Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24173 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 24173 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 09/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso 15301-2020 proposto da:
NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4343/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 29/11/2019 R.G.N. 569/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/06/2024 dal Consigliere AVV_NOTAIO. AVV_NOTAIO COGNOME.
Oggetto
Trasferimento del lavoratore
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 26/06/2024
CC
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello proposto da COGNOME NOME contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 10499/2016 che, ritenendo legittimo il trasferimento presso il CMP di Torino, comunicato a detta lavoratrice con nota del 10.7.2015, aveva respinto la domanda della stessa nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, volta ad ottenere l’accertamento dell’inesistenza o della nullità di tale trasferimento, con condanna della società datrice di lavoro a riassegnarla al CMP di Fiumicino, ovvero in un altro ufficio di Roma in mansioni equivalenti, nonché con la condanna della stessa società a corrisponderle le retribuzioni maturate dalla data della sentenza della Corte d’appello di Roma n. 4960/2015 (9.6.2015).
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva in narrativa che l’appellata RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, tra l’altro, nel costituirsi in secondo grado, aveva precisato che, nelle more, a seguito di declaratoria di illegittimità del licenziamento irrogato alla COGNOME per la sua mancata presentazione presso il CMP di Torino, la stessa Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 1811/2019, aveva comunque dichiarato risolto il rapporto di lavoro con il riconoscimento in favore della lavoratrice dell’indennità risarcitoria, nonché di quella di preavviso.
2.1. Riteneva, quindi, la Corte che l’appello dovesse essere respinto per il sopravvenuto difetto di interesse ad impugnare della lavoratrice, sul rilievo che il rapporto tra le parti era stato dichiarato definitivamente risolto dalla medesima Corte d’appe llo con la cit. sentenza n. 1811/2019. E tanto ai sensi dell’art. 336 c.p.c. che prevede espressamente che la riforma e
la cassazione parziale hanno effetto anche sui provvedimenti e sugli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata.
Avverso tale decisione COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
L’intimata società ha resistito con controricorso e successiva memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente deduce ex ‘art. 360, n. 5 -Violazione dell’art. 324 cpc per avere la sentenza qui impugnata, dichiarato definitiva la decisione della corte di appello di Roma n. 1811/15 nonostante la sua impugnazione sia pendente pres so questa Ecc.ma Corte con il n.r. 18912/2019’.
Con un secondo motivo denuncia sempre ex ‘art. 360, n. 5 cpc -Violazione dell’art. 132, co. 1, n. 4 c.p.c. Per avere la Corte territoriale del tutto omesso di indicare gli elementi da cui ha tratto il convincimento circa la natura definitiva della sent enza n. 1811/19 della Corte di appello di Roma’.
Con un terzo motivo denuncia ex ‘art. 360, n. 4 cpc Violazione dell’art. 112 cpc. Violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato per avere la Corte dichiarato la natura ‘definitiva’ della sentenza della Corte di appello di Roma, Sez. Lavoro n. 1811/2019, nonostante entrambe le parti avessero evidenziato nelle note autorizzate e nei termini di impugnazione della sentenza che questa non era passata in giudicato e che la dipendente si era espressamente riservata di impugnarla in Cassazione come effettivamente fatto’.
Con un quarto motivo denuncia ex ‘art. 360, n. 5 Violazione dell’art. 336 e 337, co. 2, cpc Violazione dell’art. 336 cpc per avere applicato la norma ad una fattispecie errata, cioè che la sentenza n. 1811/19 fosse definitiva, fattispecie cui fa riferimento la norma, laddove in presenza di una sentenza non definitiva, invocata dalla appellata nella sua memoria di costituzione, l’art. 337, co. 2, cpc avrebbe consentito alla corte territoriale un margine di discrezionalità di cui la stessa si è erroneame nte privata’.
I così riassunti motivi, esaminabili congiuntamente per connessione, sono inammissibili.
Premesso che la ricorrente, come si trae chiaramente dallo svolgimento dei singoli motivi, per sentenza ‘definitiva’ intende sentenza ‘passata in giudicato’, tutti i motivi sono accomunati dal presupporre che la Corte di merito avrebbe appunto reputato -per la ricorrente, erroneamente -, passata in cosa giudicata formale (tanto che si assume violata tra le altre norme quella dell’art. 324 c.p.c.) la precedente sentenza della medesima Corte d’appello n. 1811/2019.
6.1. Ebbene, tale presupposto da cui muovono tutte le quattro censure in esame è errato, sicché le stesse difettano di specificità in termini di aderenza all’effettiva ratio decidendi dell’impugnata sentenza.
6.2. Come ben risulta, infatti, dal testo completo di quest’ultima, in nessun punto della stessa la Corte ha mostrato di ritenere, sia pure per implicito, che la suddetta sentenza in tema di licenziamento tra le medesime parti fosse coperta dal giudicato.
Più nello specifico, la Corte, non solo non ha richiamato l’art. 324 c.p.c. o l’art. 2909 c.c., ma non ha parlato in proposito di giudicato.
6.3. Piuttosto, come già riferito in narrativa, ha fatto riferimento all’art. 336 c.p.c. circa la portata di detta decisione resa nell’altro giudizio inter partes.
Ebbene, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, l’articolo 336 c.p.c., nella nuova formulazione introdotta dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, non subordina più al passaggio in giudicato della sentenza di riforma i cosiddetti effetti espansivi esterni, comportando perciò non soltanto la caducazione immediata della sentenza riformata (le cui statuizioni vengono sostituite automaticamente da quella della sentenza di riforma), ma altresì l’immediata propagazione delle conseguenze della sentenza di riforma agli atti dipendenti dalla sentenza impugnata (così, di recente, Cass., sez. III, 19.10.2022, n. 30724; id., sez. lav., 5.3.2009, n. 5323; id., sez. lav., 27.6.2000, n. 8745).
Pertanto, la Corte di merito ha richiamato l’art. 336 c.p.c., che, al comma 2, detta appunto il cd. effetto espansivo esterno anche della riforma (oltre che della cassazione) di una sentenza, sia pure non passata in giudicato.
E quando ha adottato l’avverbio ‘definitivamente’ a proposito della declaratoria di risoluzione del rapporto di lavoro ha inteso riferirsi, non al formarsi della cosa giudicata sulla relativa sentenza, ma a un effetto dirimente di diritto sostanziale. Effetto, questo, che, come diffusamente spiegato in parte motiva, rendeva ormai la lavoratrice priva d’interesse attuale ad impugnare la sentenza di prime cure a lei sfavorevole
circa il trasferimento ad altra sede lavorativa da lei contestato, per essere nel frattempo venuto meno lo stesso rapporto di lavoro.
L’illustrata ragione d’inammissibilità dell’intero ricorso, di per sé esaustiva, concorre peraltro con altri profili d’inammissibilità, riferiti ai singoli motivi dello stesso.
7.1. La ricorrente, difatti, nel primo, nel secondo e nel quarto motivo si riferisce al mezzo di ricorso di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., in modo all’evidenza difforme rispetto a come il vizio di ‘omesso esame circa un fatto decisivo che h a formato oggetto di discussione tra le parti’ può essere dedotto in questa sede di legittimità (cfr., per tutte, Cass., sez. un., 30.07.2021, n. 21973); mentre nel terzo motivo non è dedotta la nullità della sentenza per la sostenuta violazione dell’art. 112 c.p.c.
La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 4.500,00 per compensi professionali, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 26.6.2024.