Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32466 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 32466 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 13/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19959/2022 R.G. proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende ex lege; -ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME, COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliati a ll’ indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE, l’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende;
-controricorrenti- avverso DECRETO di CORTE D’APPELLO SALERNO n. 398/2021 depositata il 10/02/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/06/2024 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con ricorso ex art. 2 della L. n. 89 del 2001, COGNOME NOME, COGNOME NOME, Cuoco NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, Cuoco NOME, alla Corte d’appello di Salerno il riconoscimento dell’equo indennizzo per l’irragionevole durata di un processo penale, instaurato a seguito degli eventi franosi verificatisi in Sarno il 5.5.2008 in cui erano costituiti parti civili, e del processo civile introdotto in seguito all’affermazione della responsabilità penale degli imputati per ottenere il risarcimento dei danni.
Con decreto del 18.3.2021, il Giudice Designato della Corte di appello di Salerno accolse, per quanto di ragione, il ricorso.
La Corte d’appello, decidendo sull’opposizione proposta dai ricorrenti, con decreto del 20.9.2021, per quanto ancora di rilievo in questa sede, affermò il principio secondo cui, nell’ipotesi in cui la parte civile si sia costituita in un processo penale che si era concluso con l’affermazione della responsabilità dell’imputato, il giudizio civile successivamente introdotto per la determinazione del danno non costituisce un autonomo giudizio, sicché i due giudizi devono essere sottoposti ad una valutazione unitaria.
Avverso il citato decreto, il Ministero della Giustizia ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
Cuoco NOME COGNOME NOME Cuoco NOME, Cuoco NOME COGNOME NOMECOGNOME Cuoco NOME hanno resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001,n. 89, in relazione
all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c, per avere la Corte d’appello errato nell’affermare che, nell’ipotesi di costituzione di parte civile nel processo penale, conclusosi con l’affermazione della responsabilità dell’imputato, il giudizio civile successivamente introdotto per la determinazione del danno non costituisca un autonomo giudizio, e, ai fini del calcolo del termine i due giudizi debbano essere sottoposti a una valutazione unitaria. Osserva il Ministero come il principio dell’unitarietà del giudizio penale con costituzione di parte civile e del successivo giudizio civile per la quantificazione dei danni non sia assoluto ma debba essere calibrato alle peculiarità del caso concreto, secondo le indicazioni espresse dalla sentenza di questa Corte n. 4476/2007. Il ricorrente evidenzia che, secondo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, è scoraggiata la proposizione dell’azione civile nel processo penale, attese le diverse finalità e la diversa struttura dei due giudizi, il primo volto all’accertamento della responsabilità dell’imputato, il secondo alla quantificazione e liquidazione del danno (Corte Cost., sentenza N.249/2020). Il doppio processo non rappresenterebbe, pertanto, un percorso necessario, se non a seguito dell’opzione del danneggiato di partecipare al processo penale, ben potendo far valere i crediti in un autonomo giudizio civile, ragione per la quale la durata dei due giudizi non dovrebbe essere automaticamente cumulata per il calcolo della durata ragionevole del giudizio. Dovrebbe, invece, essere valutato il comportamento del danneggiato nel processo penale, per accertare se si sia attivato per fornire al giudice penale elementi di prova per la quantificazione del danno, sì da escludere che la condanna generica consegua alla sua generica attività assertiva e probatoria. Nel caso di specie, la parte civile non avrebbe svolto un ruolo attivo nel processo penale ed avrebbe omesso di fornire qualunque apporto
probatorio; più specificamente, la parte civile non avrebbe impugnato le sentenze di proscioglimento degli imputati, prestandovi acquiescenza ed avrebbe chiesto genericamente la liquidazione del danno nelle conclusioni rassegnate nel processo penale; solo in sede civile, la parte avrebbe articolato le richieste istruttorie sicchè la condotta in sede penale sarebbe stata connotata da inerzia tale da impedire di valutare i due giudizi in modo unitario.
Con il secondo motivo di ricorso, si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. perché, considerata la separazione tra il giudizio penale e giudizio civile, la domanda di equa riparazione relativa all’irragionevole durata della vicenda penale sarebbe tardiva perché non proposta entro il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che aveva definito il giudizio penale sicchè la domanda di indennizzo avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per tardività rispetto al termine di cui all’art. 4, L. 89/2001.
Con il terzo motivo di ricorso, è denunciata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2, co. 2 -bis , della legge 24 marzo 2001, n. 89 in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, per avere la Corte d’appello erroneamente considerato il giudizio civile per la quantificazione dei danni, accertati con condanna generica in sede penale, come una ‘fase di rinvio’ e non come giudizio autonomo, ancorché connesso, rispetto al precedente processo penale, conseguentemente stimandone la durata ragionevole in anni uno e non in anni tre.
I motivi vanno trattati unitariamente perché sottopongono a questa Corte la questione di diritto del calcolo del termine di ragionevole durata del processo, in cui la parte civile si sia costituita in un processo penale che si sia concluso con l’affermazione della
responsabilità dell’imputato, e del giudizio civile successivamente introdotto per la determinazione del danno.
I motivi sono infondati.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito come, in tema di ragionevole durata del processo, allorquando venga proposta l’azione civile nel giudizio penale e tale giudizio si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell’imputato e di condanna generica dello stesso (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile, che venga introdotto per la determinazione in concreto del danno, non costituisce un autonomo giudizio, e, stante l’identità della pretesa sostanziale azionata, i due giudizi devono essere sottoposti a una valutazione unitaria (Cassazione civile sez. II, 25/07/2023, n.22356; Cassazione civile sez. VI, 04/03/2015, n.4436; Cass.4477/2007)
Non vi è dubbio, infatti, che con la costituzione di parte civile nel giudizio penale la persona offesa dal reato esercita il proprio diritto ad ottenere il risarcimento dei danni conseguenti dal reato; allorquando la domanda risarcitoria venga accolta in sede penale, ma con una pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, la domanda successivamente proposta dinnanzi al giudice civile non costituisce altro che la medesima domanda proposta in sede penale a mezzo di costituzione di parte civile, volta al perseguimento del medesimo bene della vita, e cioè il risarcimento del danno prodotto dal reato.
Deve dunque escludersi che, allorquando la persona offesa eserciti il proprio diritto in sede penale e il giudizio si concluda con una sentenza di condanna generica al risarcimento del danno, il giudizio introdotto dinnanzi al giudice civile possa essere qualificato come un
diverso giudizio, in riferimento alla domanda fatta valere, identica essendo la pretesa azionata nel giudizio penale e in quello civile.
Ne consegue che, ai fini della valutazione della ragionevole durata del processo, ai sensi dell’art.2 della L 24 marzo 2001, n.89, il giudice dell’equa riparazione non può limitarsi a rilevare la diversa natura dei giudizi nei quali la medesima pretesa viene fatta valere, per giungere alla conclusione che della durata del giudizio penale conclusosi con sentenza di condanna generica al risarcimento dei danni non può tenersi conto nel computo del tempo complessivo occorso per pervenire in sede giurisdizionale ad una sentenza di condanna suscettibile di essere posta in esecuzione. Il giudice dovrà, infatti, tenere presente che la pretesa sostanziale è unica e che quindi unitaria deve essere la valutazione della durata occorsa per pervenire alla sua definizione nei sensi ora indicati.
Del resto, non può non rilevarsi, ai fini che qui interessano, che l’esercizio dell’azione civile in sede penale non è destinato necessariamente e comunque a dare luogo ad una sentenza di condanna generica, non potendosi escludere che in sede penale vengano svolti accertamenti idonei a pervenire alla definizione del quantum del danno da liquidare una volta accertata la responsabilità penale dell’imputato. Sicchè non è sufficiente la mera rilevazione della diversità dei giudizi, rendendosi invece necessario valutare se, nel giudizio penale, la parte civile abbia limitato la propria domanda alla richiesta di una condanna generica dell’imputato (o del responsabile civile), con riserva di agire in sede civile per la determinazione del quantum, ovvero se una domanda di condanna ad una somma determinata sia invece stata proposta.
Altro è il caso in cui il giudizio penale si concluda senza una pronuncia sul merito dell’azione civile e la parte civile non attivi i rimedi
impugnatori previsti ai fini dei soli effetti civili, altro è il caso in cui, come in quello oggetto del presente giudizio, il giudizio penale giunga a compimento con l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato e con la sua condanna al risarcimento del danno, sia pure da liquidare in separato giudizio.
Nel primo caso, tra l’azione civile promossa in sede penale e quella successiva proposta davanti al giudice civile non può ravvisarsi unitarietà, dal momento che il giudizio civile dovrà tendere all’accertamento dell’ an della pretesa risarcitoria, che in alternativa la parte civile avrebbe potuto continuare a coltivare in sede penale; nel secondo caso, invece, la domanda proposta in sede civile costituisce lo strumento che l’ordinamento appresta in favore della persona offesa per poter pervenire alla pronuncia sulla propria unica pretesa di una sentenza di condanna al risarcimento del danno in misura determinata.
In conclusione, deve affermarsi che, in tema di ragionevole durata del processo, allorquando venga proposta l’azione civile nel giudizio penale e tale giudizio si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell’imputato e di condanna generica del medesimo (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile che venga introdotto per la determinazione in concreto del danno non costituisce un autonomo giudizio, insuscettibile di valutazione unitaria, stante la identità della pretesa sostanziale azionata nell’uno e nell’altro giudizio.
A tali principi si è uniformata la Corte d’appello e, poiché il processo penale si era concluso con l’affermazione della penale responsabilità degli imputati, il termine di decadenza, previsto dall’art.4 della L.89/2001 decorreva non dalla data di definizione del processo penale
ma dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che ha definito la controversia civile ed ha quantificato il risarcimento del danno.
Correttamente, la Corte d’appello ha considerato il giudizio civile come prosecuzione del giudizio penale, determinandone la durata in un anno e non in tre anni, ai sensi dell’art. 2, comma 2 -bis , della legge 89/2001.
Solo la decisione pronunciata all’esito del giudizio civile era idonea a definire la controversia e segnare la decorrenza del termine decadenziale al suo passaggio in giudicato, termine che non era decorso al momento dell’introduzione del giudizio di equa riparazione.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 1.050,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione