Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 16626 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 16626 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/06/2025
ORDINANZA
sui ricorsi riuniti iscritti al n. 34314/2019 R.G. proposti da COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, INDIRIZZO
-ricorrenti e controricorrenti –
contro
COMUNE DI COGNOME, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME;
-ricorrente e controricorrente -avverso le sentenze della Corte d’appello di Catanzaro n. 749/18, depositata il 17 aprile 2018, e n. 1808/19, depositata il 25 settembre 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’8 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con tre distinti atti di citazione, NOME COGNOME convenne in giudizio il Comune di Crotone, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni cagionati dalla perdita della proprietà di un fondo sito in Crotone, alla INDIRIZZO e riportato in Catasto al foglio 45, particelle 9 e 11, espropriato con tre decreti emessi dal Presidente della Regione Calabria, n. 410 del 20 febbraio 1976, n. 2041 del 16 settembre 1980 e n. 2044 del 16 settembre 1980, ed utilizzato a fini edificatori.
Premesso di aver acquistato il fondo in comunione con NOME COGNOME con scrittura privata del 20 marzo 1967, e precisato di essere stato successivamente costretto a convenire in giudizio il comproprietario, per ottenere l’accertamento del proprio diritto, l’attore riferì che nelle more del giudizio, conclusosi con sentenza della Corte d’appello di Catanzaro del 21 ottobre 1986, confermata da questa Corte con sentenza del 9 giugno 1992, n. 7086/92, erano stati emessi i tre decreti di espropriazione, che non gli erano stati notificati.
1.1. Le tre domande furono rigettate dal Tribunale di Crotone, le cui decisioni furono confermate dalla Corte d’appello, con sentenze del 30 dicembre 1995.
1.2. I ricorsi per cassazione proposti dal COGNOME furono rigettati con sentenze del 16 aprile 1998, nn. 8580/98, 25 settembre 1998, n. 9621/98, e 27 ottobre 1998, n. 10687/98, con cui questa Corte escluse che la mancata notifica dei decreti di esproprio al proprietario effettivo, non risultante dalla documentazione catastale, costituisse motivo di carenza del potere espropriativo, tale da impedire il trasferimento della proprietà e da legittimare l’esercizio dell’azione risarcitoria, e dichiarò inammissibile l’allegazione della mancata sottoposizione dei decreti al visto del Comitato Regionale di Controllo, in quanto configurabile come una nuova causa petendi , dedotta per la prima volta nel giudizio di appello.
L’attore ripropose pertanto la domanda di risarcimento, ribadendo l’inefficacia dei decreti di espropriazione, in quanto non sottoposti preventivamente al visto, e la conseguente inidoneità degli stessi a privarlo del diritto
di proprietà, venuto meno soltanto per effetto dell’irreversibile trasformazione del fondo.
Si costituì il Comune, ed eccepì l’intervenuta formazione del giudicato, per effetto delle sentenze emesse nei precedenti giudizi, nonché la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, chiedendo il rigetto della domanda.
2.1. Con sentenza del 22 novembre 2002, il Tribunale di Crotone dichiarò il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario.
L’impugnazione proposta dal COGNOME fu accolta dalla Corte d’appello di Catanzaro, che con sentenza del 20 aprile 2010 rimise la causa al Giudice di primo grado.
Essendo nel frattempo deceduto l’attore, il giudizio fu riassunto ad opera di NOME COGNOME e NOME COGNOME in qualità di eredi, e il Tribunale di Crotone rigettò nuovamente la domanda, con sentenza del 15 marzo 2015, ritenendo fondata l’eccezione di giudicato, ed escludendo comunque che l’omessa apposizione del visto comportasse automaticamente l’antigiuridicità del comportamento del Comune.
L’impugnazione proposta dai COGNOME è stata parzialmente accolta dalla Corte d’appello di Catanzaro, che con sentenza non definitiva del 17 aprile 2018 ha accertato il diritto degli appellanti al risarcimento.
