Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 16222 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 16222 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8409/2023 R.G. proposto da
NOME e NOME, in proprio ed in qualità di eredi di Tropea NOME COGNOME rappresentati e difesi dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno indicato i seguenti indirizzi di posta elettronica certificata: e
;
-ricorrenti –
contro
COMUNE DI COGNOME, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME che ha indicato il seguente indirizzo di posta elettronica certificata: ;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria n. 1046/22, depositata il 20 dicembre 2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME convenne in giudizio il Comune di Melito Porto Salvo, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni cagionati dalla perdita della proprietà di un fondo di 4.300 mq., riportato in Catasto al foglio 42, particella 350, occupato in virtù dell’autorizzazione concessa dal Sindaco con decreto del 21 novembre 1977 ed irreversibilmente trasformato, senza che fosse intervenuto il decreto di espropriazione.
Si costituì il Comune, e resistette alla domanda, precisando di aver occupato in un primo tempo un’area di 421 mq., immediatamente destinata alla realizzazione dell’opera pubblica, per la quale il diritto al risarcimento era ormai prescritto, ed in un secondo tempo un’area di 1976, per la quale era ancora in corso l’occupazione legittima.
1.1. Con sentenza del 24 ottobre 2006, il Tribunale di Reggio Calabria accolse la domanda, condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 53.552,25, oltre interessi e rivalutazione monetaria, nonché degl’interessi legali sull’importo di Euro 2.932,31 dal 10 aprile 1978 al 30 aprile 1983 e sull’importo di Euro 50.554,94 dal 13 luglio 1987 al 30 luglio 1992.
L’impugnazione proposta dal Comune fu rigettata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, che con sentenza del 7 novembre 2016 accolse l’appello incidentale proposto dall’attore, riconoscendo a quest’ultimo l’importo di Euro 97.282,40, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, a titolo di danno patrimoniale, e un importo pari agl’interessi legali sulle somme di Euro 9.784,27 ed Euro 20.410,38, rivalutati di anno in anno, a titolo di danno non patrimoniale.
Il ricorso per cassazione proposto dal Comune nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, in proprio e in qualità di procuratrice generale di NOME COGNOME in qualità di eredi dell’attore, nel frattempo deceduto, fu accolto da questa Corte con ordinanza del 21 giugno 2018, n. 16461, con cui questa Corte rilevò che la Corte d’appello aveva considerato dirimente, ai fini della stima, la circostanza che l’area fosse stata
interessata da un ingente abusivismo edilizio che ne aveva indotto di fatto la trasformazione da area agricola ad area edificatoria, ancorando in tal modo la propria decisione ad un argomento che, oltre ad avere fonte nell’indiretta legittimazione di una condotta illecita, si risolveva nell’acritico recepimento delle risultanze della c.t.u. e risultava perciò privo di un congruo bagaglio motivazionale.
4. Il giudizio è stato pertanto riassunto dinanzi alla Corte d’appello, che con sentenza del 20 dicembre 2022 ha riconosciuto agli eredi dell’attore l’importo di Euro 1.103,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, a titolo di danno patrimoniale per la perdita della proprietà sul primo lotto, di Euro 4.651,28, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, a titolo di danno patrimoniale per la perdita della proprietà sul secondo lotto, un importo pari agl’interessi legali sulle predette somme, a titolo di danno non patrimoniale, un importo annuo pari al 5% annuo sulla somma di Euro 643,39 dal 13 luglio 1982 al 30 maggio 1989, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, a titolo danno per il mancato godimento del primo lotto, un importo annuo pari a un dodicesimo di Euro 337,01 dal 13 luglio 1978 al 12 luglio 1982, oltre interessi legali, a titolo d’indennità per l’occupazione legittima del primo lotto, ed un importo annuo pari a un dodicesimo di Euro 4.044,59 dal 13 luglio 1987 al 22 dicembre 1989, oltre interessi legali, a titolo d’indennità per l’occupazione legittima del secondo lotto.
A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto dichiarato inammissibile l’eccezione di prescrizione riproposta dal Comune, rilevando che in ordine al rigetto della stessa si era formato il giudicato interno, non avendo l’Amministrazione impugnato la relativa statuizione della sentenza di appello, e precisando quindi che l’oggetto del giudizio era limitato alla determinazione del quantum debeatur .
Nel merito, premesso che la procedura ablatoria aveva avuto ad oggetto un’area di 421 mq. per il primo lotto e di 1976 mq. per il secondo lotto, ha osservato che soltanto per la prima il valore dell’immobile poteva essere determinato in riferimento alla data della domanda, configurabile come rinuncia al diritto dominicale, mentre per la seconda doveva tenersi conto della data della trasformazione irreversibile del suolo, intervenuta nel corso dell’occu-
pazione legittima e dopo la proposizione della domanda, in quanto sintomatica della definitiva volontà dell’Amministrazione di acquisire il bene.
