Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 11848 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 11848 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 02/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 36004/2018 r.g. proposto da:
Comune di Atripalda, in persona del sindaco e legale rappresentante p.t., NOME COGNOME, rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta a margine del ricorso, dall’AVV_NOTAIO, in sostituzione dell’AVV_NOTAIO, rinunziatario, con cui elettivamente domicilia in Roma, INDIRIZZO.
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentate e difese dall’AVV_NOTAIO, giusta procura speciale allegata,
elettivamente domiciliate in INDIRIZZO INDIRIZZO, presso il signor NOME COGNOME
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli n. 4266/2018, depositata in data 24 settembre 2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/2/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOMEAVV_NOTAIO;
RILEVATO CHE:
1.Le signore NOME COGNOME e NOME COGNOME si opponevano alla stima effettuata dal Comune di Atripalda con riferimento a due terreni oggetto di espropriazione: particella n. 839 di mq 8711, poi frazionata nelle particelle 1301 e 1303, pacificamente inserita nella zona omogenea F3, attrezzature annonarie centrali; particella 196, di mq 4902, inserita, in parte, in attrezzature annonarie centrali (ma come si vedrà successivamente dai certificati urbanistici la particella 196, risultava inserita in parte in ‘parcheggi’, in altra in ‘porzione in viabilità’, ed ancora in zona ‘E2 – agricola di rispetto stradale e cimiteriale, rispetto dei corsi d’acqua’).
Il Comune aveva offerta loro l’indennità di lire 31.500 per l’area edificabile relativa alla particella n. 839 di mq 8711, e lire 22.180 per l’area agricola relativa alla particella n. 196 di mq 4902.
La Corte d’appello di Napoli, sulla scorta della CTU espletata dall’AVV_NOTAIO. NOME, con sentenza n. 339/2000, depositata il 21 febbraio 2000, reputava che la particella n. 196, di mq 4902, ricadeva in zona parcheggi e viabilità (con la conseguente sua natura agricola), con un valore di lire 19.600 al metro quadrato, mentre la particella n.
839 – ora frazionata nelle particelle 1301, di mq 7244, e in quella n. 1303, di mq 1427 – si trovava nella zona attrezzature annonarie centrali, F3, pur essendo stata già decurtata di mq 555, per rete fognaria idrica. Il CTU determinava l’indennizzo, per occupazione legittima, nella somma complessiva di lire 313.834.200, pari ad euro 162.092,16, ma la Corte respingeva la domanda in quanto i valori emersi erano persino inferiori a quelli indicati dal Comune (poiché la Corte di appello non seguiva il criterio del CTU, che aveva fatto la media tra le due modalità di determinazione: analitica e sintetico comparativa, ma aveva recepito esclusivamente il metodo sintetico comparativo).
Non veniva poi accolta la domanda relativa all’indennizzo espropriativo, in quanto era stata determinata l’indennità di esproprio e di occupazione esclusivamente in via provvisoria, con provvedimento del 30 luglio 1996, mentre il provvedimento di esproprio era stato emesso successivamente in data 28 giugno 2000.
Pertanto, l’occupazione legittima era stata computata esclusivamente per il periodo di tempo 24/7/1995 (data di immissione in possesso) -24/3/1996, nella misura di 1/12 dell’indennità di espropriazione.
La Corte di cassazione con sentenza depositata l’11 luglio 2003, n. 10913, rigettava il ricorso principale proposto dalle signore NOME, come pure quello incidentale proposto dal Comune solo per la liquidazione delle spese.
Questa Corte osservava, per quel che ancora qui rileva, che, in realtà, la particella n. 196, per metri quadri 4902, aveva natura agricola, evidenziando che «riguardo, poi, alla particella 196, ovvero all’altro fondo di proprietà delle COGNOME esteso mq 4902, la stessa Corte ha affermato che tale ‘suolo…di per sé era da considerare in zona agricola priva di mercato e che il CTU ha…proceduto alla
determinazione del relativo valore di mercato considerando la destinazione ‘a parcheggio a raso a servizio del centro polivalente’».
Con riferimento, poi, alla particella n. 839 mq 8711, questa Corte confermava la legittimità dell’utilizzo del metodo sinteticocomparativo, sempre con riferimento alla sola occupazione legittima, per il periodo 24/7/1995-24/3/1996.
4.Dopo l’emissione del decreto di espropriazione n. 32 del 28 giugno 2000, con cui si è proceduto alla ablazione della particella 4902 e di quelle di cui ai nn. 1303 (mq 1427) e 1301 (mq 7264), provenienti dalla precedente particella 839, le attrici COGNOME promuovevano giudizio di opposizione alla stima dinanzi alla Corte d’appello, per determinare le indennità loro spettanti per l’intero periodo dell’occupazione legittima, quindi dal 25 marzo 1996 al 27 giugno 2000, e per l’indennità espropriativa.
Espletata una nuova CTU da parte dell’AVV_NOTAIO COGNOME, i valori venivano indicati per la particella n. 839, nella somma di euro 80,00 al m², e per la particella n. 196 nella somma di euro 40,00 al m².
Nel corso del giudizio, il Comune sollevava l’eccezione di giudicato esterno, con riferimento alla natura agricola della particella n. 196, come acclarato dalla sentenza della Corte di cassazione n. 10913 del 2003.
5. La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 1015, depositata il 17 marzo 2008, accoglieva l’eccezione di giudicato esterno, dichiarando inammissibile l’opposizione alla stima relativa all’indennità di occupazione; quanto all’indennità di espropriazione la Corte territoriale evidenziava che non poteva prescindersi dei valori accertati nel precedente giudizio, anche se relativi alla sola indennità di occupazione, sulla base del rapporto di pregiudizialità esistente tra le due domande. Tale giudicato, circa il valore dei terreni, si era però formato unicamente in relazione «al periodo
considerato ai fini dell’indennità di occupazione, ragion per cui doveva tenersi conto delle sopravvenienze successive», e quindi dell’incremento medio di valore nel periodo intermedio.
Determinava, allora un’indennità di espropriazione pari ad euro 116.745,31 per il terreno di mq 8711 e ad euro 51.456,22 per quello esteso per mq 4902.
6. Questa Corte, con la sentenza depositata il 21 settembre 2015, n. 18556, reputava che non si era formato alcun giudicato, né in ordine alla indennità di espropriazione, in quanto il precedente giudizio era terminato con la pronuncia di inammissibilità della domanda, per assenza del decreto di espropriazione, né in ordine alla indennità da occupazione legittima, in quanto il precedente giudizio verteva esclusivamente sul periodo 27/7/1995-24/3/1996.
Affermava dunque questa Corte che «la statuizione del precedente giudizio contemplasse unicamente tale durata dell’occupazione , senza incidere, neanche implicitamente, sul periodo successivo» e che «il precedente giudicato, quanto all’indennità di occupazione, riguardi esclusivamente il periodo compreso tra il 27 luglio 1995 e 24 marzo 1996».
Proseguiva la Corte nel senso che «’insussistenza di preclusioni riguarda anche l’ammontare dell’indennità di occupazione concernente il periodo residuo, da calcolarsi sulla base dell’indennità di espropriazione, che, come si vedrà, dovrà essere determinata da parte del giudice del rinvio».
Aggiungeva che il momento dell’emanazione del decreto di espropriazione, del 28 giugno 2000, costituiva il dato di riferimento, dal punto di vista logico e cronologico, per la ricognizione giuridica delle aree espropriate.
7. La Corte d’appello di Napoli con sentenza n. 4266/2018, depositata il 24 settembre 2018, seguendo le conclusioni del secondo CTU, AVV_NOTAIO, per quel che ancora qui rileva, considerava le due particelle n. 839, per metri quadri 8711, e n. 196, per mq 4902, come un unicum , interamente edificabile, in ragione della sussidiarietà e complementarità dei due lotti, separati dalla strada pubblica.
Dopo aver ristretto il campo di indagine al periodo ricompreso tra il 25 marzo 1996 (dopo la scadenza del termine della occupazione legittima) e il 27 giugno 2000 (il giorno prima della data del decreto di espropriazione), condivideva il ragionamento del CTU classificando, pacificamente, la particella 839 (ora numeri 1301 e 1303) nella zona omogenea F3/3, destinata ad attrezzature annonarie centrali, ed inserendo la particella n. 196, in parte, in parcheggi e viabilità, ed in parte, anch’essa, in zona F (attrezzature annonarie centrali), senza tener conto in alcun modo dei certificati urbanistici che inserivano tale particella anche in zona E2, di rispetto stradale e cimiteriale, oltre che di corsi d’acqua.
Il CTU, peraltro, aveva proceduto con stima analitica, in assenza di elementi di comparazione, ad esclusione della vendita della «Proprietà ex Francavilla», oggetto di asta in data 7 dicembre 1996; tale ultimo dato era stato utilizzato esclusivamente per la verifica dei risultati ottenuti attraverso il procedimento analitico.
Sempre con riferimento a ciò che ancora qui rileva, per giungere alla determinazione del prezzo a metro quadrato, poi determinato in euro 84,60, il CTU, seguito nel ragionamento dalla Corte d’appello, muove dalla possibilità di realizzare sui terreni un solo livello del corpo di fabbrica con la superficie coperta, pari al 20%; di qui la superficie coperta pari a mq 2718,60 (13.593 X 20 %). La restante consistenza superficiaria, estesa per mq 10.874,40 (13.593 –
2718,60), doveva essere considerata proprio per l’unitarietà del complesso, con una superficie complessiva edificabile pari a 3806,04, di cui mq 2718,60 quale superficie coperta edificabile, e mq 1087,46 (pari al 10% di mq 10.874,40), quale superficie destinata a piazzale di servizio per la movimentazione delle merci, parcheggi ed altre aree pertinenziale.
