Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 4867 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3   Num. 4867  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 23/02/2024
Oggetto
Locazione  uso  diverso ─ Risoluzione  per  inadempimento ─ Nullità del contratto per violazione di norme del regolamento  RAGIONE_SOCIALE  sulla  determinazione  del  canone -Eccezione  proposta  per  la  prima  volta  con  il  ricorso  per cassazione -Ammissibilità -Presupposti
Revocazione -Errore di fatto percettivo – Presupposti
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9552/2018 R.G. proposto da COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO (p.e.c.: EMAIL), con domicilio  eletto  in  Roma,  INDIRIZZO,  presso  lo  studio  dell’AVV_NOTAIO;
-ricorrente –
contro
Comune  di  Sciacca,  rappresentato  e  difeso  dall’AVV_NOTAIO (p.e.c.  indicata:  EMAIL),  con  domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO, presso l’AVV_NOTAIO; -controricorrente – avverso  la  sentenza  della  Corte d’appello  di Palermo,  n.  1313/2017, depositata il 13 settembre 2017;
nonché sul ricorso iscritto al n. 10650/2022 R.G. proposto da COGNOME  NOME,  rappresentato  e  difeso  dall’AVV_NOTAIO (p.e.c. indicata: EMAIL), con domicilio  eletto  in  Roma,  INDIRIZZO,  presso  lo  studio dell’AVV_NOTAIO;
-ricorrente –
contro
Comune di Sciacca;
-intimato – avverso  la  sentenza  della  Corte  d’appello  di Palermo,  n.  1613/2021, depositata l’11 ottobre 2021.
Ricorsi riuniti come da separata ordinanza.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 gennaio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 207 del 2015 ─ a conclusione di procedimento promosso con intimazione di sfratto per morosità dal Comune di Sciacca nei confronti di NOME COGNOME e transitato alla fase a cognizione piena ─ il Tribunale di Sciacca dichiarò risolto, per inadempimento del conduttore, il contratto di locazione di immobile ad uso diverso nel quale era subentrato il COGNOME, condannando quest’ultimo a corrispondere all’ente locatore la somma di € 21.814,12, oltre interessi legali, a titolo di canoni scaduti e non pagati.
 La  Corte  d’appello  di  Palermo,  con  sentenza n.  1313/2017, depositata il 13 settembre 2017, ha confermato tale decisione, rigettando  il  gravame  interposto  dal  COGNOME,  sulla  base  delle  seguenti considerazioni:
─ quanto al primo motivo, con il quale si contestava la quantificazione dei canoni operata dal primo giudice perché non avrebbe considerato  il  giudicato  formatosi  in  precedente  giudizio  dal  quale
risultava che le somme già corrisposte erano maggiori di quelle che in sentenza erano state decurtate dal maggiore importo preteso dal Comune, ha rilevato che: a) dalla documentazione acquisita si evinceva che l’a mministrazione appellata aveva in realtà già considerato l’ulteriore versamento cui si riferiva la censura; b) vi era piuttosto un errore di calcolo a danno dell’appellat o che però non aveva proposto appello incidentale, risultando pertanto, in tale direzione, coperta da giudicato la quantificazione operata dal Tribunale;
─ quanto al secondo motivo, con il quale l’appellante si doleva della mancata riduzione del canone richiesta a motivo delle dimensioni dell’immobile, inferiori rispetto a quelle indicate nel contratto di locazione, la Corte ha osservato che il COGNOME era subentrato nel contratto di locazione nella situazione di fatto e di diritto in cui l’immobile già si trovava ancor prima del suo ingresso e non poteva, pertanto, far valere presunti vizi contrattuali in relazione ad accordi ai quali non aveva partecipato; ha inoltre rilevato che, in una nota prodotta dallo stesso appellante (prot. n. 2062 del 5 giugno 2012), le cui risultanze non erano state contestate, si dava atto di un precedente sopralluogo effettuato dai tecnici comunali in data 20 aprile 2012 dal quale era emerso che la superficie utile dei locali di che trattasi era pari a mq. 36,81 a fronte di quella indicata nel contratto in mq. 36,00;
─ quanto al terzo motivo, con il quale l’appellante si doleva del mancato accoglimento da parte del primo giudice della domanda risarcitoria formulata in via riconvenzionale per la perdita di « chances lavorative» ed il calo di clientela causati dai lavori di ristrutturazione del prospetto del palazzo RAGIONE_SOCIALE, la Corte ha rilevato che tale domanda era risultata sfornita di prova e che, peraltro, dalle foto prodotte si evinceva che, nonostante la collocazione dell’impalcato, durante l’esecuzione dei lavori il varco per l’accesso all’agenzia di viaggi era rimasto libero ed era stato anche segnalato in modo palese e visibile da una targa collocata sull’area di cantiere; ha inoltre soggiunto che la quantificazione operata in ricorso (€ 216.578,88) « appare esorbitante
rispetto agli utili fiscali annuali … dichiarati in € 24.064,32, laddove dagli atti processuali viene indicata in circa un anno o poco di più la durata dei predetti  lavori  ma  nessuna  delle  parti  costituite  in  giudizio  ha  fornito precise indicazioni sull’inizio e sulla fine dei lavori di che trattasi »;
─ la Corte panormita ha infine rilevato l’inammissibilità dell’eccezione di nullità del contratto, in quanto tardivamente formulata dall’appellante con le note conclusionali del 25/11/2016 e con comparsa di costituzione di nuovo procuratore del 25/06/2017 corredata da nuova documentazione; ha soggiunto che, comunque, detta eccezione appariva infondata atteso che, trattandosi di locazione commerciale, la determinazione del canone è sempre sottoposta alla libera contrattazione tra le parti, non potendo, quindi, assumere alcuna rilevanza il dedotto mancato rispetto dell’obbligo, imposto dal regolamento RAGIONE_SOCIALE, di acquisire, prima della determinazione del canone, una perizia estimativa del bene concesso in locazione.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto:
 ricorso  per  cassazione,  sulla  base  di  tre  motivi,  iscritto  al  n. 9552/2018  R.G.,  per  resistere al quale il  Comune  di  Sciacca  ha depositato controricorso;
ricorso per revocazione ex art. 395 n. 4 cod. proc. civ., del quale l’adita Corte d’appello di Palermo ─ dopo aver disposto, con ordinanza in data  13/11/2018, ex art.  398,  quarto  comma,  cod.  proc.  civ.,  la sospensione  del  giudizio  già  pendente  in  Cassazione ─ ha  dichiarato l’inammissibilità, con sentenza  n.  1613/2021,  depositata  l’11  ottobre 2021, per la ritenuta natura non revocatoria dei vizi denunciati.
Avverso quest’ultima sentenza il COGNOME ha quindi proposto ricorso per cassazione iscritto al n. 10650/2022 R.G. articolando tre motivi.
In  tale  secondo  procedimento  il  Comune  di  Sciacca  è  rimasto intimato.