Premesso che a sostegno della domanda l’attore aveva dedotto due distinte fattispecie, costituite dall’omessa sottoposizione al visto dei decreti di espropriazione e dalla negligenza del Comune nell’espletamento delle procedure ablatorie, la Corte ha ritenuto che si trattasse di fatti costitutivi diversi da quelli allegati a sostegno delle precedenti domande, fondate sull’omessa notifica dei decreti al comproprietario del fondo, giacché, come accertato dal Giudice di legittimità, la deduzione della mancata sottoposizione al visto costituiva in quel giudizio una domanda nuova.
Ciò posto, ha osservato che la precedente decisione comportava la formazione del giudicato esterno in ordine alla legittimazione dell’attore, riconosciuto titolare di una posizione giuridica meritevole di tutela in relazione alla procedura espropriativa, mentre l’accertamento della condotta tenuta dal Comune nell’espletamento della procedura, riguardante le ricadute dell’illegittimità dei decreti sotto il profilo della carenza di potere, comportava la forma-
zione del giudicato esclusivamente in relazione alla mancata individuazione del proprietario effettivo dei beni, reputata peraltro inidonea anche a determinare l’illegittimità degli atti. Rilevato che la domanda proposta dall’attore nel presente giudizio non postulava alcun altro comportamento negligente dell’Amministrazione, ha ribadito che la pendenza della controversia in ordine all’accertamento della comproprietà del fondo non giustificava alcuna deviazione dalla procedura, né il venir meno dell’obbligo del Comune di corrispondere l’indennità in favore di chi risultava all’epoca proprietario del bene. Premesso invece che la qualificazione dell’omessa sottoposizione al visto dei decreti come causa petendi nuova, risultante dalla sentenza della Corte di cassazione, escludeva che la stessa potesse costituire oggetto di esame in quel giudizio, ha ritenuto che la dichiarazione d’inammissibilità della domanda impedisse la formazione di un giudicato al riguardo, non desumibile neppure per implicito dall’accertamento della legittimità dei decreti di esproprio. Pur rilevando che la sentenza di primo grado, dopo aver accertato l’esistenza del giudicato, aveva ritenuto insussistente il predetto vizio, ha affermato che la mancata proposizione dell’appello incidentale al riguardo non comportava la formazione del giudicato interno, non avendo l’appellato interesse ad impugnare tale statuizione.
Tanto premesso, la Corte ha dato atto della mancata contestazione della circostanza in questione, osservando che l’omessa sottoposizione dei decreti di espropriazione al visto dell’organo di controllo, prescritto dagli artt. 45 e ss. della legge 10 febbraio 1953, n. 62, all’epoca vigente, pur non comportando l’illegittimità dei provvedimenti, e non potendo quindi essere fatta valere dinanzi al Giudice amministrativo, ne determinava l’inefficacia, configurandosi il predetto controllo come una condicio juris di efficacia, la cui mancanza si traduceva in una situazione di quiescenza che impediva l’esecuzione dei provvedimenti: ha pertanto concluso che l’attività posta in essere in esecuzione degli stessi risultava connotata da carenza di potere, e quindi tale da determinare una lesione del diritto di proprietà, che consentiva di ritenere provata la responsabilità dell’Amministrazione.
5.1. Con sentenza definitiva del 25 settembre 2019, la Corte ha poi condannato il Comune al pagamento della somma di Euro 2.214.173,79, oltre
interessi legali con decorrenza dalla decisione, da dividere in parti uguali tra gli appellanti.
A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto incontestata la descrizione del fondo, situato in zona semicentrale del Comune di Crotone, al di fuori del centro storico ma a breve distanza dallo stesso, avente giacitura pianeggiante ed un’estensione complessiva di 69.220 mq., nonché complessivamente urbanizzato e dotato di vocazione edificatoria, in quanto incluso, all’epoca di emissione dei decreti di esproprio, in zona C ad espansione intensiva.