Ciò posto, e rilevato che a quell’epoca il fondo era incluso in zona E agricola, sottoposta a vincolo d’inedificabilità, ha rideterminato in Euro 1.103,00 il valore del primo lotto ed in Euro 4.651,28 quello del secondo lotto, riconoscendo sugli stessi la rivalutazione monetaria fino alla data della decisione, e gl’interessi con decorrenza rispettivamente dalla data della citazione e da quella dell’irreversibile trasformazione. Precisato poi che la sentenza di appello non era stata impugnata nella parte riguardante il riconoscimento del danno non patrimoniale, lo ha rideterminato in misura pari agl’interessi legali sugli importi liquidati a titolo di risarcimento del danno patrimoniale; ha aggiunto il danno derivante dall’occupazione illegittima del primo lotto, in misura pari al 5% annuo del valore venale del suolo dalla data di cessazione dell’occupazione legittima e fino a quella di proposizione della domanda, e l’indennità per l’occupazione legittima, nella misura prevista dall’art. 20, terzo comma, della legge 22 ottobre 1971, n. 865, con decorrenza dalla data d’immissione in possesso e fino a quella di cessazione dell’efficacia del relativo decreto per il primo lotto, e fino a quella dell’irreversibile trasformazione per il secondo lotto. Ha ritenuto non dovuta la rivalutazione monetaria sull’indennità di occupazione, trattandosi di debito di valuta, escludendo altresì la spettanza del risarcimento del maggior danno, per mancanza di prova.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria, NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME, in proprio ed in qualità di eredi di NOME COGNOME, nel frattempo deceduto. Il Comune ha resistito con controricorso.
Il Consigliere delegato ha depositato proposta di definizione del giudizio, ai sensi dell’art. 380bis , primo comma, cod. proc. civ., ravvisando l’infondatezza dell’impugnazione.
A seguito della comunicazione, le ricorrenti hanno chiesto la decisione del ricorso, ai sensi dell’art. 380bis , secondo comma, cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, le ricorrenti denunciano l’omesso
esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la riqualificazione del fondo come area agricola, anziché come area edificabile, non trova giustificazione nelle indicazioni emergenti dall’ordinanza di cassazione. Premesso che quest’ultima non aveva affermato la vincolatività della classificazione risultante dagli strumenti urbanistici, ma aveva accolto il ricorso proposto dal Comune per vizio di motivazione, annullando la sentenza di appello per aver acriticamente recepito le risultanze della c.t.u., sostengono che la Corte territoriale avrebbe dovuto verificare se la natura edificatoria del fondo trovasse conferma in altri fatti e circostanze. Affermano che la sentenza impugnata ha trascurato altri fatti rilevati dal c.t.u. ed incidenti sul valore venale del suolo, ed in particolare a) l’avvenuto accoglimento da parte del Comune delle istanze di condono edilizio presentate dai privati in relazione alle costruzioni realizzate nella zona, b) il parere rilasciato dalla Commissione provinciale ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione, in cui si affermava che le aree occupate avrebbero dovuto essere considerate edificabili, sia pure con pregi limitati, c) la vicinanza dell’area al centro urbano, b) la contiguità dello stesso al mare, d) la vicinanza di costruzioni di pregio, e) la giacitura pianeggiante, f) la presenza dei servizi di acqua ed energia elettrica, g) i valori indicati nelle tabelle di stima utilizzate dagli Uffici finanziari per gli accertamenti di valore.
Con il secondo motivo, le ricorrenti deducono la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., osservando che, ai fini della determinazione del valore venale delle aree occupate, la Corte territoriale si è limitata all’applicazione di un astratto principio, attenendosi conseguentemente al valore agricolo medio ed ignorando le caratteristiche concrete del suolo.
Con il terzo motivo, le ricorrente lamentano, in via subordinata, la violazione o la falsa applicazione dell’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, dell’art. 5bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, degli artt. 15, 16, quinto e sesto comma, e 20 della legge n. 865 del 1971 e dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, sostenendo che la liquidazione del danno in misura pari al valore agricolo medio si è tradotta nel riconoscimento di un importo
irrisorio, in contrasto con i principi costituzionali e con la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte EDU, in virtù dei quali l’indennizzo deve consistere in una somma ragionevolmente correlata al valore venale dell’immobile, desumibile dalle sue caratteristiche e dal suo potenziale sfruttamento economico, con la conseguenza che, anche quando si tratti di un’area agricola, deve attribuirsi allo stesso una valutazione di mercato che rispecchi la possibilità di utilizzazione intermedie tra quello agricolo e quello edificatorio.