Il valore complessivo delle due particelle era dunque pari ad euro 84,60 m² X 13.613, e quindi di euro 1.151.659,00, arrotondato ad euro 1.150.000,00.
Tale valore è stato poi messo a confronto con l’unico dato storico rappresentato dalla vendita all’asta dell’ex proprietà Francavilla, in cui il valore al metro quadro era di euro 85,92, dopo una serie di riduzioni per coefficienti ponderali (0,781 – tipologia edilizia – ,0,59 – valori mercantili – e 0,722 -potenzialità edificatoria -).
Pertanto, il valore stimato all’epoca del decreto di esproprio del 28 giugno 2000 era proprio quello di euro 1.150.000,00.
Una volta determinato il valore del bene, si era proceduto al calcolo dell’indennità di occupazione, pari ad 1/12, del valore di mercato, in relazione ai vari periodi di occupazione legittima, per la somma complessiva di euro 233.432,60.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Comune, depositando anche memoria scritta.
Hanno resistito con controricorso le signore NOME, depositando anche memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il Comune ricorrente deduce la «violazione degli articoli 32 e 37 del d.P.R. n. 327/2001. Violazione dell’art. 5bis della legge n. 359 del 1992 e degli articoli 39 e 40 della legge n. 2359 del 1865. Violazione dei principi generali sulla qualificazione urbanistica delle aree a fini indennitari e
sull’edificabilità legale delle aree espropriate. Violazione dei principi generali sulla destinazione ad utilizzo pubblicistico delle aree ricadenti in zona omogenea F e destinate ad attrezzature pubbliche, viabilità e parcheggi. Violazione degli articoli 2 seguenti del D.M. 2/4/1968 n. 1444 in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.».
In realtà, per il ricorrente, contrariamente a quanto affermato dal giudice di merito, vi sarebbe stata assoluta inedificabilità legale di entrambe le particelle.
Soprattutto, in relazione alla particella 196, di mq 4902, essa ricadeva, per una parte, in «zona attrezzature pubbliche di zona», con destinazione a «parcheggi», e per l’altra, in zona omogenea E2, con destinazione «agricola di rispetto stradale cimiteriale». Inoltre, la particella 196 ricadeva anche in «fascia di rispetto dei corsi di acqua», per ragioni di sicurezza idraulica, oltre che in fascia di rispetto paesaggistico del torrente Ischito/Fenestrelle, ed anche in fascia di rispetto cimiteriale, come emergeva dalla prima relazione del primo CTU AVV_NOTAIO COGNOME, e dalla relazione del secondo CTU AVV_NOTAIO COGNOME, nominato nel giudizio ex art. 392 c.p.c.. Ciò sarebbe emerso anche dai «certificati di destinazione urbanistica emessi in data 10/5/2004 ed in data 9/2/2016 ed allegati sia alle dette relazioni di consulenza tecnico d’ufficio sia al presente ricorso ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c.».
Sarebbe incorso in errore, allora, il terzo CTU, AVV_NOTAIO, il quale non ha tenuto conto, come pure la Corte d’appello, che «la particella 196 ricade, anche, in fascia di rispetto idraulico, paesaggistico/fluviale, cimiteriale e stradale».
Avrebbe errato allora la Corte d’appello ad affermare che il terreno, per l’intera sua estensione, aveva natura legalmente edificabile. Il giudice del rinvio non ha tenuto in alcun modo conto
«dei certificati attestanti l’esatta destinazione urbanistica dell’area espropriata ed il fatto della sua natura non legalmente edificabile».
Del resto, per giurisprudenza di legittimità le possibilità legali di edificazione vanno escluse tutte le volte in cui, per lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui deve compiersi la ricognizione legale, la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità), non valendo neppure la circostanza secondo cui la natura edificatoria deriverebbe dal fatto che gli interventi previsti in sede di pianificazione territoriale avrebbero potuto essere realizzati anche da privati.