Ha ritenuto quindi condivisibile la stima compiuta dal c.t.u. nominato nel corso del giudizio, osservando che lo stesso aveva fatto ricorso al metodo sintetico-comparativo, prendendo in considerazione sei atti, puntualmente indicati nella relazione, ritenendo preferibile, tra quelli rilevati, il valore accertato da una sentenza della stessa Corte d’appello con riguardo ad un fondo avente identiche caratteristiche, e differenziando i valori delle aree espropriate, in relazione al tempo in cui erano intervenuti i decreti di espropriazione. Ha ritenuto altresì condivisibile la scelta di escludere i valori estremi risultanti da atti risalenti nel tempo e da alienazioni compiute per la realizzazione di immobili di edilizia popolare, nonché quella di escludere valori palesemente fuori mercato o relativi ad immobili di dimensioni significativamente inferiori.
Ha quindi determinato il valore unitario dell’area espropriata con il decreto del 20 febbraio 1976 in Lire 24.500 al mq. e quello complessivo in Euro 395.410,00, ed il valore unitario delle aree espropriate con i decreti del 16 settembre 1980 in Lire 29.400 al mq. e quello complessivo in Euro 576.530,00; trattandosi di debito di valore, ha rivalutato tali importi alla data di proposizione della domanda, rideterminandoli rispettivamente in Euro 2.815.333,44 ed Euro 1.972.885, e poi all’attualità, rideterminandoli rispettivamente in Euro 3.887.974,00 ed Euro 2.754.554,00. Pur dando atto, infine, della possibilità di accordare, a titolo di lucro cessante, gl’interessi con decorrenza dalla data del fatto illecito, non necessariamente commisurati al tasso legale e computati sulla somma via via rivalutata, ne ha escluso il riconoscimento automatico, osservando che incombeva all’attore l’onere di provare,
anche in via presuntiva, che la somma rivalutata era inferiore a quella di cui avrebbe disposto se il pagamento di quella originariamente dovuta fosse risultato tempestivo.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione sia i COGNOME, per otto motivi, illustrati anche con memoria, che il Comune, per quattro motivi. Ciascuna delle parti ha resistito con controricorso, depositando anche memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va disposta, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., la riunione dei ricorsi, proposti separatamente, ma aventi ad oggetto l’impugnazione della medesima sentenza.
Va poi disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso proposto dal Comune per difetto di procura , sollevata dalla difesa dei Lagani in relazione al contenuto della delibera della Giunta municipale n. 189 del 4 giugno 2019, richiamata nella procura speciale, la quale, avendo ad oggetto esclusivamente l’impugnazione della sentenza non definitiva, risulterebbe inidonea a legittimare l’impugnazione di quella definitiva, anche perché anteriore al deposito di quest’ultima.
La questione riguarda, in realtà, esclusivamente l’ammissibilità dell’ultimo motivo d’impugnazione, che, in quanto avente ad oggetto l’inedificabilità del fondo occupato, è rivolto contro la sentenza definitiva, laddove gli altri motivi, riflettenti la prescrizione del diritto al risarcimento, il difetto di legittimazione dell’attore e l’efficacia dei decreti di esproprio, risultano sicuramente ammissibili, essendo rivolti contro la sentenza non definitiva. Non può infatti condividersi l’affermazione della difesa dei COGNOME, secondo cui l’inammissibilità delle censure mosse alla sentenza definitiva si ripercuoterebbe negativamente anche su quelle rivolte contro la sentenza non definitiva, precludendone l’esame nel merito: l’ammissibilità dell’impugnazione avverso la sentenza non definitiva, sia se differita, per esserne stata fatta riserva, sia se proposta immediatamente e autonomamente, non è subordinata all’ammissibilità di quella proposta nei confronti della sentenza definitiva, non essendo previsto un criterio di collegamento formale e sostanziale tra le stesse (cfr.