 Chiamato  il  primo  ricorso  nell’adunanza  del  16  marzo  2023,  in vista  della  quale  il  ricorrente  aveva  depositato  memoria,  questa  Corte, con  ordinanza  interlocutoria  n.  19181  del  06/07/2023,  essendo  stata
segnalata  dal  nuovo  difensore  della  parte  ricorrente  la  pendenza  del suddetto successivo ricorso avverso la sentenza di rigetto dell’istanza di revocazione,  ha disposto il rinvio della causa  a nuovo  ruolo  per l’eventuale trattazione congiunta.
 Per  la  trattazione  di  entrambi  i  ricorsi  è  stata  quindi  fissata l’odierna  adunanza  camerale  ai  sensi  dell’art.  380 -bis.1 cod.  proc.  civ. con decreti dei quali è stata data comunicazione alle parti.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero; Il ricorrente ha depositato memorie in entrambi i procedimenti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Deve  darsi  atto  che  con  separata  ordinanza,  adottata  all’esito dell’odierna  adunanza  camerale,  è  stata  preliminarmente  disposta  la riunione  al  giudizio  iscritto  al  n.r .g.  9552  del  2018,  di  quello  iscritto  al n.r.g. 10650 del 2022 R.G..
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, i ricorsi per cassazione proposti, rispettivamente, contro la sentenza d’appello e contro quella che decide l’impugnazione per revocazione avverso la prima, in caso di contemporanea pendenza in sede di legittimità, debbono essere riuniti in applicazione (analogica, trattandosi di gravami avverso distinti provvedimenti) dell’art. 335 cod. proc. civ., che impone la trattazione in un unico giudizio di tutte le impugnazioni proposte contro la stessa sentenza, dovendosi ritenere che la riunione di detti ricorsi, pur non espressamente prevista dalla norma del codice di rito, discenda dalla connessione esistente tra le due pronunce poiché sul ricorso per cassazione proposto contro la sentenza revocanda può risultare determinante la pronuncia di cassazione riguardante la sentenza resa in sede di revocazione (Cass., Sez. U, n. 10933 del 7/11/1997, Rv. 509592; Cass., Sez. 3, n. 25350 del 20/09/2021, non massimata; Sez. 5, n. 11955 del 10/06/2016, non massimata; Sez. 3, n. 10534 del 22/05/2015, Rv. 635610; Sez. 1, n. 25376 del 29/11/2006, Rv. 592875; Sez. L, n. 5515 del 12/04/2001, Rv. 545900; Sez. 1, n. 1085 del 26/01/2001, Rv. 543477; Sez. 2, n. 194
dell’11/01/1999,  Rv.  522160;  Sez.  L,  n.  5850  dell’11/06/1998,  Rv. 516392).
 In  ragione  di  quanto  testé  evidenziato,  e  come  del  resto  già rilevato  nella  ordinanza  interlocutoria,  deve  darsi  priorità  all’esame  del ricorso  proposto  avverso  la  sentenza  resa  dalla  Corte  d’appello  di Palermo,  nel  giudizio  promosso  dalla  ricorrente ex art.  395  cod.  proc. civ.,  atteso  il  rilievo  preliminare  e  potenzialmente  assorbente  che  lo stesso riveste.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia « violazione degli artt. 395 n. 4 c.p.c. e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., con riferimento all’infondata e generica presupposta evidenza che l’errore denunciato non abbia rivestito i connotati dell’errore revocatorio ed alla conseguente ingiusta ed erronea dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione per revocazione proposta dal Sig. COGNOME NOME (odierno ricorrente) avverso la sentenza n. 1313/2017 (Tomo C, all. 8) » (così testualmente nell’intestazione).
In apertura dell’ illustrazione del motivo, premesse generiche considerazioni sulla ingiustizia della sentenza d’appello n. 1313/2017 e il riferimento alle due diverse impugnazioni contro la stessa proposte, si dice di voler presentare di seguito un « elenco » de « gli errori di fatto non rilevati dall’adita Corte d’appello in sede di revocazione » (v. pag. 13, quarto capoverso, in grassetto); di fatto poi l’illustrazione si dipana (da pag. 14 a pag. 30) attraverso quattro sottoparagrafi (con inizio rispettivamente alle pagg. 14, 22, 25 e 28), ciascuno contrassegnato da un alinea e aperto dalla indicazione del luogo della sentenza d’appello n. 1313/2017 nel quale sarebbe contenuto l’asserito errore revocatorio ; all’interno di tali sottoparagrafi ci si diffonde poi lungamente nella proposizione di tesi difensive volte a contestare la valutazione del materiale istruttorio versato nel giudizio di appello, dicendola frutto di errore revocatorio.
3.1.  Il  primo  asserito  errore  revocatorio  è,  in  particolare,  così descritto e localizzato (pag. 14, in fine, del ricorso in esame):
« a pagina 3» «ove si conclude la narrazione dello svolgimento del processo (dal 18° al 21° rigo), nella parte in cui si afferma che ” All’udienza del 4.07.2017 le parti concludevano riportandosi rispettivamente all’atto d’appello ed alla comparsa di risposta. La Corte poneva la causa in decisione provvedendo contestualmente a dare lettura del dispositivo della sentenza ‘ … è chiaramente evincibile che la causa è stata decisa senza tener conto delle note conclusionali del 25.11.2016 (Tomo C, all. 6) rassegnate dall’appellante all’udienza del 6.12.2016 …. Da ciò, il preludio: della macroscopica svista di fatti determinanti, tra l’altro, ampiamente ripresi anche con la memoria di costituzione di nuovo procuratore del 25.06.2017 (Tomo C, all. 7); della macroscopica svista sulla loro oggettiva sopravvenienza -rispetto alla sentenza di primo grado ed alle prime fasi del giudizio d’appello- appurabile dalla datazione dei documenti posti a corredo degli atti difensivi e dall’attività amministrativa dagli stessi narrata ».
Sembra comprendersi dalle successive proposizioni che il fulcro della tesi esposta è che l’errore revocatorio (commesso dalla sentenza d’appello e non rilevato da quella resa sulla istanza di revocazione) è rappresentato dall’avere la Corte d’appello « deciso esclusivamente sulla scorta degli elementi di primo grado », senza considerare, in particolare con riferimento al tema centrale della corretta quantificazione dei canoni dovuti, la numeNOME documentazione che si deduce legittimamente prodotta in appello, in quanto sopravvenuta.
3.2. Il secondo asserito errore revocatorio (pagg. 22 -25 del ricorso in esame) inficia, secondo il ricorrente, la sentenza del 2017 nella parte in cui ha rigettato il secondo motivo d’appello affermando che l’appellante,  essendo  subentrato  nel  rapporto  locativo,  non  poteva far valere presunti vizi contrattuali in relazione ad accordi ai quali non aveva partecipato.
L ‘errore, in  parte  qua ,  sarebbe  rappresentato  dalla  « madornale svista  sulla  sopravvenienza  dei  vizi  intervenuti  in  epoca  successiva  al predetto subentro », atteso che non era stato eccepito un vizio originario,
ma  « piuttosto  la  riduzione  della  superficie  dell’immobile  verificatasi durante  la  sua  conduzione,  nonché,  conseguente  all’allocazione  delle nuove aperture esterne che il Comune di Sciacca aveva autonomamente deciso di posizionare ».