A sostegno della proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380bis cod. proc. civ., il Consigliere delegato ha rilevato, l’inammissibilità del primo e del terzo motivo e la manifesta infondatezza del secondo.
In ordine al primo motivo, ha osservato che «non esiste alcun fatto storico, tantomeno decisivo, discusso tra le parti che non sia stato esaminato dalla Corte di appello.
Il vizio di omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, poiché tale mezzo presuppone l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 2195 del 2022; Cass. n. 595 del 2022; Cass. n. 395 del 2021; Cass., SU, n. 16303 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015), sicché sono inammissibili le censure che irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. n. 2195 del 2022; Cass. n. 595 del 2022; Cass. n. 4477 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).
Inoltre: i) non costituiscono, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014); ii) il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere “decisivo”, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Tale decisività, in quanto correlata all’interesse all’impugnazione, si addice innanzitutto a quel fatto che, se scrutinato,
avrebbe condotto il giudice ad una decisione favorevole al ricorrente, rimasto soccombente nel giudizio di merito. Poiché l’attributo si riferisce al “fatto” in sé, la “decisività” afferisce, inoltre, al nesso di causalità tra la circostanza non esaminata e la decisione: essa deve, cioè, apparire tale che, se presa in considerazione, avrebbe portato con certezza il giudice del merito ad una diversa ricostruzione della fattispecie (non bastando, invece, la prognosi che il fatto non esaminato avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione diversa: si vedano già Cass. n. 22979 del 2004; Cass. n. 3668 del 2013; la prognosi in termini di “certezza” della decisione diversa è richiesta, ad esempio, da Cass., SU, n. 3670 del 2015); iii) lo stesso deve essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto “controverso”, contestato, non dato per pacifico tra le parti; iv) la parte ricorrente deve indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ. e 369, comma 2, n. 4), cod. proc. civ. il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).
La valutazione espressa dal Consulente, oggetto della denunciata pretermissione, è del tutto generica e non riferita al terreno in questione ma ad altri immobili abusivi, neppure individuati, asseritamente sanati con provvedimenti di condono edilizio; essa non solo non è decisiva, ma del tutto irrilevante, oltre che giuridicamente infondata.
La giurisprudenza di questa Corte è assolutamente costante.
In tema di determinazione dell’indennità di esproprio, l’art. 5 bis , comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, conv., con modif., dalla l. n. 359 del 1992 (ora recepito negli artt. 32 e 37 del d.P.R. n. 327 del 2001), ha prescelto, quale unico criterio per individuare la destinazione urbanistica del terreno espropriato, quello dell’edificabilità legale, sicché un’area va ritenuta edificabile solo ove risulti classificata come tale dagli strumenti urbanistici vigenti al momento della vicenda ablativa, e non anche quando la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità ecc.), che comporta un vincolo di destinazione
preclusivo ai privati di tutte le forme di trasformazione del suolo riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, quale estrinsecazione dello ” ius aedificandi ” connesso con il diritto di proprietà ovvero con l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area, come tali, soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia. Ne consegue l’esclusione della natura edificatoria di un suolo che, nel relativo piano regolatore, ricada in destinata a servizi ospedalieri-parcheggio. (Cass., Sez. I, n. 13172 del 24/06/2016).
In tema di espropriazione per pubblica utilità, ai fini della quantificazione dell’indennità di esproprio rileva l’edificabilità legale dell’area ablata all’epoca dell’adozione del relativo decreto, secondo gli strumenti urbanistici già in essere, non potendosi tener conto dell'”aspettativa” di edificabilità futura di un terreno attualmente agricolo in ragione dell’evoluzione degli strumenti anzidetti (Cass., Sez. I, n. 4228 del 17/02/2021) La Corte di appello, inoltre, ha ampiamente motivato in ordine alla necessità di considerare l’effettiva destinazione urbanistica ed edilizia del terreno nel momento rilevante per la valutazione, tra l’altro senza dirsi vincolata dalla cassazione disposta per vizio motivazionale».
In ordine al secondo motivo, il Consigliere delegato ha rilevato che «la sentenza impugnata ha fatto conseguire all’enunciazione corretta dei principi generali, in punto necessità del riferimento alla classificazione urbanistica dei suoli e al criterio di edificabilità legale, la loro concreta applicazione al caso concreto, in ragione dell’accertata vocazione agricola dei terreni in questione».
In ordine al terzo motivo, ha affermato che «la doglianza è del tutto generica e si risolve in una recriminazione del tutto riversata nel merito di contestazione del valore dei terreni in relazione alla loro accertata destinazione agricola».
Nel sollecitare la decisione del ricorso, le ricorrenti si sono riportate alle censure proposte, ribadendo in particolare che l’ordinanza di cassazione non precludeva al Giudice di rinvio l’accertamento della natura agricola o edificatoria del terreno, avendo annullato la sentenza di appello sulla base di censure riguardanti esclusivamente l’ iter argomentativo, fondato sulla ricon-
duzione della natura edificatoria delle aree occupate alla sola diffusa abusività edilizia dei terreni circostanti, peraltro oggetto di procedure di sanatoria già definite.
6. In proposito, va richiamato il principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l’una e per l’altra ragione: nella prima ipotesi, il giudice di rinvio è tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; nella seconda ipotesi, il giudice non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, tenendo conto, peraltro, delle preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza ipotesi, la potestas iudicandi del giudice di rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione sia consentita in base alle direttive impartite dalla Corte di cassazione e sempre nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse (Cass. Sez. III, 15/06/2023, n. 17240; Cass., Sez. lav., 24/10/2019, n. 27337). E’ stato altresì precisato che nell’ipotesi di cassazione con rinvio per vizio di motivazione, il giudice di merito conserva tutti i poteri di indagine e di valutazione della prova, potendo compiere anche ulteriori accertamenti giustificati dalla sentenza di annullamento e dall’esigenza di colmare le carenze da questa riscontrate, tranne che in ordine ai fatti che la sentenza medesima ha considerato definitivamente accertati, per non essere investiti dall’impugnazione, né in via principale né in via incidentale, e sui quali la pronuncia di annullamento è stata fondata (cfr. Cass., Sez. I, 10/12/2018, n. 31901; Cass., Sez. lav., 23/06/2006, n. 14635).
A tali principi, contrariamente a quanto affermato dalle ricorrenti, si è puntualmente attenuta la Corte territoriale, la quale, preso atto dell’interve-
nuto annullamento della sentenza di appello in accoglimento del primo motivo del ricorso per cassazione, con cui era stata dedotta «un’anomalia motivazionale consistente nel fatto che, sebbene l’area interessata fosse dagli strumenti urbanistici classificata come area a destinazione agricola», era stata considerata «dirimente ai fini della stima la circostanza che l’area fosse stata interessata da un ingente abusivismo edilizio che ne aveva indotto di fatto la trasformazione da area agricola ad area edificatoria», ha proceduto ad un nuovo accertamento in ordine al pregiudizio subìto dagli attori, nell’ambito del quale, conformemente ai principi richiamati dalla proposta di definizione, ha correttamente conferito rilievo esclusivo alla classificazione urbanistica dei fondi occupati, risultante dal piano di fabbricazione vigente all’epoca della proposizione della domanda ed a quella dell’irreversibile trasformazione, rilevandone l’inclusione in zona agricola, ed escludendone conseguentemente l’edificabilità.
E’ pur vero che l’annullamento della sentenza di appello per vizio di motivazione, nella parte in cui aveva attribuito ai fondi occupati una vocazione edificatoria, non imponeva al Giudice di rinvio di pervenire a conclusioni diverse da quelle precedentemente raggiunte, ma solo di procedere a una nuova valutazione, all’esito della quale avrebbe potuto anche ribadire il convincimento espresso in precedenza, sulla base di una più adeguata motivazione, che tenesse conto dei medesimi fatti accertati dalla sentenza di appello ed eventualmente di altri fatti accertati nel giudizio di rinvio: ciò non esclude peraltro che il Giudice di rinvio potesse e dovesse conformare il proprio apprezzamento a corretti principi di diritto, quali quelli che, in tema di risarcimento del danno da occupazione appropriativa, attribuiscono, nella liquidazione del danno, un rilievo preminente alla c.d. edificabilità legale, emergente dagli strumenti urbanistici, riconoscendo alla c.d. edificabilità di fatto, derivante dalle caratteristiche oggettive del fondo (ubicazione, morfologia, accessibilità, sviluppo edilizio in atto nella zona, rapporto con le aree limitrofe, esistenza e utilizzabilità di impianti di servizi pubblici essenziali e di infrastrutture necessarie alla vita della comunità) un ruolo meramente suppletivo o integrativo, che ne circoscrive l’utilizzazione esclusivamente alle ipotesi in cui manchi una classificazione urbanistica o ai fini della determinazione in con-
creto del valore di mercato delle aree legalmente edificabili.
Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
La conformità della decisione alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380bis , primo comma, cod. proc. civ. comporta l’applicazione delle conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 96, terzo e quarto comma, cod. proc. civ., richiamato dall’ultimo comma dell’art. 380bis cit.: tale disposizione, che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., codifica infatti un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi a una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (cfr. Cass., Sez. Un., 13/10/2023, n. 28540; 27/09/2023, n. 27433).
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Condanna le ricorrenti al pagamento della somma di Euro 2.500,00 in favore del controricorrente e di una ulteriore somma di Euro 2.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma l’8/01/2025