Cass., Sez. Un., 17/01/1996, n. 331; Cass., Sez. I, 13/12/2023, n. 34821); l’autonomia delle censure mosse alla sentenza non definitiva, proposte in virtù di una valida autorizzazione a stare in giudizio ed aventi ad oggetto l’ an debeatur , consente d’altronde di escludere che l’inammissibilità di quelle rivolte alla sentenza definitiva comporti il venir meno dell’interesse a coltivarle, giacché il loro accoglimento determinerebbe, in virtù dell’effetto espansivo previsto dall’art. 336, secondo comma, cod. proc. civ., anche la caducazione della sentenza definitiva, che, anche nel caso di passaggio in giudicato, deve considerarsi condizionata al permanere di quella non definitiva, avendo ad oggetto il quantum debeatur (cfr. Cass., Sez. Un., 4/02/2005, n. 2204; Cass., Sez. III, 27/12/2024, n. 34664; Cass., Sez. I, 18/06/2014, n. 13915).
In ogni caso, la difesa del Comune ha ritualmente prodotto, entro il termine ultimo rappresentato dalla data fissata per l’adunanza camerale (cfr. Cass., Sez. lav., 15/12/2004, n. 23321; Cass., Sez. I, 1/12/2000, n. 15350), copia della delibera n. 5 dell’11 dicembre 2019, con cui il Commissario prefettizio ha integrato la precedente delibera della Giunta municipale, autorizzando la resistenza al ricorso proposto dai COGNOME avverso la sentenza definitiva, e facendo espresso riferimento al ricorso già proposto avverso quella non definitiva, il cui difetto di autorizzazione deve ritenersi pertanto sanato dalla ratifica successiva dell’Ente.
Con il primo motivo d’impugnazione, i COGNOME denunciano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., censurando la sentenza definitiva nella parte in cui ha ritenuto che la somma liquidata dovesse essere divisa in parti uguali tra essi appellanti, senza tenere conto della documentazione prodotta in sede di riassunzione, della ricostruzione delle vicende familiari compiuta nel relativo atto e delle conclusioni rassegnate nell’atto di appello, da cui emergeva che la medesima somma spettava per un sesto a NOME COGNOME due terzi a NOME COGNOME e un sesto a NOME COGNOME rimasto contumace.
Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., ribadendo che nella ripartizione della somma liquidata la sentenza definitiva si è discostata dalle conclusioni formulate nello atto di appello.
Con il terzo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza definitiva per omessa motivazione, rilevando che, nel disporre la ripartizione in parti uguali dell’importo liquidato, la Corte d’appello non ha spiegato le ragioni per cui si è discostata dalla domanda da loro proposta.
Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano la nullità della sentenza definitiva per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., osservando che la Corte d’appello si è limitata a rivalutare la somma liquidata, senza riconoscere gl’interessi dovuti per legge a titolo di risarcimento dell’ulteriore danno derivante dal ritardato pagamento, da loro espressamente richiesti nell’atto di appello.
Con il quinto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza definitiva per apparenza della motivazione, sostenendo che, nel negare il riconoscimento degl’interessi sulla somma liquidata, la Corte d’appello ha posto a loro carico l’onere di provare che la rivalutazione risultava insufficiente a reintegrare il loro patrimonio, senza considerare che tale insufficienza doveva ritenersi presunta, alla luce del tempo trascorso dalla data dell’illecito e dell’intervenuta perdita del potere di acquisto della moneta.
Con il sesto motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1223, 2043 e 2056 cod. civ., ribadendo che l’insufficienza della rivalutazione a reintegrare il loro patrimonio avrebbe dovuto essere accertata in via presuntiva o considerata un fatto notorio.
Con il settimo e l’ottavo motivo, i ricorrenti deducono la nullità della sentenza definitiva per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., nonché l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui ha recepito la stima compiuta dal c.t.u., senza tenere conto delle osservazioni da loro formulate, riguardanti l’utilizzazione di un solo valore di riferimento, i criteri adottati per l’adeguamento di tale valore, la riferibilità dello stesso ad un fondo avente caratteristiche notevolmente diverse, e l’inversione delle dimensioni dei due fondi posti a confronto.