Si deduce che « questo fatto era stato esplicitato sia in primo grado (R.G. 332/2014) che in appello (R.G. n. 1228/2015) e, rispettivamente, sia con la comparsa di costituzione con domanda riconvenzionale (Tomo A, da pag. 30 a pag. 35) avverso l’intimazione di sfratto per morosità proveniente dal Comune di Sciacca (Tomo C, all. 1), sia con la memoria autorizzata del 20 giugno 2014 (cfr. Tomo A, da pag. 273 a pag. 277), sia con l’atto che introduceva l’appello (Tomo C, all. 3). Inoltre, a corredo di detti atti, erano state allegate tre foto (Tomo A, da pag. 43 a pag. 45) ed una perizia asseverativa elaborata dall’AVV_NOTAIO (Tomo C, all. 27) (cfr. anche Tomo A, da pag. 55 a pag. 63, Tomo B, all. 33 da pag. 273 a pag. 281 ed all. 34 foto pag. 283 e Tomo C, all.ti 27 e 28) ».
Altro  errore  revocatorio  inficia,  inoltre,  secondo  il  ricorrente,  nello stesso capo la sentenza d’appello, per aver e la Corte siciliana ritenuto, contrariamente al vero, non contestate le risultanze della nota prot. n. 2062 del 5 giugno 2012: tale contestazione invece era contenuta nella perizia di parte (AVV_NOTAIO) prodotta in primo e in secondo grado.
3 .3. L’elencazione prosegue (alle pagg. 25 -28 del ricorso in esame) con il terzo errore revocatorio che, secondo il ricorrente, colpirebbe la statuizione resa sul terzo motivo d’appello, rigettato sul rilievo della mancanza di prova del danno imputato ai lavori di ristrutturazione del palazzo RAGIONE_SOCIALE. Si deduce al riguardo, sotto vari profili, l’inesatta comprensione delle ragioni poste a fondamento della pretesa risarcitoria e l’omessa valutazione delle prove a tal fine offerte.
3.4. Il quarto errore revocatorio in elenco (pagg. 28 -30 del ricorso in  esame) colpisce, in thesi ,  la  sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto tardiva l’eccezione di nullità del contratto.
Tale convincimento  lo  si  dice errato giacché  ─  come,  in  tesi,
incontestabilmente evincibile dalla datazione e dal contenuto dei documenti allegati  alla  memoria  di  costituzione  del  25/06/2017,  alcuni dei  quali,  già  allegati  alle  note  conclusionali  datate  25/11/2016  ─  una parte dei documenti era già presente tra gli atti di causa ed integrava la precedente  produzione  e/o  era  richiamata  dalla  stessa;  un’altra  parte, era sopravvenuta e determinante ai fini dell’individuazione dell’eccepita nullità contrattuale.
Si osserva inoltre che « nessuna delle parti in causa ha mai messo in discussione  la  cogenza  del  regolamento  RAGIONE_SOCIALE  del  2002  per  la determinazione  del  canone  di  locazione:  il  fatto  non  costituì  un  punto controverso su cui la sentenza ebbe a pronunciare; risulta evidentissima la difformità tra il chiesto ed il pronunciato e l’ultrapetizione in violazione dell’art. 112 c.p.c. ».
4. Con il secondo motivo (da pag. 30 a pag. 40 del ricorso) il ricorrente denuncia « violazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. per omesso esame dei fondati motivi, eccepiti da parte attrice, comprovanti la sussistenza dei vari errori revocatori, anche in relazione all’infondatezza delle deduzioni di parte convenuta, integrate dalla comparsa di costituzione e risposta del 28/03/2018 (tomo D), palesemente non attinenti ed ininfluenti sul thema decidendum in sede di revocazione, tra l’altro, smentite dalla semplice lettura dei rispettivi documenti richiamati a comprova » (questa testualmente la rubrica).
La conclusione della illustrazione del motivo, dalla quale se ne può ricavare una attendibile sintesi (altrimenti impossibile), è del seguente testuale tenore: « … siamo di fronte ad evidentissime contraddizioni, tra le deduzioni di controparte e i documenti che la stessa chiama a comprova, trasudanti addirittura dalla comparsa di costituzione e risposta …. Controparte non ha fornito alcun elemento utile volto a dimostrare l’insussistenza dell’errore revocatorio; viceversa, con gli atti, i mezzi di prova e le deduzioni introdotti in seno al procedimento n. 570/2018 R.G., l’odierno ricorrente aveva abbondantemente comprovato che la decisione assunta con la sentenza n. 1313/2017 risultava pregna
di svariati errori di fatto e che pertanto meritava di essere revocata; il Giudice della revocazione, disattendendo totalmente di esaminare predetti rilievi, quindi, omettendo di esaminare “un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” con inverosimile sinteticità  e  per  nulla  appagante  sotto  il  profilo  motivazionale,  ha dichiarato in sentenza sussistente l’errore revocatorio e l’inammissibilità, in quella sede, della domanda dell’odierno ricorrente ».
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia « violazione del combinato disposto degli artt. 132 c.p.c. comma 2 n. 4, della legge 18 giugno 2009 n. 69 e dell’art. 111 comma 6 Cost. in relazione all’art. 360 n. 4 e con riferimento all’anomalia motivazionale con la quale la Corte d’appello di Palermo ha dichiarato inammissibile l’impugnazione per revocazione sulla scorta di un’apparente motivazione ricondotta ad un’inesistente evidenza che l’errore denunciato dall’impugnante non rivestisse i connotati dell’errore revocatorio » (così testualmente nella intestazione).
Lamenta  il  carattere  approssimativo  e,  dunque,  apparente  della motivazione resa dal giudice della revocazione sulla scorta delle seguenti considerazioni, che conviene testualmente riportare:
─ « la svista, cioè il dato della realtà fattuale non esattamente percepito sul quale si imperniava la domanda, risultava appurabile da una semplice comparazione tra: il canone di locazione ed il criterio di determinazione ex art. 4 del regolamento RAGIONE_SOCIALE del 2002 … indicato nelle perizie estimative allegate e/o richiamate dalle delibere di Giunta del luglio/novembre 2015 … sopravvenute sia rispetto alla sentenza di primo grado che all’atto introduttivo del successivo giudizio d’appello …»;
─  « il  Giudice,  errando  finanche  sul  dato  oggettivo  rispondente  alla datazione dei documenti comprovante la rispettiva sopravvenienza degli stessi, dichiarerà il tutto nuovo, tardivo ed inammissibile ;
─ « pertanto, il Giudice, non ha affatto compiuto alcuna valutazione di condotte della realtà fattuale giuridicamente rilevanti, non ha affatto
valutato l’intero compendio probatorio alla stregua del regime giuridico ritenuto applicabile, e,  fondando  la decisione esclusivamente  sugli elementi  di  primo  grado  e  non  valutando  affatto  tutti  gli  elementi sopravvenuti e determinanti introdotti dall’appellante, ha erroneamente ritenuto sussistente la morosità ;
─ « questo ed altri errori di fatto … sono stati oggetto di contestazione in sede di revocazione in quanto frutto di NON valutazione e di sviste »;
─ « il Giudice della revocazione ha dato una motivazione costituita da meno di una pagina e, principalmente, assolutamente priva della benché minima esposizione idonea ad individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione; le ragioni di fatto e di diritto della decisione oggetto dell’odierna impugnazione non hanno neppure fornito un accenno di motivazione idonea a rendere comprensibile le ragioni dell’insussistenza di almeno uno dei vari errori revocatori eccepiti in quella sede ».