2. Con il secondo motivo di impugnazione il Comune ricorrente lamenta la «violazione degli articoli 32 e 37 del d.P.R. n. 327 del 2001. Violazione dell’art. 5-bis della legge n. 359 del 1992 e degli articoli 39 e 40 della legge n. 2359 del 1865. Violazione dei principi generali sulla qualificazione urbanistica delle aree edificabili e sull’edificabilità legale ai fini di espropriazione per p.u. Violazione dell’art. 96 del regio decreto n. 523 del 1904 e della legge regionale Campania n. 14 del 1982. Violazione dell’art. 1, lettera c), della legge n. 431 del 1985. Violazione dell’art. 338 del regio decreto n. 1265 del 1934 e della legge regionale Campania n. 14 del 1982. Violazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 285 del 1992 e degli articoli 26,27 e 28 del d.P.R. n. 495 del 1992. Violazione dei principi generali in tema di vincoli di inedificabilità assoluta in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.». In realtà, l’area espropriata di proprietà COGNOME, di cui alla particella 196, di mq 4902, era gravata anche dai vincoli di inedificabilità assoluta di seguito riportati: fascia di rispetto paesaggistico del torrente Ischito/Fenestrelle, di cui all’art. 1, lettera c), della legge n. 431 del 1985; fascia di rispetto per ragioni di sicurezza idraulica, di cui all’art. 96 del regio decreto n. 523 del 1904 ed alla legge
regionale Campania n. 14 del 1982; fascia di rispetto cimiteriale ex art. 338 del regio decreto n. 1265 del 1934 e legge regionale Campania n. 16 del 1982; fascia di rispetto stradale, di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 285 del 1992 ed agli articoli 26,27 e 28 del d.P.R. n. 495 del 1992.
Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della «violazione dell’art. 392 c.p.c. Violazione dell’art. 2909 c.c. Violazione del giudicato esterno di cui alla sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 339 del 2000 ed alla sentenza della Corte suprema di cassazione n. 10913 del 2003, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.».
Si sarebbe formato, dunque, il giudicato esterno, relativamente alla particella 196 di mq 4902, trattandosi di «zona agricola priva di mercato», come affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 10913 del 2003.
Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce «l’omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione fra le parti costituito dall’inedificabilità legale dell’area espropriata in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.».
Il giudice d’appello si sarebbe acriticamente rimesso alle valutazioni di carattere tecnico-giuridico del terzo CTU, AVV_NOTAIO, omettendo l’esame autonomo dei certificati di destinazione urbanistica versati negli atti del giudizio, allegati anche ricorso per cassazione, oltre che della relazione illustrativa del PRG del Comune di Atripalda, nella parte relativa alla disciplina della zona omogenea F. Il giudice d’appello avrebbe omesso di rilevare i vincoli assoluti di inedificabilità, gravanti sulla particella 196, che escludono ogni relativa possibilità legale di edificazione.
Con il quinto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta «gradatamente, violazione dei principi generali sui criteri di
determinazione del valore venale di un’area edificabile mediante il criterio analitico-comparativo, in ragione dell’errato computo della superficie coperta asseritamente generata dall’area espropriata in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.».
Il CTU e, quindi, la Corte d’appello che ha seguito tale impostazione, hanno determinato l’indennità di espropriazione e di occupazione legittima sulla scorta del valore unitario dell’intera area, facendo riferimento al criterio del valore di trasformazione applicato alla misura della superficie coperta, ivi comprendendo anche l’area non edificabile.
Tale determinazione è scaturita dall’errato presupposto che i mq 8711 ricadenti in zona omogenea F fossero legalmente edificabili. Il CTU ha calcolato la superficie coperta in mq 3806,07, ottenuti applicando alla superficie coperta di mq 2712, a sua volta computata applicando l’indice di copertura del 20% sull’intera area ablata di mq 13.593 (e, quindi, anche sulla superficie di mq 4902 che, invece, non era destinata all’edificazione ma parcheggi e viabilità), di un ulteriore 10% (questa volta riferita la superficie di mq 10.874, relativa alle aree esterne pertinenziali in realtà già computate nei mq 13.593); con ciò provocando un indebito e rilevantissimo incremento della misura della superficie coperta, fino a metri quadri 3806,04. In realtà era stato lo stesso CTU AVV_NOTAIO ad evidenziare che la superficie coperta, asseritamente generata dall’area di mq 8711, non poteva essere superiore a mq 1742,20, ossia al 20% di mq 8711.
In realtà, tale determinazione era eccessiva perché: non riferita alla sola superficie ricadente in zona omogenea F. 3.3; generata dalla duplicazione del computo della superficie coperta, computata per tutti i mq 13.593 espropriati, con l’ulteriore valore pari al 10% della superficie scoperta pertinenziale di mq 10.874,40.
Con il sesto motivo di impugnazione si deduce la «violazione dell’art. 392 c.p.c. Violazione dell’art. 2909 c.c. Violazione del giudicato esterno di cui alla sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 339 del 2000 ed alla sentenza della Corte suprema di cassazione n. 10913 del 2003 in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.».
La Corte d’appello di Napoli aveva dichiarato inammissibile l’opposizione alla stima per l’indennità di esproprio, in quanto la domanda era stata proposta prima del decreto di espropriazione definitivo, ed aveva respinto l’opposizione alla stima per indennità di occupazione legittima, ritenendo che il valore unitario, calcolato dal Comune, fosse maggiore di quello stimato dal CTU. Il ricorso per cassazione presentato dalle signore NOME era stato rigettato con sentenza n. 10913 del 2003 con la precisazione, quanto alla particella 196 di metri quadri 4902, che la stessa si trovava in una «zona agricola priva di mercato».
Il valore dell’area attribuito dalla Corte d’appello di Napoli con la sentenza n. 339 del 2000, passata in giudicato, era di euro 162.092,16, mentre la stessa Corte d’appello di Napoli con la sentenza impugnata, ha rideterminato il valore in euro 1.115.500,00.
Vanno affrontati preliminarmente, per ragioni logiche e giuridiche, le eccezioni di violazione del giudicato esterno di cui all’art. 2909 c.c., con riferimento ai motivi di impugnazione terzo e sesto.
I motivi sono infondati.
8.1. In realtà, come visto, la Corte d’appello di Napoli, con la sentenza n. 339 del 2000, ha effettivamente rigettato entrambe le domande presentate dalle signore NOME.
La richiesta di indennizzo per espropriazione è stata ritenuta inammissibile, in sede di giudizio di opposizione alla stima, in quanto
nel periodo in contestazione, 24/7/1995- 24/3/1996, non era ancora stato emesso il decreto di espropriazione, che vedrà alla luce soltanto il 28 giugno 2000.
La richiesta di indennizzo per occupazione legittima, per il periodo 24/7/95-24/3/96, è stata rigettata, in quanto il valore determinato dal CTU è risultato inferiore a quello indicato dal Comune per le due particelle.
La Corte di cassazione, con sentenza n. 10913 del 2003 ha rigettato il ricorso delle signore COGNOME, provocando il giudicato.
8.2. Tuttavia, il perimetro di tale giudicato è stato definito in modo chiaro dalla successiva sentenza della Corte di cassazione n. 18556 del 2015.
E infatti, la Corte d’appello di Napoli con sentenza n. 105 del 17/3/2008 aveva accolto l’eccezione di giudicato sollevata dal Comune, in quanto i valori dell’indennizzo dovevano essere quelli del precedente giudizio, intercorso tra le stesse parti, essendovi pregiudizialità tra la determinazione dell’identità di espropriazione e la conseguente individuazione dell’indennità da occupazione legittima, pari a 1/12 dell’indennità di espropriazione.
La Corte di cassazione, invece, con la sentenza 21 settembre 2015, n. 18556, ha travolto la pronuncia del giudice di merito, reputando insussistente il giudicato dedotto dal Comune, valendo la determinazione dell’indennità di occupazione legittima, pari a 1/12 dell’indennità di espropriazione, esclusivamente per il periodo di tempo che intercorreva tra il 24/7/95 e del 24/3/96.
Si legge, in modo limpido, nella sentenza n.18556 del 2015 che «poiché l’indennità di occupazione depositata si riferiva al periodo conclusosi nel marzo del 1996, deve ritenersi che la statuizione del precedente giudizio contemplasse unicamente tale durata dell’occupazione, senza incidere, neanche implicitamente, sul
periodo successivo». Con la precisazione che «eve pertanto ritenersi, considerata anche la frazionabilità del credito inerente all’indennità di occupazione, avuto riguardo alla sua riferibilità a periodi di tempo di per sé suscettibili di valutazione autonoma che il precedente giudicato, quanto all’indennità di occupazione, riguarda esclusivamente il periodo compreso tra il 27 luglio 1995 e il 24 marzo 1996».
Scendendo ancora più nel dettaglio questa Corte ha ritenuto, con la sentenza sopra indicata, che «l’insussistenza di preclusioni riguarda anche l’ammontare dell’indennità di occupazione concernente il periodo residuo, da calcolarsi sulla base dell’indennità di espropriazione, che, come si vedrà, dovrà essere determinata da parte del giudice del rinvio».
Quanto all’indennità di esproprio, non si è formato alcun giudicato sostanziale, avendo la Corte d’appello, con la sentenza n. 339 del 2000, poi confermata dalla sentenza di questa Corte n. 10913 del 2003, dichiarato inammissibile l’opposizione alla stima, poiché proposta prima dell’adozione del decreto di espropriazione, emesso il 27 giugno 2000.
I motivi primo, secondo e quarto, che vanno esaminati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono fondati.
9.1. Anzitutto, si rileva che non v’è assoluta novità del thema decidendum all’interno dei motivi di ricorso per cassazione.
Si rammenta che deve tenersi conto della peculiare natura del processo di opposizione alla stima.
Si è ritenuto, infatti, che, in materia di espropriazione per pubblica utilità, il principio per cui il giudizio di opposizione alla stima dell’indennità non si configura come un giudizio di impugnazione dell’atto amministrativo ma introduce un ordinario giudizio sul rapporto, che non si esaurisce nel mero controllo delle
determinazioni adottate in sede amministrativa, ma è diretto a stabilire il ” quantum ” dell’indennità, effettivamente dovuto, nel quale il giudice compie la valutazione in piena autonomia, va coordinato con quello della domanda, per cui, in presenza di stima definitiva, il giudizio di opposizione può concludersi con una statuizione più favorevole all’opponente, ma non può determinare un importo minore, a meno che non vi sia domanda in tal senso da parte dell’espropriante, il quale, ove convenuto nel giudizio, deve osservare le forme e i termini della domanda riconvenzionale, in quanto aziona una contropretesa che va oltre il rigetto della domanda principale (Cass., sez. 1, 28 febbraio 2006, n. 4388; Cass., sez. 1, 13 gennaio 2011, n. 716).
Nella specie, il Comune di Atripalda sin dal primo ricorso presentato dalle signore NOME ha eccepito la natura agricola della particella n. 196 di mq 4902, tanto che la Corte di cassazione con la sentenza n. 10913 del 2003, con riferimento al limitato periodo dal 24/7/95 al 24/3/96, ha rigettato il ricorso presentato dalle signore NOME avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 339 del 2000, depositata il 21 febbraio 2000, che aveva ritenuto la natura agricola della particella n. 196.
9.2. Non v’è dubbio che la sentenza della Corte d’appello n. 4266 del 2018, depositata il 24 settembre 2018, non ha tenuto conto dei certificati di destinazione urbanistica emessi in data 10 maggio 2004 ed in data 9 febbraio 2016.
La Corte d’appello, quindi, ha seguito pedissequamente le risultanze del terzo CTU, AVV_NOTAIO, reputando la particella 196, di mq 4902, unitariamente alla particella 839, poi frazionata nelle particelle 1301 e 1303, considerando il complesso come un unicum , caratterizzato dai requisiti della sussidiarietà e complementarietà dei due lotti, divisi dalla strada pubblica, senza peraltro tenere in alcun
conto i certificati di destinazione urbanistica riprodotti nel ricorso, in adempimento del dovere di autosufficienza.
9.3. Orbene, questa Corte ha più volte affermato – ed a tale indirizzo si intende dare seguito in questa sede – che l’omesso esame di documenti, dai quali possano trarsi – come nella specie – risultanze decisive per la risoluzione della controversia -si traduce in un difetto assoluto di motivazione, denunciabile ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. 16812/2018; Cass. 19150/2016).
9.3.1. Tanto premesso, con riferimento alla particella n. 839, dalle risultanze istruttorie sottoposte alla Corte d’appello, riprodotte nel ricorso, si evince che essa era inserita nella zona F/3, destinata alla realizzazione di un «mercato generale», con una parte «destinata a parcheggio», con la generica indicazione «senza preclusione all’iniziativa privata», da intendersi – però – con riferimento alla destinazione a mercato e parcheggio, che possono essere gestiti anche da privati, ma non certo- come ritenuto dalla Corte territoriale – con riferimento ad una ipotetica destinazione all’iniziativa privata.
Del resto, la stima deve essere effettuata applicando il criterio generale del valore venale pieno, con la possibilità di dimostrare che il fondo, pur senza raggiungere il livello della edificatorietà, sia suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso rispetto a quello agricolo, tale da attribuire allo stesso una valutazione di mercato che rispecchi la possibilità di utilizzazione intermedie tra quella agricola e quella edificatoria (Cass., Sez.Un., n. 7454 del 2020, come, appunto, parcheggi, depositi, mercati, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti; cfr. anche Cass., sez. 1, 6 marzo 2019, n. 6527; Cass., sez. 1, 4 ottobre 2023, n. 27960), sempre che tali possibilità siano assentite dalla normativa vigente, sia pure con il conseguimento delle opportune autorizzazioni amministrative
9.4. Con riguardo, poi, alla particella n. 196, il giudice di merito si è limitato ad assecondare quanto riferito dal terzo CTU, AVV_NOTAIO, per il quale detta particella era edificabile.
Tuttavia, la Corte d’appello, come pure il terzo CTU, AVV_NOTAIO, non tengono conto dei certificati urbanistici allegati alle CTU espletate nei vari gradi di giudizio, depositate anche in cassazione, all’interno del ‘fascicoletto’, di cui all’art. 369 c.p.c.
In particolare, il giudice d’appello non ha tenuto conto del certificato di destinazione urbanistica del 10 maggio 2004, ove si legge che «la particella 196 ricadeva nella zona omogenea ‘attrezzature pubblica di zone’ con la destinazione ‘parcheggi’ ‘viabilità’ ed in parte nella zona omogenea ‘E 2’ con la destinazione ‘attrezzature annonarie centrali’ avente i seguenti indici» «La particella 196 ricade in parte nella zona omogenea ‘Et’ con destinazione ‘verde periurbano a tutela’ disciplinata dall’art. 28 delle norme di attuazione, di cui all’allegato stralcio ed in parte e destinata a ‘parcheggio’».
Il giudice di merito non ha tenuto conto neppure del certificato di destinazione urbanistica del 9 febbraio 2016, il cui contenuto è riportato nel ricorso per cassazione, con allegazione anche del provvedimento nella versione integrale, sia nelle CTU depositate, sia nel ricorso per cassazione all’interno del ‘fascicoletto’.
Si legge in tale documento che «la maggiore consistenza della particella 196 ricade nella zona omogenea ‘Et’ con destinazione a ‘verde periurbano a tutela’ disciplinata dall’art. 28 delle norme di attuazione di cui all’allegato stralcio; che la restante parte della particella 196 ricade nella zona omogenea ‘standard urbanistici’ con la destinazione a ‘parcheggio’ disciplinata dall’art. 33 delle norme di attuazione di cui all’allegato stralcio; che la particella 196 ricade nella fascia di rispetto dei corsi d’acqua fissata dal titolo II, punto 1.7,
dell’allegato alla L.R. 14/82, come riportata nelle N.T.A. del vigente PRG art. 34 di cui all’allegato stralcio».
10. Trova applicazione, allora, il principio giurisprudenziale di legittimità per cui le possibilità legali di edificazione vanno escluse tutte le volte in cui, per lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui deve compiersi la ricognizione legale, la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità), in quanto dette classificazioni apportano un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, da intendere come estrinsecazione dello ius aedificandi connesso al diritto di proprietà, ovvero con l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area (Cass. Sez. U., 19 marzo 2020, n. 7454; Cass., 7 marzo 2017, n. 5686; Cass., 10 maggio 2017, n. 11445, Cass., n. 14186 del 2016).
Pertanto, si è affermato che, ove una zona sia stata concretamente destinata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità) la classificazione apporta un vincolo che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, come tali soggette al regime autorizzatorio previsto dalla vigente legislazione edilizia, con la conseguenza che l’area va qualificata come non edificabile, restando irrilevante la circostanza che la destinazione richieda la realizzazione di strutture finalizzate unicamente alla realizzazione dello scopo pubblicistico (Cass., Sez. U., 19 marzo 2020, n. 7454; Cass., 28 settembre 2016, n. 19193; Cass., 24 settembre 2016, n. 13172; Cass., 13 gennaio 2010, n. 404; Cass., 7 settembre 2018, n. 21914).
Si è anche precisato che dette classificazioni pubblicistiche apportano un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte
quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, da intendere come estrinsecazione dello Ius aedificandi connesso al diritto di proprietà, ovvero con l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area (Cass., 19 ottobre 2016, n. 21186; Cass., 21 giugno 2016, n. 12818;).
Pertanto, la distinzione tra suoli edificabili e non edificabili è imposta dalla disciplina urbanistica, in funzione della razionale programmazione del territorio, anche ai fini della conservazione di spazi a beneficio della collettività e della realizzazione dei servizi pubblici. L’inclusione dei suoli nell’uno o nell’altro ambito va effettuata in ragione di un unico criterio descrittivo: quello dell’edificabilità legale, posto dall’art. 5bis , comma 3, della legge n. 359 del 1992, tuttora vigente, e recepito nel T.U. espropriazioni di cui agli articoli 32 e 37 del d.P.R. n. 327 del 2001 (Cass., 21 giugno 2016, n. 12818).
Il sistema di ricognizione e valutazione degli immobili li suddivide in base al binomio edificabilità-non edificabilità, dove questo secondo termine contrassegna tutti i beni cui non possa riconoscersi il parametro dell’edificabilità secondo l’accezione legale del termine, che corrisponde alle prescrizioni della disciplina urbanistica; detto sistema ha prescelto quale unico criterio per individuarne l’appartenenza all’una o all’altra categoria, quello dell’edificabilità legale, riconosciuta cioè direttamente ed esclusivamente dalla legge o, per essa, dagli strumenti urbanistici generali (Cass., 28 settembre 2016, n. 19193).
Tali considerazioni evidenziano, pertanto, come l’impugnata sentenza risulti affetta, sia dal denunciato vizio motivazionale, per omesso esame di documenti essenziali per la decisione, sia nella violazione delle disposizioni normative succitate, in tema di determinazione dell’indennità di esproprio.
11. Il giudice del rinvio dovrà dunque tenere conto sia della circostanza che la particella n. 839 (ora 1301 e 1303) è inserita nella zona F3 destinata alla realizzazione di un «mercato generale», con una parte destinata a parcheggio, sia dei vincoli urbanistici presenti sulla particella n. 196 di metri quadri 4902 (destinata non solo a parcheggi e viabilità, ma anche a «destinazione agricola di rispetto stradale e cimiteriale»), adeguandosi, ove ne riscontri la sussistenza in base alla valutazione dei certificati di destinazione urbanistica presenti in atti, alla giurisprudenza di legittimità che ne ha tratteggiato i confini.