Con il primo motivo del suo ricorso, il Comune lamenta la violazione degli artt. 112 e 113 cod. proc. civ. e dell’art. 2947 cod. civ., censurando la sentenza non definitiva per aver omesso di pronunciare in ordine all’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento, da esso sollevata nella comparsa di costituzione, e riproposta a seguito della riassunzione del giudizio, nonché in
sede di gravame, in relazione al tempo trascorso tra la sentenza che aveva accertato il diritto di proprietà dell’attore e la proposizione della domanda di risarcimento.
Con il secondo motivo, il Comune denuncia la violazione o la falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., sostenendo che, nel riconoscere la legittimazione dell’attore, in virtù della sentenza che aveva accertato il suo diritto di proprietà, la sentenza non definitiva non ha considerato che il diritto al risarcimento spetta a colui che era proprietario del bene danneggiato al momento in cui si è verificato l’evento dannoso. Premesso che al momento dell’introduzione del giudizio il fondo espropriato apparteneva a un soggetto diverso dall’attore, nei confronti del quale era stata promossa la procedura espropriativa, afferma che la carenza di legittimazione del COGNOME escludeva che, a seguito del suo decesso, la legittimazione potesse trasmettersi agli eredi subentrati nel giudizio. Precisato inoltre che il difetto di legittimazione è rilevabile anche d’ufficio, osserva che, nel decidere diversamente, la Corte d’appello ha omesso di esaminare le difese svolte al riguardo da esso convenuto.
Con il terzo motivo, il Comune deduce la violazione o la falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 345 cod. proc. civ. e dell’art. 2909 cod. civ., censurando la sentenza non definitiva nella parte in cui, pur avendo confermato l’intervenuta formazione del giudicato esterno in ordine alla condotta tenuta dall’Amministrazione nell’espletamento della procedura espropriativa, ha deciso nel merito la questione riguardante la nullità dei decreti di esproprio, senza tenere conto dell’inammissibilità della stessa, esaminata dal giudice di primo grado soltanto ad abundantiam . Aggiunge che, in quanto riguardante il dedotto e il deducibile, il giudicato formatosi a seguito del rigetto della precedente domanda copriva anche la questione concernente l’omessa sottoposizione dei decreti di espropriazione al controllo amministrativo, trattandosi di un fatto di cui l’attore era a conoscenza e avrebbe potuto far valere a sostegno dell’originaria domanda.
Con il quarto motivo, il Comune lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., censurando la sentenza definitiva per aver immotivatamente recepito le con-
clusioni cui era pervenuto il c.t.u., senza tenere conto delle osservazioni formulate dal c.t. di esso convenuto, da cui emergeva che il fondo espropriato oltre a non essere edificabile, in quanto privo di classificazione urbanistica, non aveva caratteristiche comparabili con quelle delle altre aree indicate, in quanto destinato alla realizzazione di alloggi di edilizia economica e popolare.
14. Così riassunte le censure proposte dalle parti, si rileva innanzitutto che, nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380bis .1 cod. proc. civ., la difesa dei COGNOME ha rinunciato ai primi tre motivi del suo ricorso, dichiarando di non avere più interesse all’esame degli stessi, giacché, con ordinanze del 12 febbraio 2020 e del 24 giugno 2020, la Corte d’appello ha disposto la correzione dell’errore materiale commesso nell’indicazione delle quote loro spettanti sulla somma complessivamente liquidata con la sentenza definitiva e dei corrispondenti importi, in conformità dell’istanza da loro proposta.
Tale rinuncia, a differenza di quella prevista dall’art. 390 cod. proc. civ., non richiede la sottoscrizione della parte né il rilascio di uno specifico mandato, non comportando la disposizione del diritto in contesa, ma costituendo espressione di una valutazione tecnica concernente le più opportune modalità di esercizio della facoltà d’impugnazione, rimessa alla discrezionalità del difensore (cfr. Cass., Sez. III, 27/08/2020, n. 17893; Cass., Sez. I, 3/11/ 2016, n. 22269; Cass., Sez. V, 15/05/2006, n. 11154); per effetto della stessa, deve quindi ritenersi superfluo qualsiasi apprezzamento in ordine alla fondatezza delle censure proposte con i predetti motivi, al cui esame i ricorrenti non hanno più alcun interesse, ritenendo la questione ormai superata dalla rettifica della statuizione impugnata.
15. Quanto alle altre censure, deve considerarsi prioritario l’esame di quella sollevata dal Comune con il primo motivo del suo ricorso, che, in quanto riflettente l’omesso esame dell’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, riveste carattere preliminare sia rispetto agli altri motivi del medesimo ricorso, sia rispetto a quelli del ricorso proposto dai COGNOME.
A corredo della stessa, la difesa del Comune ha puntualmente richiamato il passo della comparsa di costituzione depositata in primo grado, nella quale aveva sollevato la predetta eccezione, nonché quelli della comparsa depositata in sede di riassunzione del giudizio a seguito della riforma della sentenza
di primo grado e della comparsa conclusionale, in cui l’aveva ribadita, e quelli della comparsa di costituzione in appello e delle note di replica, in cui l’aveva riproposta, producendo tali atti nella presente fase, ai sensi dell’art. 369, secondo comma, cod. proc. civ. La Corte d’appello, pur avendo dato atto dell’avvenuta proposizione della predetta eccezione nella narrativa della sentenza non definitiva, non ne ha rilevato la riproposizione in sede di gravame, omettendo quindi di pronunciarsi in ordine alla prescrizione della pretesa azionata, fatta valere dal convenuto in relazione al tempo trascorso tra il deposito della sentenza con cui la medesima Corte d’appello aveva riconosciuto il diritto di proprietà dell’attore sul fondo occupato e la data di notificazione dell’atto introduttivo del presente giudizio.
La questione non poteva d’altronde ritenersi inammissibile, in quanto riproposta dall’appellato vittorioso in primo grado in via di eccezione ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ., anziché mediante l’appello incidentale, non essendo stata disattesa neppure implicitamente da parte della sentenza di primo grado: quest’ultima aveva infatti rigettato la domanda in virtù della ritenuta sussistenza di un giudicato esterno, costituito dalla sentenza del 30 dicembre 1995, confermata in sede di legittimità, con cui la Corte d’appello aveva rigettato l’analoga pretesa precedentemente avanzata dal medesimo attore. L’accoglimento dell’eccezione di giudicato, precludendo il riesame della domanda nel merito, aveva comportato l’assorbimento della questione di prescrizione, avente carattere logicamente e giuridicamente successivo, escludendo quindi la necessità dell’appello incidentale ai fini della riproposizione della stessa in sede di gravame: la parte interamente vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha infatti l’onere di proporre appello incidentale per richiamare in discussione le proprie domande o eccezioni non accolte nella pronuncia, da intendersi come quelle che risultino superate o non esaminate perché assorbite, ma è tenuta soltanto a riproporle espressamente nel giudizio di appello, in modo tale da manifestare la sua volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un comportamento omissivo (cfr. Cass., Sez. Un., 25/05/2018, n. 13195; Cass., Sez. III, 1/12/2023, n. 33649). Nessun rilievo può assumere, in contrario, la circostanza che, dopo aver dato atto
dell’esistenza del giudicato, il Tribunale avesse escluso nel merito l’inefficacia dei decreti di esproprio, allegata a sostegno della nuova domanda di risarcimento, trattandosi con tutta evidenza di un’argomentazione svolta ad abundantiam , in quanto inerente ad una questione preclusa dal giudicato, e quindi estranea alla ratio decidendi della sentenza di primo grado, che l’appellato non aveva l’onere né l’interesse ad impugnare.
16. La sentenza impugnata va pertanto cassata, in accoglimento del primo motivo di ricorso proposto dal Comune, restando assorbiti gli altri motivi ed il ricorso proposto dai Lagani.
La causa va conseguentemente rinviata alla Corte d’appello di Catanzaro, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso del Comune di Crotone, dichiara assorbiti gli altri motivi e il ricorso di COGNOME NOME e COGNOME NOME, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma l’8/01/2025