Tutti gli esposti motivi si appalesano inammissibili.
Il  primo  lo  è  anzitutto  per  l’assorbente  ragione  che,  come balza evidente già dalla sintesi che se ne è fatta, le doglianze non sono rivolte contro la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione, bensì contro la sentenza d’appello.
Pur prescindendo dalla impossibilità di ravvisare in alcuno dei vizi dedotti la consistenza di errore di fatto percettivo (essendo piuttosto evidente che quelli dedotti sono semmai errori di valutazione e comunque di giudizio) è comunque prioritario e dirimente il rilievo della assoluta eccentricità di tali censure rispetto all’oggetto del rimedio impugnatorio attivato che, occorre ricordare, non riguardava, né poteva farlo, la sentenza d’appello ma la sentenza emessa dal giudice di merito su ricorso per revocazione proposto avverso quella sentenza.
Si trattava, dunque, di far valere eventuali vizi di legittimità, secondo la tassativa tipizzazione di cui all’art. 360 cod. proc. civ., della sentenza
emessa dal giudice della revocazione ed invece il motivo si diffonde nella critica della sentenza d’appello ─ e ciò fa per ben diciassette fitte pagine, con prolissa e faticosa argomentazione, certamente inosservante del dovere di «chiarezza e sinteticità» dettato dal « Protocollo di intesa tra la Corte di Cassazione e il RAGIONE_SOCIALE Forense in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria » del 17 dicembre 2015, ora anche previsto quale requisito di contenuto-forma del ricorso, a pena di inammissibilità, dal nuovo testo dell’art. 366 cod. proc. civ. come modificato dall’art. 3, comma 27, lett. d), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, ma comunque già ricavabile dal testo previgente, applicabile nella specie ratione temporis , del l’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. che fa carico al ricorrente di indicare « i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano » (v. Cass. Sez. U. Ordinanza n. 37552 del 30/11/2021).
Non è certamente sufficiente a convertire tali doglianze in motivi di ricorso avverso la sentenza resa nel giudizio di revocazione l’accessoria affermazione che si tratterebbe di errori revocatori  « non rilevati dall’adita Corte d’appello in sede di revocazione ».
La mera  laconica  allegazione  di tale  mancato  rilievo  non  può configurare un motivo di ricorso di cassazione avverso la sentenza sulla revocazione, difettandone i minimi requisiti strutturali e funzionali; a tal fine sarebbe stato infatti necessario:
anzitutto indicare, nel rispetto degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dagli art. 366 n. 6 e 369 n. 2 cod. proc. civ., se e quali dei presunti errori revocatori erano stati dedotti davanti al giudice della revocazione, il che non è stato in alcun modo fatto, non potendosi certamente ritenere assolto tale onere dal mero generico richiamo ─ leggibile a pag. 11, pt. 2, del ricorso in esame ─ all’atto di citazione introduttivo del giudizio di revocazione e dal correlato invito a considerarlo parte integrante del ricorso;
b)  quindi  evidenziare  se  e  quale  scrutinio  sia  stato  dedicato  a  tali eventuali prospettazioni nella sentenza impugnata;
infine, indicare chiaramente il tipo di vizio cassatorio che, dal raffronto tra i motivi di revocazione e lo scrutinio fattone dal giudice a quo , si intenda denunciare (es. errata interpretazione dei presupposti e dei criteri di valutazione dettati dall’art. 395 cod. proc. civ. o errata applicazione degli stessi ai fatti accertati o omessa pronuncia o motivazione apparente o omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti).
Nulla di tutto ciò si ricava dal motivo in esame il quale ascrive del tutto inammissibilmente  alla sentenza  sulla  revocazione errores in procedendo per violazione degli artt. 395 n. 4 e 112 c.p.c. senza indicare in  alcun  modo  in  quale  passaggio  motivazionale  e  in  che  modo  la sentenza impugnata tali errori sarebbero stati commessi.
In buona sostanza, il motivo, che dovrebbe illustrare la violazione dell’art. 112 c.p.c. con riferimento a pretesi errori di fatto che la corte panormita non avrebbe esaminati, così incorrendo in omessa pronuncia su motivi di impugnazione per revocazione ex n. 4 dell’art. 395 c.p.c., non contiene alcuna attività riproduttiva, né diretta né indiretta, in questo secondo caso rinviando all’atto introduttivo del giudizio di revocazione, precisando la parte corrispondente all’indiretta riproduzione, di ciò che avrebbe integrato motivi di revocazione che la corte di merito avrebbe omesso di esaminare, con conseguente palese inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c.
L’individuazione  dei  motivi  di  impugnazione  non  esaminati,  d’altro canto, non si coglie nemmeno nell’esposizione dl fatto del ricorso.
Il  vero è, come detto, che di tale sentenza il motivo non si occupa affatto  finendo  con  il  proporre  nei  fatti  sussidiarie  censure  in  funzione revocatoria della sentenza d’appello per ovviare all’esito negativo che il precedente tentativo, nella sua sede appropriata, ha avuto.
È appena il caso di soggiungere, ad abundantiam , che, quand’anche quelli rappresentati fossero stati motivi proposti davanti al giudice  della  revocazione  e  quand’anche  il  motivo  potesse  intendersi come  volto  a  censurare,  sotto  i  profili  dedotti,  la  ritenuta  natura  non
revocatoria degli stessi, il motivo si appaleserebbe comunque inammissibile, ex art. 360bis n. 1 cod. proc. civ., avendo il giudice a quo conformato la propria valutazione ai criteri dettati dalla costante giurisprudenza di questa Corte.
Al  riguardo occorre rammentare che l’errore di fatto revocatorio ex art. 395 n. 4 cod. proc. civ.:
 consiste  nell’erronea  percezione  dei  fatti  di  causa  che  abbia indotto la supposizione della esistenza o della inesistenza di un fatto, la cui  verità  è  incontestabilmente  esclusa  o  accertata  dagli  atti  di  causa, sempre  che  il  fatto  oggetto  dell’asserito  errore  non  abbia  costituito terreno  di  discussione  tra  le  parti  (v. e  pluribus Cass.  10/01/2018,  n. 367;  19/05/2017,  n.  12726;    08/03/2016,  n.  4521;    26/03/2015,  n. 6175);
deve  possedere  i caratteri della evidenza assoluta e della immediata  rilevabilità  sulla  base  del  solo  raffronto  tra  la  sentenza impugnata  e  gli atti di causa, senza  necessità di  argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche (v., tra le tante, Cass. 19/05/2017, n. 12726;  13/05/2016, n. 9819;  07/03/2016, n. 4375;  21/10/2014, n. 22286);
non può concernere l’attività interpretativa e valutativa; si deve, cioè, trattare di un errore meramente percettivo, frutto di una errata supposizione, e non di valutazione o di giudizio basati su di una esatta rappresentazione (v. ex multis Cass. 08/02/2000, n. 1373; 04/09/1999, n. 9394; 12/01/1999, n. 226) : l’errore, dunque, non può cadere: i) sul contenuto concettuale delle tesi difensive delle parti (tra le tante, Cass. 21/07/2017, n. 18137; 13/01/2017, n. 791; 13/05/2016, n. 9835); (ii) sull’interpretazione della domanda (v. ex plurimis Cass. 08/08/2017, n. 19715; 18/02/2014, n. 3771; 21/06/2013, n. 15734; 10/03/1992, n. 2884) ; (iii) sull’interpretazione di un contratto ( ex multis , Cass. 24/02/1998, n. 2002; 13/08/1990, n. 8421); (iv) sulla soluzione data dal giudice in ipotesi di contrasto tra documenti di causa; v) sull’interpretazione e valutazione dei fatti di causa e su asserite
violazioni o false applicazioni di norme giuridiche (v., tra le tante, Cass. 30/01/2018, n. 2281; 17/01/2018, n. 1046; 03/02/2017, n. 2921); non configura vizio revocatorio l’omesso esame di domande, eccezioni o motivi di gravame, che non si fondi sull’affermazione della loro mancata formulazione, o l’omesso esame di atti processuali ove la parte affermi essere state svolte argomentazioni giuridiche non considerate (v. ex multis Cass. 25/01/2018, n. 1855; 18/01/2018, n. 1239; 16/11/2017, n. 27167), né il semplice inesatto apprezzamento delle risultanze processuali (v. Cass. 19/01/2018, n. 1464; 23/10/2017, n. 24960; Cass. Sez. U. 15/11/2000, n. 1178);
d) deve trattarsi di errore essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione  erronea  e  la  decisione  revocanda  deve  esistere  un  nesso causale tale da affermare con certezza che, ove l’errore fosse mancato, la pronuncia avrebbe avuto un contenuto diverso (Cass. 25/01/2017, n. 1972;    03/11/2016,  n.  22177;    25/10/2016,  n.  21452;    Sez.  U. 23/01/2009, n. 1666).
Nella specie è del tutto evidente che, anche per la estrema varietà degli elementi cui si fa riferimento, per la gran parte, peraltro, con evidente inosservanza degli oneri di specificità e autosufficienza imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 2 cod. proc. civ., ciò che si denunciava con il ricorso revocatorio contro la sentenza di appello non era e non è un errore percettivo, tanto meno ben individuato su singole e specifiche fonti, bensì l’erronea ricognizione della fattispecie concreta nel suo complesso in quanto frutto di giudizio rispetto alle contrapposte tesi delle parti ovvero il rigetto delle argomentazioni in fatto e in diritto poste a fondamento delle eccezioni e domande svolte nel giudizio di merito, in termini dunque del tutto estranei alla funzione ed al ristretto perimetro di un giudizio revocatorio.
Il secondo motivo è parimenti inammissibile.
La  censura  di  omesso  esame  circa  un  fatto  decisivo  per  il  giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti  è dedotta in termini del tutto  difformi  dal  paradigma  che,  quanto  a  presupposti  e  limiti  di  tale
vizio cassatorio, è ormai stabilmente fissato nella interpretazione di questa Corte (v. Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 -8054: « L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie» )
Nella specie, nell’ambito di una illustrazione se possibile ancora più prolissa, confusa e indecifrabile, si omette di indicare il fatto storico che, con  le  dette  caratteristiche,  non  sarebbe  stato  considerato  seppur decisivo ai fini del giudizio di revocazione.
Anche il terzo motivo è inammissibile.
Ciò che vi si deduce esula dal contenuto che al paradigma del dedotto vizio hanno attribuito Cass. Sez. U. nn. 8053 e 8054 del 2014, citt., secondo le quali: « La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che
si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione ».
Nel  caso  di  specie  non  è  ravvisabile  alcuna  delle  gravi  anomalie argomentative individuate in detti arresti; piuttosto, è la censura a porsi chiaramente al di fuori del paradigma tracciato dalle Sezioni Unite nella misura in cui pretende di ricavare un siffatto radicale vizio della sentenza da elementi estranei alla motivazione stessa (donde la valutazione non di mera infondatezza del motivo, ma di radicale inammissibilità).
La memoria che, come detto, è stata depositata dal ricorrente, ai sensi dell’art.  380 -bis.1 , comma  primo,  cod.  proc.  civ.,  non  offre argomenti  che  possano  indurre  a  diverso  esito  dell’esposto  vaglio  dei motivi.
 Il  ricorso  proposto  nei  confronti  della  sentenza  emessa  nel giudizio di revocazione deve essere pertanto dichiarato inammissibile.
Non avendo la parte intimata svolto difese nell’ambito di tale giudizio non v’è luogo a provvedere sulle relative spese.
12 .  Può  dunque  adesso  procedersi  all’esame del  ricorso  proposto avverso la sentenza stessa di cui si è chiesta , con l’esito testé detto, la revocazione.
13 .  Al  riguardo  deve  anzitutto  rilevarsi  l’infondatezza  dell’eccezione di inammissibilità del ricorso opposta dal controricorrente sul rilievo che lo stesso non sarebbe corredato da idonea procura speciale ex art. 365 cod.  proc.  civ.,  per  essere  quella  conferita  mancante  di  data  e  redatta con caratteri diversi.
Secondo  il  principio  enunciato  dalle  Sezioni  Unite  di  questa  Corte,
con sentenza n. 36057 del 09/12/2022, « a seguito della riforma dell’art. 83 cod. proc. civ. disposta dalla legge n. 141 del 1997, il requisito della specialità della procura, richiesto dall’art. 365 cod. proc. civ. come condizione per la proposizione del ricorso per cassazione (del controricorso e degli atti equiparati), è integrato, a prescindere dal contenuto, dalla sua collocazione topografica; nel senso che la firma per autentica apposta dal difensore su foglio separato, ma materialmente congiunto all’atto, è in tutto equiparata alla procura redatta a margine o in calce allo stesso. Tale collocazione topografica fa sì che la procura debba considerarsi conferita per il giudizio di cassazione anche se non contiene un espresso riferimento al provvedimento da impugnare o al giudizio da promuovere, purché da essa non risulti, in modo assolutamente evidente, la non riferibilità al giudizio di cassazione; tenendo presente, in ossequio al principio di conservazione enunciato dall’art. 1367 cod. civ. e dall’art. 159 cod. proc. civ., che nei casi dubbi la procura va interpretata attribuendo alla parte conferente la volontà che consenta all’atto di produrre i suoi effetti »
Nella  specie  è  del  tutto  evidente  che,  tanto  più  considerando l’espresso riferimento alla sentenza impugnata, né la mancanza di data né l’uso di caratteri diversi da quelli utilizzat i  per  la  stesura  del  ricorso possono costituire elementi che inducano a ritenere, « in modo assolutamente evidente », la procura non riferibile al giudizio di cassazione.
Tanto  meno,  in  mancanza  di  alcuna  previsione  in  tal  senso  e  di alcuna  ragione  logico  sistematica,  può  considerarsi  foriero  di  alcuna conseguenza  processuale,  tale  da  impedire l’accesso al giudizio di legittimità, il mancato deposito del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
14.  Con  il  primo  motivo  il  ricorrente  denuncia  « violazione  dell’art. 1418 comma 1 c.c., e dell’art. 1421 c.c.; violazione dell’art. 117 n. 6, cost. e dell’art. 1 n. 2) delle preleggi disposizioni sulla legge in generale (regio decreto 16/03/1942 n. 262) e violazione dell’art. 97 Costituzione
in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c. » (così la rubrica).
14.1. Lamenta  che  erroneamente  la  Corte  d’appello  ha  ritenuto inammissibile,  perché  tardivamente  proposta,  l’eccezione  di  nullità  del contratto  di  locazione,  benché  si  tratti, ex art.  1421  cod.  civ.,  di eccezione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
14.2. Critica, inoltre, l’aggiuntivo rilievo svolto in sentenza secondo cui  l’eccezione  dovrebbe  ritenersi  comunque  infondata,  dal  momento che, trattandosi di locazione commerciale, la determinazione del canone è sempre sottoposta alla libera contrattazione tra le parti, non potendo, quindi, assumere alcuna rilevanza il dedotto mancato rispetto dell’obbligo, imposto dal regolamento RAGIONE_SOCIALE, di acquisire, prima della determinazione del canone, una perizia estimativa del bene concesso in locazione.
Osserva al riguardo il ricorrente che il regolamento RAGIONE_SOCIALE approvato con delibera di RAGIONE_SOCIALE Comunale n. 109/2002 del 07/05/2002 (di cui viene riportato per esteso l’art. 4, ove si prevede che « nella stipula dei contratti per la concessione di beni immobili, il canone da corrispondersi al comune per l’utilizzo dell’immobile RAGIONE_SOCIALE è determinato, sulla base dei valori correnti di mercato per beni di caratteristiche analoghe, con apposita perizia estimativa effettuata dai tecnici del servizio patrimonio », sulla base degli « elementi essenziali di valutazione » ivi elencati) è fonte del diritto direttamente applicabile e vincolante per le parti, ai sensi dell’art. 117 n. 6, Cost. e dell’art. 1 n. 2 delle preleggi e che, a ragionare diversamente, si attribuirebbe all’RAGIONE_SOCIALE il potere di disapplicarlo secondo sua discrezione nei rapporti con i terzi, in evidente contrasto con i doveri della pubblica amministrazione ed in primis con il principio di imparzialità sancito dall’art. 97 della Costituzione.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia « violazione dell’art. 1419 comma 2 c.c., dell’art. 1421 c.c, violazione dell’art. 117 n. 6, cost. e dell’art. 1 n. 2) delle preleggi disposizioni sulla legge in generale (regio decreto  16/03/1942  n.  262)  e  violazione  dell’art.  97  Costituzione  in
relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c. » (così la rubrica).
Rileva che la clausola di cui all’art. 2) del contratto di locazione (rep. n. 4300 del 2003) ─ a mente della quale il canone è fissato a € 154,94/mq annuali, secondo i prezzi già stabiliti con delibera consiliare n. 97/94 ─ si pone in assoluto contrasto con le norme imperative dettate dal regolamento del 2002 e che pertanto il giudice di appello avrebbe dovuto rilevare la nullità parziale del contratto, ai sensi dell’art. 1419, secondo comma, cod. civ., con la conseguente imposizione all’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di sostituirla facendo applicazione della norma del regolamento.
16. Con il terzo motivo il ricorrente ─ denunciando «violazione dell’art. 11 e 131 d.P.R. nr. 115 del 2002 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.» ─ lamenta che erroneamente la Corte d’appello abbia dichiarato in sentenza la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 per il versamento dell’ulteriore contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1 -bis , del medesimo d.P.R., omettendo di considerare che, per il giudizio di appello, egli era stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, con conseguente esenzione dal pagamento del contributo predetto.
17. Il primo motivo è inammissibile.
Converrà al riguardo rammentare che, se è vero che la nullità del contratto per contrasto con norme imperative costituisce bensì eccezione in senso lato come tale rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio (art. 1421 cod. civ.) (v. Cass. Sez. U. 12/12/2014, nn. 26242 e 26243; Sez. U. 22/03/2017, n. 7294), è anche vero, però, che la rilevabilità officiosa delle eccezioni in senso lato, cioè della rilevanza in iure dei fatti che le integrano, se non è condizionata all’onere di allegazione della parte che dell’eccezione può b eneficiare (secondo la struttura normativa della fattispecie oggetto di giudizio)- dei detti fatti, né tanto meno al rispetto dei termini di preclusione fissati per l’esercizio dei poteri assertivi delle parti circa le c.d. eccezioni in senso stretto, lo è pur sempre però (condizionata) alla emergenza ex actis degli elementi
fattuali (i fatti) sulla cui base quella eccezione possa essere rilevata d’ufficio o dedotta dalla parte interessata (v. Cass. Sez. U. 07/05/2013, n. 10531; Cass. 01/09/2021, n. 23721; 06/05/2020, n. 8525; 31/10/2018, n. 27998; 26/02/2014, n. 4548), assumendo rilevanza, sotto il profilo delle preclusioni all’introduzione dei fatti stessi, il momento in cui, secondo la legge processuale (rito), è previsto che nel processo possano essere dedotti fatti, tuttavia con la relatività derivante dalla possibilità che i fatti integratori di eccezioni in senso lato possano eventualmente emergere, in base al c.d. principio di acquisizione processuale, pure dall’espletamento delle prove ammesse.
Sulla base di queste considerazioni si deve rilevare che la valutazione della eccezione di nullità del contratto in sede di legittimità presuppone che in sede di giudizio di merito siano stati accertati i relativi presupposti di fatto, risultino cioè introdotti e acquisiti quei fatti, anche se non ne sia stata rilevata la valenza in iure , né dalla parte interessata, né dallo steso giudice del merito . La nullità può, infatti, essere bensì rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, ma solo là dove siano acquisiti agli atti del giudizio tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersene l’esistenza (v. ex aliis Cass. n. 4175 del 19/02/2020; n. 3556 del 13/02/2020; n. 25273 del 10/11/2020; v. pure Cass. Sez. U. nn. 26242 e 26243 del 2014, cit., ove è precisato, anche con richiamo al precedente arresto, sul punto confermato, di Cass. Sez. U. 04/09/2012, n. 14828, che « nell’ambito di un giudizio di risoluzione contrattuale , il giudice può rilevare d’ufficio la nullità: a) solo se questa emerge dai fatti allegati e provati, o comunque ex actis … »).
18. Sarà utile in proposito ancora rammentare che Cass. Sez. U. n. 10531  del  2013  intervenne  a  dirimere  un  contrasto  tra  due  opposti orientamenti: un primo, secondo il quale il giudice può rilevare d’ufficio le  eccezioni  in  senso  lato,  anche  in  mancanza  di  allegazione  di  parte, purché risultino dagli atti del processo; un secondo, a mente del quale per il rilievo d’ufficio è pur sempre necessaria l’allegazione della parte in limine litis del fatto oggetto del rilievo officioso.
Le Sezioni Unite, nel 2013, sciolsero il contrasto accogliendo il primo capo  dell’alternativa  e,  cioè,  affermando  la  possibilità  per  il  giudice  di rilevare d’ufficio le eccezioni in senso lato, anche in appello, che risultino documentate ex  actis ,  indipendentemente  da  specifica  allegazione  di parte.
Fecero  però  una  avvertenza:  « questa  è  la  circoscritta  materia  del caso di specie, che non chiede di pronunciarsi anche sulla possibilità di articolare  nuovi  mezzi  di  prova  e  produrre  documenti  allorquando  la parte faccia valere oltre il limite delle preclusioni istruttorie, o in appello, eccezioni rilevabili di ufficio o il giudice rilevi tardivamente tali questioni » (§ 7, inizio di pag. 12).
Questa  precisazione  si  correla  all’inciso  leggibile  nella  parte  finale della motivazione che il Supremo Collegio dedicò alla questione, secondo cui « è confermato che deve essere ammessa in appello la rilevabilità di eccezioni  in  senso  lato,  che  ha  senso  preminente  quando  è  basata  su allegazioni nuove, quantomeno se già documentate ex actis» (§ 7.2 in fine, pag. 14).
Non altrimenti, infatti, può intendersi l’uso dell’avverbio « quantomeno » se non nel senso che, ai fini della (sola) questione in quella occasione affrontata (quella cioè, come detto, se ai fini della rilevabilità officiosa delle eccezioni in senso lato occorresse oppure no la tempestiva allegazione del fatto su cui essa è fondata, nel rispetto delle preclusioni assertive e probatorie), è sufficiente che il fatto sia già documentato ex actis , essendo esplicitamente estromessa dal tema trattato la diversa (sebbene strettamente correlata) questione se, al fine di far valere quelle eccezioni, la parte possa oppure no anche articolare nuovi mezzi di prova e produrre documenti oltre il limite delle preclusioni istruttorie o in appello.
19 .  Orbene,  l’argomentare del ricorrente sembrerebbe -almeno per implicito-  voler  dare  a  tale  secondo  quesito,  espressamente  lasciato  in disparte nell’arresto delle Sezioni Unite, risposta affermativa.
La tesi però va certamente respinta.
Essa anzitutto, va ribadito, seppur trova avallo in parte della dottrina non  ha  mai  trovato  ingresso  nella  giurisprudenza  di  questa  Corte,  la quale anzi ha ripetutamente affermato che il fatto posto a fondamento della  eccezione  in  senso  lato  deve  essere  già  legittimamente  acquisito sul piano probatorio.
Ma vi si oppongono soprattutto ragioni di ordine sistematico che si rinvengono in nuce anche nel citato fondamentale arresto del 2013 delle Sezioni Unite.
Nucleo centrale di quella pronuncia sta nel rilievo che « la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni in senso lato, con la loro ampia nozione, è posta in funzione di una concezione del processo che talora semplicisticamente è stata definita come pubblicistica, ma che, andando al fondo, fa leva sul valore della giustizia della decisione ».
A  questo  rilievo  fa  subito  dopo  da  contraltare  quello  secondo  cui « rispetto a questo valore, le preclusioni operano su altro piano, poiché queste ultime sono essenzialmente un criterio d’ordine, una tecnica per regolare  il  processo,  sempre  con  il  fine  di  pervenire  ad  una  decisione giusta,  pur  prevedendo  un  meccanismo  per  disciplinare  l’attività  delle parti ».
La distinzione dei due piani comporta bensì, nel successivo sviluppo argomentativo, la sottrazione, per le eccezioni in senso lato (come per le mere difese), ai limiti delle preclusioni assertive e istruttorie (aggettivo, quest’ultimo, utilizzato in sentenza evidentemente per individuare la scansione processuale e non il contenuto dell’attività che si sta dicendo essere ad essa sottratta), del potere di allegare o rilevare fatti per esse rilevanti, ma non anche del potere di richiedere o introdurre le fonti (anche documentali) di prova da cui tali fatti, se ancora non provati da alcuna fonte o mezzo di prova ritualmente acquisita, possano emergere.
Al primo dei piani distinti dalle Sezioni Unite appartiene certamente il potere  di  allegazione  e  rilevazione  di  fatti  (già  provati)  ad  oggetto  di eccezioni  in  senso  lato;  al  secondo  appartiene  invece  l’esercizio  dei poteri istruttori.
Un conto è, infatti, consentire che la parte alleghi e/o rilevi dopo la scadenza delle preclusioni e anche in appello o che il giudice rilevi fatti che, già documentati o provati in atti, ossia ritualmente acquisiti, evidenziano l’infondatezza della pretesa sebbene alla stregua di eccezione non allegata dalla parte interessata nella fase procedimentale deputata all’esercizio dei poteri assertivi (es. pagamento del debito o interruzione della prescrizione): ed è a questo risultato che certamente deve condurre quella concezione del processo che le Sezioni Unite condivisibilmente negano possa definirsi pubblicistica, essendo piuttosto solo funzionale al « valore della giustizia della decisione ».
Altro e ben diverso discorso è invece piegare a tale valore anche le esigenze di regolazione ordinata del processo e dell’esercizio dei poteri delle parti e del giudice, come avverrebbe se si ritenesse consentito di sottrarre alle preclusioni non solo il potere di allegare e rilevare fatti (già provati nel processo) ma anche di provare e, dunque, a monte di introdurre come oggetto di prova, per la prima volta quei fatti, rimettendo in moto una fase procedimentale che deve invece considerarsi ormai chiusa, nell’ordinato svolgimento del processo (connotato imprescindibile del « giusto processo regolato dalla legge »: art. 111, comma primo, Cost.; art. 6 Cedu).
20. Peraltro, come rimarcano le Sezioni Unite nel citato arresto del 2013,  si  tratta  di  piani  che  sono  « sempre  rimasti  distinti  nel  testo normativo ».
In tale direzione argomentativa particolarmente significativo appare il riferimento (nel § 7.2.2. della sentenza) proprio al testo novellato dell’art. 345 cod. proc. civ. nel quale come sottolineano le Sezioni Unite -, accanto alla scelta di ribadire espressamente, nel secondo comma, che nel giudizio di appello possono proporsi nuove eccezioni purché siano rilevabili anche d’ufficio, convive quella, nel terzo comma, di escludere l’ammissibilità di nuove prove e nuovi documenti (esclusione ancora più rigo NOME dopo la modifica introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. 0b, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla
legge  7  agosto  2012,  n.  134,  che  ha  eliminato  il  limite  a  tale  divieto prima costituito dalla «indispensabilità» delle nuove prove).
