso, non può sopportare le spese (Cass. Sez. 2, n. 23599/2023 del 2/8/2023; cfr. anche, con motivazione in parte analoga, Cass. Sez.
2, n. 16803/2023 del 13/6/2023, entrambe richiamate in memoria dalla ricorrente; Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 9728 del 26/05/2020; conf. da Cass. n.32458/2021; Cass. Sez. 6 – 2, Sentenza n. 26851 del 22/12/2016).
Nella specie, l’opposizione del ricorrente era stata accolta e, dunque, doveva procedersi ad una liquidazione unitaria, sebbene rispettando le due distinte fasi dei giudizi monitorio e di opposizione, avendo come riferimento la somma complessiva di 6.000,00 riconosciuta al ricorrente in accoglimento dell’opposizione.
Infatti, pur applicando la massima riduzione ai singoli importi spettanti per ciascuna voce, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del citato D.M., si perviene al riconoscimento della somma totale di euro 1.270,00, così computata: euro 230,00 per la fase di studio della controversia; euro 194,50 per la fase introduttiva del giudizio; euro 420,00 per la fase istruttoria; euro 425,50 per la fase decisionale.
La liquidazione disposta dalla Corte di appello di Potenza in complessivi 915,00 euro, invece, è stata operata senza dare alcuna adeguata motivazione (Cass. 15 dicembre 2017 n. 30286; Cass. 31 gennaio 2017 n. 2386; Cass. 16 settembre 2015 n. 18167).
Eguali considerazioni valgono quanto al giudizio di rinvio.
Diversamente per le spese del giudizio di legittimità riconosciute in euro 1.000,00, in quanto seguendo i parametri di cui sopra spetterebbero nel minimo in euro 739,00;
-con il quarto motivo, sempre ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 91 c.p.c., anche in combinato disposto con il D.M. n. 55/2014 e dell’art. 112 c.p.c., sotto il profilo dell’omessa liquidazione delle spese relative al procedimento monitorio e al giudizio di legittimità costituzionale.
Anche l’ultima censura è parzialmente fondata per quanto si dirà.
Nulla andava riconosciuto per il procedimento monitorio per le ragioni illustrate nel terzo mezzo, trattandosi di un giudizio unitario con la fase
di opposizione.
Di converso, vanno liquidate le spese del giudizio di legittimità costituzionale, del tutto omesse dal giudice del rinvio, per avere il difensore svolto difese avanti alla Corte delle leggi cui era stata rimessa la questione con ordinanza interlocutoria n. 28235/2017, in esito alla pubblica udienza del 13.10.2017.
In conclusione il ricorso va accolto nei limiti di cui in motivazione, con cassazione in parte qua del decreto della Corte di appello di Potenza impugnato e, poiché non risultano necessari ulteriori accertamenti di fatto ex art. 384 comma 2° c.p.c., la causa va decisa nel merito, nel senso che il Ministero della giustizia deve essere condannato al pagamento, in favore del ricorrente, di un indennizzo pari ad euro 8.000,00 (euro 500 x 16), in luogo del minore importo riconosciuto di euro 6.000,00, oltre accessori, ed in favore del difensore del ricorrente, dichiaratosi antistatario, dell’importo di euro 1.270,00, in luogo della più ridotta liquidazione di euro 915,00, sia per il giudizio di opposizione sia per quello di rinvio, nonché della somma di euro 1.600,00 per il giudizio di legittimità costituzionale, il tutto oltre al rimborso delle spese generali e agli accessori di legge per ciascuna fase.
In ragione dell’esito del ricorso, anche le spese legali del giudizio di legittimità devono seguire la soccombenza e possono liquidarsi al minimo come in dispositivo, sempre con distrazione in favore del procuratore NOME COGNOME dichiaratosi antistatario, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle attività espletate.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione;
cassa il decreto della Corte di appello di Potenza -sempre nei limiti di cui in motivazione, confermata per il resto – e decidendo nel merito, condanna il Ministero della giustizia al pagamento in favore del
ricorrente di un indennizzo pari ad euro 8.000,00, oltre interessi dalla domanda al soddisfo e delle spese processuali del giudizio dinanzi alla predetta Corte, anche quale giudice di rinvio, che vengono liquidate in complessivi euro 1.270,00 per ciascuna delle due fasi, ed euro 1.600,00 per il giudizio di legittimità costituzionale, con rimborso forfettario per tutti i giudizi delle spese generali e agli accessori di legge, sempre con distrazione in favore del difensore, avvocato NOME COGNOME dichiaratosi antistatario;
condanna l’Amministrazione alla rifusione in favore del ricorrente anche delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in complessivi euro 1.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori, con distrazione in favore dello stesso difensore, avvocato NOME COGNOME dichiaratosi antistatario.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda