Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 4910 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2   Num. 4910  Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 25/02/2025
SENTENZA
sul ricorso 10622-2019 proposto da:
COGNOME  NOME,  rappresentato  e  difeso  dagli  AVV_NOTAIOti  NOME COGNOME e NOME COGNOME e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– ricorrente – contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO INDIRIZZO, nello studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO
– controricorrente –
avverso  la  sentenza  n.  1465/2018  della  CORTE  DI  APPELLO  di BRESCIA, depositata il 21/09/2018;
udita  la  relazione  della  causa  svolta  in  camera  di  consiglio  dal Consigliere COGNOME;
udito  il  Procuratore  Generale,  nella  persona  del  Sostituto  dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 5.12.2012 COGNOME NOME evocava in giudizio COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, invocandone la condanna ad arretrare un pluviale ed una grondaia realizzati a meno di 10 metri dal confine, a rimuovere i comignoli installati sul tetto della sua costruzione e ad arretrare un manufatto sino a 5 metri, o in difetto sino a 3 metri, dal confine, rimuovendo anche la recinzione ad esso connessa. L’attore lamentava che la convenuta avesse realizzato le fabbriche di cui chiedeva la rimozione o l’arretramento in violazione di quanto prescritto dall’atto di divisione a rogito AVV_NOTAIO del 24.10.1963.
La causa non veniva iscritta al ruolo, ma era in seguito riassunta con  apposita  comparsa  ex  art.  125  disp.  att.  c.p.c.  notificata  il 5.4.2013, cui resisteva la convenuta, formulando eccezione riconvenzionale  di  usucapione  del  diritto  di  mantenere  i  manufatti oggetto di causa nella loro attuale collocazione.
Con  sentenza  n.  2416/2015  il  Tribunale  rigettava  la  domanda, ritenendo non individuate le parti dell’edificio di proprietà COGNOME che ne costituivano oggetto ed osservando che l’attore non aveva
contestato  l’eccezione  riconvenzionale  di  usucapione  proposta  dalla stessa  COGNOME,  alla  quale  di  conseguenza  riconosceva  il  diritto  di mantenere la sua fabbrica nella condizione e collocazione attuale.
Con la sentenza impugnata, n. 1465/2018, la Corte di Appello di Brescia rigettava il gravame proposto dal COGNOME avverso la decisione di prime cure, ritenendo che il Tribunale avesse correttamente affermato che alla mancata contestazione dell’eccezione riconvenzionale di usucapione proposta dalla COGNOME conseguiva la dimostrazione del possesso ultraventennale delle servitù inerenti alla collocazione dei comignoli e del pluviale del tetto nella loro posizione attuale, ed aggiungendo che dette opere erano state realizzate dall’odierna controricorrente giusta licenza edilizia del 1985 (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata), e dunque oltre venti anni prima della notificazione della citazione introduttiva del giudizio di merito. A tale considerazione la Corte distrettuale aggiungeva che la COGNOME aveva dedotto che le canne fumarie corrispondenti ai comignoli contestati dal COGNOME non erano mai state poste in funzione e che tale circostanza non era stata revocata in dubbio dall’attore medesimo; di conseguenza, secondo la Corte bresciana, doveva ritenersi superata la presunzione di pericolosità di cui all’art. 890 c.c. (cfr. pag. 7 della sentenza). Inoltre, quanto alla recinzione ed alla pensilina sovrastante l’accesso pedonale, delle quali il COGNOME aveva chiesto ordinarsi l’arretramento, la Corte territoriale osservava che le stesse risalivano al 1982, con conseguente decorso, anche in tal caso, del ventennio utile all’usucapione della servitù di mantenimento nella loro attuale collocazione, ed aggiungeva che, comunque, per le loro caratteristiche e per la loro posizione dette opere dovevano essere considerate come muro di cinta, e dunque non soggette, ex art. 878 c.c., all’obbligo di rispettare la distanza dal confine (cfr. pag. 8 della sentenza). Infine, la Corte di Appello riteneva
che l’obbligo contenuto nella divisione del 1963, avente ad oggetto la realizzazione a spese comuni di un muro di cinta con sovrastante rete metallica si riferisse alla sola demarcazione del confine tra i lotti, e non vincolasse le parti al mantenimento del medesimo manufatto anche per il futuro (cfr. pagg. 8 e 9 della sentenza).
Propone  ricorso  per  la  cassazione  di  detta  decisione  COGNOME NOME, affidandosi a sette motivi.
Resiste con controricorso COGNOME NOME.
In prossimità dell’adunanza camerale, il P.G. ha depositato requisitoria  scritta,  insistendo  per  il  rigetto  del  ricorso,  e  la  parte ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione degli artt. 166 e 167 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.,  perché  la  Corte  di  Appello  avrebbe  omesso  di  rilevare  che l’eccezione di usucapione era stata proposta dalla COGNOME tardivamente,  dopo  il  decorso  del  termine  di  venti  giorni  prima dell’udienza  indicata  nella  citazione  originariamente  notificata  dal  COGNOME, e non iscritta al ruolo.
La censura è infondata.
La Corte di  Appello  non  indica  che  essa  sia  stata  proposta  tra  i motivi di gravame ed il ricorrente deduce di aver sollevato la questione della tardività dell’eccezione già in primo grado ed afferma di averla ‘reiterata’ in appello (cfr. pagg. 9 e 10 del ricorso), ma non indica di aver proposto specifico motivo di doglianza al riguardo.
In ogni caso, poiché la causa è stata riassunta dallo stesso attore, in prime cure, ai sensi dell’art. 125 disp. att. c.p.c., e considerato che tra i requisiti che l’atto di riassunzione previsto da detta norma deve contenere vi è anche la ‘indicazione dell’udienza cui le parti debbono
comparire, osservati i termini stabiliti dall’art. 163 bis del codice’ (cfr. primo comma, punto n. 4) è evidente che il termine di venti giorni per proporre l’eccezione di usucapione decorre a ritroso dall’udienza che è stata indicata dall’attore nel detto atto di riassunzione, e non invece da quella che risultava indicata nell’originario atto di citazione, mai iscritto al ruolo generale. Poiché il ricorrente indica che l’atto di riassunzione indicava l’udienza del 12 luglio 2013 e dà atto che la COGNOME si era costituita il 18 giugno 2013, spiegando in quel momento l’eccezione di usucapione, quest’ultima è tempestiva, in quanto proposta all’interno del termine di 20 giorni prima del 12 luglio, scadente il 22 giugno 2013.
Peraltro, agli atti del giudizio di merito, il cui esame è consentito al Collegio in presenza di una censura a contenuto processuale, vi sono le copie dell’atto di citazione originario del COGNOME, indicante l’udienza di comparizione del 22 marzo 2013, e della comparsa di costituzione e risposta della COGNOME, munita di timbro di deposito in cancelleria del 22 febbraio 2013, in apertura della quale viene indicata la ‘Udienza del 22 marzo 2013’ (cfr. terzo rigo della comparsa). Nelle conclusioni di detta comparsa la COGNOME invocava il rigetto delle domande dell’attore e l’accertamento del suo diritto a mantenere i manufatti oggetto di causa nella loro attuale collocazione, per intervenuta usucapione. L’eccezione, dunque, era stata tempestivamente formulata sin dalla prima difesa depositata dalla COGNOME, con conseguente totale infondatezza della censura.
Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 115, 167 e 183 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,  perché  la  Corte  di  Appello  avrebbe  erroneamente  ritenuto tardiva la contestazione dell’eccezione di usucapione da parte del COGNOME. Ad avviso di quest’ultimo, infatti, fin dall’atto di citazione erano stati proposti argomenti  idonei a confutare qualsiasi ipotesi di
usucapione del diritto della COGNOME di mantenere le sue fabbriche nella loro attuale collocazione.
La censura è infondata.
La Corte di Appello dà atto che nella prima memoria successiva alla costituzione della parte convenuta, il COGNOME aveva preso posizione sull’eccezione di nullità della citazione dalla medesima sollevata, senza tuttavia nulla osservare circa l’altra eccezione di usucapione. Nel motivo in esame il ricorrente non si confronta con tale statuizione, poiché non deduce di aver contestato tempestivamente anche l’eccezione di usucapione, né indica lo strumento processuale con cui ciò sarebbe avvenuto. Al contrario, il COGNOME non revoca in dubbio quanto rilevato dalla Corte distrettuale, ma afferma che la contestazione dell’eccezione di usucapione sarebbe stata insita nella stessa prospettazione della sua domanda originaria, ed osserva che la stessa non è soggetta a formule sacramentali, ma può e deve essere desunta dalla complessiva linea difensiva assunta dalle parti. Inoltre, il ricorrente sostiene che la contestazione deve concernere i fatti allegati dalla parte avversa, e non le tesi difensive, in relazione alle quali le controdeduzioni possono essere esposte e sviluppate fino agli scritti conclusivi del grado.
In realtà, nella sua citazione prima, e nel suo atto di riassunzione poi, il COGNOME aveva lamentato che la convenuta avesse costruito alcune opere in violazione delle norme in tema di distanze, senza affrontare in alcun modo il tema della configurabilità, o meno, di un diritto della convenuta stessa a mantenere dette opere nella loro attuale collocazione per usucapione della relativa servitù. La questione dell’usucapione, del resto, è pacificamente stata introdotta nel thema decidendum dalla convenuta, mediante apposita eccezione, tempestivamente sollevata, che avrebbe dovuto essere contestata
dall’attore nella prima difesa utile, cosa che, nel caso specifico, non è avvenuta.
Anzi, per altro verso il richiamo, operato dalla censura in esame, alla prospettazione della domanda principale proposta dal COGNOME conferma  l’assenza  di  una  specifica  contestazione  dell’eccezione  di usucapione  di  cui  si  discute,  successiva  alla  sua  formulazione,  e dimostra dunque la correttezza di quanto rilevato dalla Corte distrettuale al riguardo.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2697 c.c., 115 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe operato una inversione dell’onere della prova, ponendo a carico dell’attore in negatoria servitutis il compito di fornire la dimostrazione negativa dell’inesistenza del diritto della convenuta di mantenere le sue opere nella loro attuale collocazione. E ciò, nonostante che nell’atto introduttivo del gravame il COGNOME avesse specificamente contestato la sussistenza del diritto di servitù riconosciuto dal Tribunale in favore della COGNOME.
La censura è infondata.
L’originario attore non aveva proposto una domanda di negatoria servitutis , ma aveva invocato la condanna della convenuta a demolire le  opere realizzate in violazione delle norme in tema di distanze dal confine; quest’ultima, dunque, e non l’inesistenza di un diritto in re aliena in capo alla COGNOME, costituiva il titolo posto a base della pretesa del COGNOME.
L’eccezione di usucapione, tempestivamente proposta dalla convenuta nel rispetto del termine di venti giorni prima dell’udienza indicata  per  la  sua  comparizione,  avrebbe  dovuto  essere  contestata dall’attore nella prima difesa utile. In difetto, a nulla rileva il fatto che la  contestazione  sia  stata  mossa  in  grado  di  appello,  con  l’atto
introduttivo del gravame, poiché quest’ultimo non comporta, a favore dell’appellante, una remissione in termini per il compimento di attività che lo stesso avrebbe dovuto svolgere in prime cure, e non ha invece svolto (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26859 del 29/11/2013, Rv. 629109).
Ne deriva che la Corte di Appello, nel confermare la statuizione di prime cure, che a fronte della non contestazione del COGNOME aveva ritenuto conseguita la prova del diritto della COGNOME di mantenere le sue fabbriche nella loro attuale collocazione, non implica alcuna inversione dell’onere della prova, ma rappresenta una corretta applicazione dell’art. 115 c.p.c., secondo cui il giudice è tenuto a prendere in considerazione i fatti non specificamente contestati dalla parte che vi avrebbe interesse.
Nel caso di specie, la convenuta aveva eccepito, con la sua comparsa di costituzione, di aver usucapito il diritto di mantenere le sue fabbriche nella loro attuale collocazione, avendole realizzate da oltre venti anni. Il fatto posto a fondamento dell’eccezione di usucapione, che l’attore aveva l’onere di contestare, era dunque il decorso del ventennio dalla realizzazione delle predette opere. In difetto di specifica contestazione di tale circostanza, il giudice di merito non poteva che prendere atto della stessa, come ha fatto nel caso specifico.
Sul punto, peraltro, questa Corte ha affermato che ‘La valutazione della condotta processuale del convenuto, agli effetti della non contestazione dei fatti allegati dalla controparte, deve essere correlata al regime delle preclusioni, che la disciplina del giudizio ordinario di cognizione connette all’esaurimento della fase processuale entro la quale è consentito ancora alle parti di precisare e modificare, sia allegando nuovi fatti -diversi da quelli indicati negli atti introduttivi-
sia revocando espressamente la non contestazione dei fatti già allegati, sia ancora deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte; in particolare, la mancata tempestiva contestazione, sin dalle prime difese, dei fatti allegati dall’attore è comunque retrattabile nei termini previsti per il compimento delle attività processuali consentite dall’art. 183 c.p.c., risultando preclusa, all’esito della fase di trattazione, ogni ulteriore modifica determinata dall’esercizio della facoltà deduttiva’ (Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 31402 del 02/12/2019, Rv. 656256). Tale principio, affermato in relazione alla posizione del convenuto, e del suo onere di contestare tempestivamente le deduzioni di parte attrice, si applica evidentemente anche in senso inverso, e dunque a carico dell’attore, in relazione alle domande o eccezioni riconvenzionali proposte tempestivamente dal convenuto. Il COGNOME, dunque, avrebbe potuto contestare specificamente le allegazioni della COGNOME sino allo spirare dei termini di cui all’art. 183 c.p.c. ma, non avendolo fatto, non può, successivamente, far valere una tardiva contestazione contenuta nell’atto di appello, né sostenere che la contestazione fosse ricavabile implicitamente, dalla prospettazione dei fatti posti a fondamento della sua domanda, anteriore alla stessa proposizione dell’eccezione riconvenzionale mai contestata.
Inoltre, è opportuno anche rilevare che ‘Ai fini del rispetto del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione con cui viene dedotta la violazione del principio di non contestazione deve indicare sia la sede processuale in cui sono state dedotte le tesi ribadite o lamentate come disattese, inserendo nell’atto la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi, sia, specificamente, il contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori scritti difensivi, in
modo da consentire alla Corte di valutare la sussistenza dei presupposti per la corretta applicazione dell’art. 115 c.p.c.’ ( Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 15058 del 29/05/2024, Rv. 671191; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16655 del 09/08/2016, Rv. 641486; Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 12840 del 22/05/2017, Rv. 644383). Nel caso di specie il COGNOME non indica di aver contestato specificamente la fondatezza dell’eccezione riconvenzionale di usucapione spiegata dalla COGNOME nei termini di cui all’art. 183 c.p.c., né revoca in dubbio la circostanza evidenziata dalla Corte distrettuale- che con la memoria del 9.11.2013 egli abbia preso posizione soltanto sull’eccezione di nullità della citazione, e non anche su quella di usucapione. Né tale contestazione emerge dalla lettura dell’atto di appello, con il quale l’odierno ricorrente aveva piuttosto insistito sul tema della tardività dell’eccezione, senza ancora una volta- contestare specificamente il fatto storico posto a fondamento della stessa, rappresentato dal compimento delle opere oltre venti anni prima della notificazione della citazione in prime cure.
Con il quarto motivo, il COGNOME si duole della violazione degli artt. 2909, 889, 1158 c.c., 115 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente riconosciuto, in favore della COGNOME, il diritto di mantenere pluviale e grondaia nella loro attuale collocazione, in violazione di quanto prescritto dalla sentenza della Corte di Appello di Brescia n. 1279/2011, in giudicato, con la quale era stata ordinata la rimozione di una porzione del tetto dell’edificio COGNOME sporgente sul fondo COGNOME. Secondo il ricorrente, la Corte avrebbe sbagliato nel ritenere che la ‘grondaia’ oggetto della domanda spiegata dall’odierno ricorrente coincidesse con la ‘gronda’ di cui alla predetta sentenza del 2011, alla quale era stata data esecuzione, in quanto la domanda predetta si riferiva, piuttosto, al canale di scolo delle acque, e quindi al pluviale,
realizzato dalla COGNOME nel 2011 proprio in conseguenza della parziale demolizione  del  tetto  del  suo  edificio.  Il  giudice  di  seconde  cure, dunque,  avrebbe  dovuto  da  un  lato  ritenere  non  coincidenti  due concetti  di ‘gronda’ e ‘grondaia’ di  cui  anzidetto,  e  dall’altro  lato escludere l’usucapione del diritto al  mantenimento  del  pluviale, essendo quest’ultimo stato realizzato soltanto dopo il 2011, per effetto dell’esecuzione della prefata decisione della Corte bresciana.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello, nel condividere la statuizione del Tribunale, che aveva ritenuto difficoltosa l’individuazione delle parti dell’edificio COGNOME interessate dalla domanda di arretramento e demolizione proposta dal COGNOME, ha osservato che ‘Dal raffronto della documentazione depositata dall’appellata … con quella del COGNOME … risulta chiara la demolizione della gronda e l’eliminazione del pezzo di pluviale sporgente … che quindi conferma la preesistenza del canale di scolo già posizionato nell’angolo sud-est dell’edificio COGNOME; la sostituzione per ovvie ragioni della restante parte del pluviale in sede di esecuzione dei predetti lavori (che avevano interessato l’intera gronda) non fa venire meno il preteso diritto di usucapione acquisito dalla convenuta al posizionamento di detto manufatto. La grondaia poi intesa come lastra … collocata praticamente quasi a filo della parete (lato sud) a chiusura del tetto nella falda arretrata riguarda le modalità di attuazione degli obblighi stabiliti in sentenza svolte nel procedimento esecutivo ed ogni contestazione avrebbe dovuto essere sollevata in quella sede’ (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).
Con  tale  passaggio  della  motivazione  la  Corte  distrettuale  ha ritenuto che la grondaia fosse stata già rimossa in esecuzione della precedente  sentenza  del  2011  e  che  ogni  eventuale  contestazione relativa  alla  sua  non  completa  eliminazione  avrebbe  dovuto  essere
proposta in sede di esecuzione di detto diverso titolo. In tal modo, la Corte di Appello non ha violato il giudicato, ma, al contrario, lo ha valorizzato, identificando la ‘grondaia’ oggetto della domanda proposta in questa sede dal COGNOME con la ‘gronda’ di cui alla predetta sentenza del 2011. Peraltro, va anche ribadito che ‘L’interpretazione della domanda deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 3041 del 13/02/2007, Rv. 594291). Tale operazione ermeneutica è riservata al giudice di merito ed è sindacabile in Cassazione soltanto: ‘… a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del petitum, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la qualificazione giuridica dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di error in judicando, in base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., o al vizio di error facti, nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.’ (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 11103 del 10/06/2020, Rv. 658078). In ogni altro caso, la censura relativa all’interpretazione della domanda va dichiarata
inammissibile perché essa attinge essenzialmente un accertamento di merito. Nel caso di specie, il COGNOME non deduce la sussistenza di alcuna delle ipotesi suindicate, ma si limita ad affermare che le parole ‘gronda’ e ‘grondaia’ non avrebbero identico contenuto, in tal modo proponendo una lettura alternativa del contenuto della sua domanda rispetto a quella, non implausibile, proposta dalla Corte di Appello, in coerenza con quanto già ritenuto dal Tribunale. Peraltro, poiché si configura una ipotesi di cd. doppia conforme, anche la possibilità di sollevare il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. è preclusa.
Per quanto invece attiene al pluviale, la tesi del ricorrente è, in sostanza, che lo stesso sarebbe stato realizzato in esecuzione della decisione del 2011 e che dunque la Corte di Appello avrebbe errato nel ravvisare l’usucapione del diritto a mantenerlo nella sua attuale collocazione, difettando il requisito temporale della sua realizzazione oltre vent’anni prima dell’inizio della causa in prime cure. L’assunto, tuttavia, si poggia su una circostanza che il giudice di merito, nell’ambito della valutazione del fatto e delle prove, ha espressamente escluso, ritenendo (esattamente al contrario di quanto argomentato oggi dal COGNOME) che il pluviale fosse preesistente alla sentenza del 2011 e che l’esecuzione di quest’ultima, avendo interessato l’intera grondaia, ne avesse causato una modifica, non incidente tuttavia sulla configurabilità del diritto della COGNOME di mantenerlo nella sua attuale collocazione. La Corte distrettuale, in altre parole, ha ritenuto che la decisione del 2011 abbia riguardato la sola grondaia, e non anche il pluviale in quanto tale, e dunque ha ravvisato l’usucapione del diritto della COGNOME a mantenere il secondo nella sua attuale posizione. Il ricorrente propone una ricostruzione alternativa del contenuto del giudicato del 2011, pur riconoscendo che lo stesso si riferiva esclusivamente alla gronda, e dunque non al pluviale (cfr. quanto
testualmente riportato a pag. 32 del ricorso: ‘RAGIONE_SOCIALE … condanna … COGNOME NOME … ad eliminare … la gronda’ ), senza peraltro precisare il momento processuale in cui il giudicato derivante dalla decisione del 2011 -anteriore anche al deposito della sentenza di prime cure- sarebbe stato dedotto, con conseguente deficit di specificità della doglianza, sotto tale profilo (cfr. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 15846 del 06/06/2023, Rv. 667811; conf. Cass. Sez. U, Sentenza n. 1416 del 27/01/2004, Rv. 569717).
Con il quinto motivo, il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 2909, 890, 1158 c.c., 115 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato il diritto della COGNOME di mantenere i comignoli nella loro attuale posizione, escludendo la sussistenza della presunzione di pericolosità di cui all’art. 890 c.c. e ritenendo che essi fossero stati edificati in occasione del rifacimento del tetto, valorizzando a tal fine il mero conseguimento, da parte della COGNOME, di una licenza edilizia, la quale tuttavia da un lato non faceva menzione dei comignoli stessi, e dall’altro lato non poteva condurre il giudice di merito a ritenere dimostrata l’edificazione delle opere cui essa si riferiva.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello ha ritenuto conseguita la prova del possesso ultraventennale del diritto di servitù avente ad oggetto il posizionamento dei comignoli a distanza inferiore a quella legale sia in ragione della mancata specifica contestazione della relativa eccezione da parte del COGNOME, sia a fronte dell’osservazione che la COGNOME aveva conseguito, per il rifacimento del tetto del suo edificio, una licenza edilizia nel 1985. La ritenuta infondatezza delle censure di cui al primo e secondo motivo di ricorso, che attingono la prima parte della
statuizione della Corte distrettuale (concernente la mancata tempestiva contestazione dell’eccezione riconvenzionale di usucapione) rende inammissibile la censura che si appunta sulla seconda parte del ragionamento seguito dal giudice di merito. Infatti ‘Qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2108 del 14/02/2012, Rv. 621882; Cass. Sez. U, Sentenza n. 7931 del 29/03/2013, Rv. 625631; Cass. Sez. L, Sentenza n. 4293 del 04/03/2016, Rv .639158).
Con il sesto motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione degli artt. 873, 2909, 1158 c.c., 115 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto acquisito, in capo alla COGNOME, il diritto di mantenere in essere la struttura di accesso in muratura con pensilina, configurando la stessa come facente parte del muro di cinta, e dunque esonerandola dall’obbligo di rispetto della distanza dal confine, senza considerare le doglianze che erano state mosse dal COGNOME alla decisione di prime cure né tener conto delle risultanze documentali, tra cui la decisione del 2011 già oggetto del quarto motivo.
La censura è inammissibile.
Anche in questo caso, la decisione della Corte distrettuale si fonda su una doppia ratio , riposante, da una parte, sulla mancata tempestiva contestazione, da parte del COGNOME, dell’eccezione riconvenzionale
di usucapione, e dall’altra parte sulla configurazione del manufatto in esame come parte del muro di cinta. Una volta esclusa la fondatezza delle censure relative alla prima delle due suindicate rationes , la critica volta alla seconda di esse diviene inammissibile per difetto di interesse. Valgono, al riguardo, i principi già esposti in occasione dello scrutinio del precedente motivo di ricorso.
Per quanto invece attiene alla censura di omesso esame di fatti decisivi, essa è preclusa, quanto ai documenti, genericamente indicati dal ricorrente, in presenza di una ipotesi di cd. doppia conforme, ed è invece infondata, per quanto concerne il giudicato derivante dalla sentenza della Corte di Appello di Brescia del 2011, in quanto essa, come lo stesso COGNOME indica (cfr. pag. 32 del ricorso) si riferisce alla sola gronda, e non anche al muro di cinta o al manufatto di cui al motivo in esame.
Con il settimo ed ultimo motivo, infine, viene denunziata la violazione degli artt. 1372, 2909, 1158 c.c., 11 Preleggi, 115 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato il diritto della COGNOME di mantenere la recinzione realizzata in violazione della clausola di cui all’atto di divisione del 24.10.1963 ed al rogito di acquisto del 19.5.1978. Secondo il ricorrente, le parti si sarebbero obbligate, con detti atti negoziali, a realizzare, a semplice richiesta di una di esse, un muro di cinta con rete metallica a spese comuni, e tale obbligazione, in quanto propter rem , si sarebbe trasferita anche a carico della COGNOME.
La censura è infondata.
La Corte di Appello ha ritenuto che con la clausola contenuta nella divisione del 1963 i condividenti avessero inteso fissare una modalità di  demarcazione  del  confine  tra  le  loro  proprietà,  individuando  il
manufatto che, all’epoca dell’accordo, i paciscenti avevano deciso di obbligarsi reciprocamente a realizzare. Il giudice di seconde cure, tuttavia, ha escluso che detta clausola esprimesse l’intento delle parti di vincolarsi anche per il futuro a rispettare le precise modalità esecutive indicate all’atto della divisione (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata). Il ricorrente contesta tale interpretazione, rivendicando la prevalenza dell’elemento letterale su qualsiasi diverso criterio interpretativo, anche in funzione dell’esigenza di assicurare un aspetto uniforme delle varie recinzioni dei lotti esistenti nel complesso edilizio in cui si collocano i fondi delle parti, denominato Oratorio di Sant’Andrea e risalente al 1600 (cfr. pag. 52 del ricorso) e sostenendo che l’obbligazione avrebbe natura ambulatoria, in quanto propter rem , e dunque sarebbe efficace anche nei confronti degli aventi causa degli originari condividenti.
Va ribadito, al riguardo, che ‘Le obbligazioni propter rem sono caratterizzate dal requisito della tipicità, con la conseguenza che esse possono sorgere per contratto solo nei casi e col contenuto espressamente previsti dalla legge’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4572 del 26/02/2014, Rv. 630148; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25289 del 04/12/2007, Rv. 601411; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25673 del 15/10/2018, Rv. 650831). Nel caso del muro di cinta, a norma dell’art. 886 c.c., si configura come obbligazione propter rem , incombente sul soggetto titolare dell’immobile al momento della domanda indipendentemente dal tempo dell’acquisto, l’obbligo di contribuire per metà alla relativa spesa di costruzione (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5467 del 08/09/1986, Rv. 447989), ma non anche la determinazione della modalità con cui, in concreto, la fabbrica debba essere realizzata.
La  Corte  distrettuale,  dunque,  ha  correttamente  affermato  che l’obbligo gravante sui proprietari dei fondi si riferisse alla ripartizione
delle spese di realizzazione del muro, ma non anche alle modalità con cui la divisione dovesse essere eseguita.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le  spese  del  presente  giudizio  di  legittimità,  liquidate  come  da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater ,  del  D.P .R.  n.  115  del  2002-  della  sussistenza  dei presupposti  processuali  per  il  versamento  di  un  ulteriore  importo  a titolo  contributo  unificato,  pari  a  quello  previsto  per  la  proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la  Corte  rigetta  il  ricorso  e  condanna  la  parte  ricorrente  al pagamento,  in  favore  di  quella  controricorrente,  delle  spese  del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 5.200, di cui € 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così  deciso  in  Roma,  nella  camera  di  consiglio  della  Seconda