Non potrebbe dirsi più chiaramente che ammettere in appello l’allegazione (o la rilevazione ufficiosa) di nuove eccezioni in senso lato o di mere difese (art. 345, secondo comma) non significa anche ammettere nuove prove, anche documentali, ancorché dirette a provare i fatti allegati ad oggetto di dette eccezioni o difese (art. 345, terzo comma); la stretta contiguità topografica delle norme avrebbe, infatti, altrimenti imposto di precisare che il divieto di cui al terzo comma non vale per le eccezioni in senso lato e le mere difese ammesse nel secondo.
Queste, pertanto, deve in definitiva ribadirsi, intanto potranno sortire l’effetto per le quali sono dedotte, in quanto trovino riscontro si fondino, su fatti già ritualmente acquisiti al processo, ma dei quali non si sia né dalla parte interessata né dal giudice del grado precedente rilevata l’efficacia, il valore in iure . Ancorché -come precisano le Sezioni Unite -non necessariamente debba a tal fine trattarsi di elementi di prova, scilicet di fatti, offerti dalla parte interessata, potendo anche essere rappresentati da « risultanze comunque disponibili negli atti di causa (in quanto provenienti da produzioni dello stesso attore o di altri convenuti, ovvero da esiti di consulenza tecnica o da dichiarazioni spontanee dei testimoni) » (per tali considerazioni, certamente estendibili anche ai giudizi soggetti, come quello di che trattasi, al rito del lavoro, e segnatamente all’art. 437 c.p.c. il quale pone limiti, come si dirà, non dissimili alle allegazioni consentite nel giudizio di appello, v., in motivazione, Cass. 22/03/2022, n. 9246; 11/02/2022, n. 4579; 01/02/2023, n. 2963; 11/07/2023, n. 19714).
21.  Nella  specie,  in  ordine  alla  ricavabilità  di  un  tale  accertamento dagli  atti  del  giudizio  di  merito  non  vi  è  da  parte  del  ricorrente assolvimento dell’onere di cui all’art. 366, comma primo, num. 6, cod. proc. civ.: egli omette, infatti, di indicare dove e come i fatti integratori della pretesa nullità fossero stati introdotti nel processo e sarebbero stati
rilevabili.
Anzi, la sola indicazione al riguardo offerta -ovvero quella secondo cui la documentazione a corredo della eccezione di nullità sia stata prodotta, unitamente all’atto (costituzione di nuovo procuratore) depositato in data 1 luglio 2017, con cui si prospettava la detta nullità ─ conferma che, per l’appunto, gli elementi di fatto sulla cui base poter operare una tale valutazione, sono stati introdotti per la prima volta in vista dell’udienza di discussione della causa in appello (tenutasi, secondo quanto è detto in sentenza, il 4 luglio 2017) secondo il rito del lavoro. Il che conferma che in precedenza tali allegazioni di fatto non erano state proposte e che lo furono, inammissibilmente, solo in appello.
Sul punto varrà rammentare che, secondo principio assolutamente fermo nella giurisprudenza di questa Corte, « nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli artt. 416, terzo comma, cod. proc. civ., che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 – e 437, secondo comma, cod. proc. civ. che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti -, l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello. Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento – ispirato alla esigenza
della ricerca della “verità materiale”, cui è doveNOMEmente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse » (Cass. Sez. U. n. 8202 del 20/04/2005, Rv. 580935 -01, e succ. conff.).
22.  Le  ulteriori  argomentazioni  critiche,    volte  a  contestare  la subordinata motivazione circa l’insussistenza della dedotta nullità, sono a loro volta inammissibili in quanto investono una valutazione, del giudice a  quo , circa  la  fondatezza  nel  merito  del  motivo,  da  ritenersi  preclusa per difetto di jus postulandi dalla preliminare delibazione negativa sulla ammissibilità dello stesso.
Viene infatti in rilievo, e va qui ribadito, il principio affermato da Cass. Sez. U. n. 3840 del 20/02/2007 secondo il quale qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si è spogliato della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata.
23.  Varrà  comunque,  incidentalmente  e ad  abundantiam ,  rilevare anche l’infondatezza di tali critiche.
Si deve infatti escludere che, quand’anche fossero risultati acquisiti in  giudizio  gli  elementi  di  fatto  da  cui  desumere  la  dedotta  violazione della  norma  del  regolamento  RAGIONE_SOCIALE,  ne  sarebbe  potuta  discendere
l’invocata declaratoria di nullità del contratto.
Ferma la detta preclusione per difetto di jus postulandi ed astraendo da  essa,  deve  invero  considerarsi  corretta  la  valutazione  sul  punto espressa, in subordine, dalla Corte territoriale, non potendo la violazione di una disposizione regolamentare ─ violazione qui solo ipotizzata a fini argomentativi ─ trovare sanzione nell’ordinamento statale, governato, in materia  di  locazione  di  immobili  ad  uso  diverso,  dal  principio  generale della libertà di contrattazione.
 Per  le  stesse  ragioni  va  dichiarato  inammissibile  il  secondo motivo di ricorso.
Il terzo motivo è, infine, parimenti inammissibile alla luce del principio enunciato da Cass. Sez. U. n. 4315 del 20/02/2020 secondo cui « il giudice dell’impugnazione, ogni volta che pronunci l’integrale rigetto o l’inammissibilità o la improcedibilità dell’impugnazione, deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo del contributo unificato anche nel caso in cui quest’ultimo non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venir meno (come nel caso di ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato); mentre può esimersi dalla suddetta attestazione quando la debenza del contributo unificato iniziale sia esclusa dalla legge in modo assoluto e definitivo »; spetterà, dunque, all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento.
La memoria che, come detto, è stata depositata dal ricorrente, ai sensi dell’art.  380 -bis.1 , comma  primo,  cod.  proc.  civ.,  non  offre argomenti  che  possano  indurre  a  diverso  esito  dell’esposto  vaglio  dei motivi.
 Anche  il  primo  ricorso  (iscritto  al  n.  9552/2018  R.G.)  deve dunque, in conclusione, essere dichiarato inammissibile.
Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da
dispositivo.
29. Va dato atto della sussistenza, con riferimento a ciascuno dei ricorsi qui trattati unitariamente, dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P .R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13. 
P.Q.M.
La Corte dà atto che con separata ordinanza è stata disposta la riunione al procedimento iscritto al n. NUMERO_DOCUMENTO R.G. di quello iscritto al n. NUMERO_DOCUMENTO R.G.; dichiara inammissibili entrambi i ricorsi. Condanna il ricorrente alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate (con riferimento al primo procedimento) in Euro 2.300 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza, con riferimento a ciascuno dei ricorsi trattati unitariamente,  dei  presupposti  processuali  per  il  versamento,  da  parte del  ricorrente,  dell’ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo  unificato,  in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13.
Così  deciso  in  Roma,  nella  Camera  di  consiglio  della  Sezione  Terza