11.1. Quanto alla fascia di rispetto stradale, per questa Corte, in tema di espropriazione per pubblica utilità, il vincolo legislativamente imposto sulle aree site in fascia di rispetto stradale o ferroviario si traduce in un divieto assoluto di edificazione sancito nell’interesse pubblico, sicché, ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio, ed indipendentemente dalle previsioni urbanistiche, non è predicabile la natura edificatoria del terreno ad esso sottoposto, senza che assuma rilievo l’eventuale trasferimento della relativa volumetria su diversi immobili. Tale vincolo, pertanto, pur concretamente applicabile in forza della destinazione di interesse pubblico data al bene sottratto al privato, non arreca alcun deprezzamento del quale debba tenersi conto in sede di determinazione del valore dell’immobile, facendo difetto il nesso di causalità diretto sia con l’ablazione, sia con l’esercizio del pubblico servizio cui l’opera è destinata (Cass., 21 dicembre 2015, n. 25668; anche Cass., 6 giugno 2018, n. 14632).
11.2. In ordine al rispetto delle aree cimiteriali si è più volte ribadito che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, il vincolo imposto sulle aree site in fasce di rispetto cimiteriale (nella specie dall’art. 12, comma 1, punto c della legge prov. Trento n. 6 del 1993,
mod. dalla legge prov. Trento n. 10 del 1998) si traduce in un divieto assoluto di edificazione che rende le aree legalmente inedificabili e che incide direttamente sul valore del bene, senza possibilità di deroga da parte di provvedimenti amministrativi, con la conseguenza che le suddette aree, essendo sprovviste delle “possibilità legali” di edificazione, ai sensi dell’art. 5bis , comma 4, della legge 8 agosto 1992, n. 359, devono essere equiparate a quelle agricole ai fini del calcolo delle indennità di esproprio e di occupazione, secondo il criterio di cui agli artt. 16 e 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, ancora in vigore per i suoli agricoli – nella specie, la RAGIONE_SOCIALE.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva riconosciuto la destinazione edificatoria del terreno solo perché incluso all’interno del piano regolatore industriale, senza preventivamente considerare che tale destinazione era preclusa dalla collocazione del fondo in una area di rispetto cimiteriale -Cass., 22 aprile 2010, n. 9631; anche Cass., 20 dicembre 2016, n. 26326).
Infatti, l’art. 338 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (approvazione del testo unico delle leggi sanitarie), prevede che «i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel Comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge».
Tale disposizione opera indipendentemente dagli strumenti urbanistici ed eventualmente anche in contrasto con gli stessi. In detta fascia di rispetto cimiteriale è vietato sia costruire nuovi edifici sia intervenire su manufatti preesistenti con opere che comportino un’alterazione dei volumi delle superfici.
11.3. In relazione ai vincoli idraulici si richiama il regio decreto 25 luglio 1904, n. 523, art. 96, per il quale «sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difesa i seguenti: f) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline a distanza minore di metri 4 per le piantagioni e lo smovimento del terreno e di metri 10 per le fabbriche e per gli scavi; g) qualunque opera o fatto che possa alterare lo stato, la forma, le dimensioni, la resistenza e la convenienza all’uso, a cui sono destinati gli argini e loro accessori come sopra, e manufatti attinenti».
Si è dunque ritenuto che i divieti di edificazione di cui all’art. 96, lettera f) del regio decreto n. 523 del 1904 hanno carattere assoluto per tutte le acque pubbliche, comprese quelle lacuali, avendo il fine di assicurare il loro libero deflusso (Cass., Sez. U., 14 febbraio 2020, n. 3807; Cass., Sez. U., 28 novembre 2017, n. 28364; Cass., Sez. U., 30 luglio 2009, n. 17784).
Tra l’altro, non è possibile la sanatoria delle opere realizzate in fasce di rispetto stradale o autostradale (Cass., sez. 1, 4 dicembre 2013, n. 27114; Cass., sez. 2, 3 novembre 2010, n. 22422) oppure per l’esistenza del vincolo cimiteriale (Cons. Stato., sez. VI, 10 aprile 2020, n. 2370) o se il fabbricato è realizzato all’interno della fascia di servitù idraulica (Cons. Stato., sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5537; anche Cass., 18 maggio 2022, n. 16074).
Pertanto, avendo il giudice di appello omesso l’esame di documenti rappresentativi di fatti decisivi, è chiaro che ne esce inficiata anche la esatta individuazione della destinazione urbanistica delle due particelle nn. 196 e 839 (quest’ultima poi frazionata nelle particelle nn- 1301 e 1303) come un unicum indistinto. Il
procedimento analitico, dunque, si è fondato sul dato della superficie edificabile di mq. 3804, muovendo dal presupposto della edificabilità di tutta l’area pari a mq. 13593 (NUMERO_TELEFONO).
14.Il quinto motivo è assorbito, in conseguenza dell’accoglimento dei motivi primo, secondo e quarto.
La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, che provvederà anche sulla determinazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
accoglie i motivi primo, secondo e quarto; rigetta i motivi terzo e sesto; dichiara assorbito il quinto motivo; cassa la sentenza impugnata, in ordine ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29 febbraio