Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1601 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 1601 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 22/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24039/2023 R.G. proposto da: NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME COGNOME (CODICE_FISCALE;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO DI SALERNO n. 645/2022, depositato il 20/04/2023;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME proponeva opposizione avverso il decreto n. 1920/2022 emesso dal Consigliere Delegato dalla Corte d’Appello di Salerno -Sez. Lavoro, con il quale veniva rigettata la domanda di equa riparazione proposta dall’opponente, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, per l’irragionevole durata della procedura fallimentare svoltasi innanzi al Tribunale di Nocera Inf. a far data dal 24.10.1996 e definita con decreto di chiusura del fallimento del 30.07.2021, per una durata complessiva di circa 25 anni.
A fronte di un passivo molto elevato, erano state intentate varie azioni revocatorie, alcune delle quali conclusesi favorevolmente per la massa.
La Corte d’Appello di Salerno Sez. Lavoro, in composizione collegiale, confermando – con argomentazioni ulteriori e in parte diverse – il giudizio di non meritevolezza espresso dal Giudice Delegato, rigettava l’opposizione con decreto n. 645/2022 qui impugnato.
A sostegno della sua decisione, il giudice dell’opposizione osservava che:
il comportamento del fallito tenuto sia anteriormente sia nel corso della procedura si pone in contrasto con l’art. 2, comma 2 -quinquies della legge n. 89/2001, per aver egli agito o resistito in giudizio consapevole dell’infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, ossia, nel caso di specie, per avere egli agito in danno dei creditori sottraendo fraudolentemente beni alla garanzia patrimoniale (lett. a); ovvero non compiendo quanto in suo dovere per consentire alla procedura di ricostruire tempestivamente l’effettività
del patrimonio e del movimento degli affari, con ciò incidendo in maniera rilevante sui tempi della procedura (lett. d);
b) ai sensi dell’art. 2, comma 2septies della legge n. 89/2001 si presume parimenti insussistente il danno quando la parte ha conseguito, per effetto della irragionevole durata del processo, vantaggi patrimoniali eguali o maggiori rispetto alla misura dell’indennizzo altrimenti dovuto, consistenti – nel caso di specie – nel godimento di beni immobili rimasti nella sua disponibilità, invece di essere prontamente messi a disposizione per il soddisfacimento dei creditori, nonché nell’induzione dei creditori ad accettare fortissime riduzioni del proprio soddisfacimento, tanto da risparmiare al fallito ingenti debenze. Infine, rilevava il giudice dell’opposizione la valenza negativa da assegnare al comportamento del fallito anche con riferimento all’aver egli temerariamente proposto opposizione alla declaratoria di fallimento, ulteriormente contribuendo l’appesantimento della procedura e all’allungamento dei relativi tempi.
Avverso detta decisione proponeva ricorso per Cassazione NOME COGNOME affidandolo ad un unico motivo e illustrandolo con memoria.
Resiste il Ministero della Giustizia.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., in relazione all’art. 2, comma 2bis , legge n. 89/2001. In tesi, a mente della norma da ultimo menzionata, la durata di una procedura fallimentare non deve essere superiore ai sei anni. Inconferenti appaiono le motivazioni addotte dalla Corte d’Appello per addivenire al rigetto della domanda di equa riparazione per un fallimento durato 25 anni, cioè oltre quattro volte il termine definito ragionevole dal legislatore.
1.1. Il motivo è fondato.
1.2. Il Collegio non condivide la ricorrenza -affermata dalla Corte territoriale – delle condizioni di applicazione dell’art. 2, comma 2 -quinquies lett. a) e d) legge Pinto.
Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il comportamento della parte rileva nella misura in cui abbia determinato un ingiustificato allungamento dei tempi del processo in cui si assume essersi verificata una violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, dovendosi escludere che abbia influenza il comportamento anteriore al processo, ancorché al processo medesimo egli abbia dato causa. Pertanto, il fatto che il COGNOME abbia agito, sia pure con piena consapevolezza, avendo egli – a giudizio della Corte territoriale – temerariamente proposto opposizione alla declaratoria di fallimento; e il fatto che egli, con il suo comportamento anteriore alla dichiarazione di fallimento, abbia posto le premesse delle azioni revocatorie successivamente esercitate dalla curatela fallimentare a tutela delle ragioni della massa, non vale di per sé a giustificare la durata delle azioni revocatorie medesime, e di riflesso del procedimento fallimentare (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 6577 del 2023; Cass. Sez. 2, nn. 22498, 28499 del 15.12.2020; Cass. n. 10074/2008).
Con riferimento, poi, alla condotta tenuta dal COGNOME nel corso della durata della procedura, va ricordato come questa Corte abbia affermato che non possa considerarsi motivazione pertinente e logica, ai fini del rigetto delle richieste di equo indennizzo, il richiamo operato dal giudice della equa riparazione alla mancanza di iniziative da parte del fallito nei confronti degli organi della procedura fallimentare per accelerarne la definizione, quale indice rivelatore di una sofferenza e patema d’animo meno avvertiti, avuto anche riguardo alla posizione di
mera attesa cui il fallito è assoggettato nel corso della procedura di cui si tratta (Cass. nn. 22498, 28499 del 2020, cit.; Cass. n. 2247/2007).
1.2.1. Non ricorre neanche l’ipotesi di cui al comma 2 -septies legge n. 89 del 2001.
La Corte territoriale opera una generica qualificazione del vantaggio conseguito dal fallito sia nell’occupare personalmente il primo piano (e relativo arredamento storico) di un immobile di pregio per tutta la durata della procedura fallimentare, sia nel godere indirettamente della disponibilità dell’appartamento del secondo piano dello stesso immobile, nonché di altri immobili siti in varie località e in parte nella disponibilità di familiari del fallito; senza, inoltre, tenere conto del fatto che l’unità immobiliare da lui abitata era detenuta nella sua qualità di custode, riconosciutagli dallo stesso curatore fallimentare (v. sentenza p. 9, righi 6 e 7), e senza precisare né il come né il quantum del vantaggio patrimoniale tratto dall’asserita disponibilità degli altri immobili (v. sentenza p. 9, 2° capoverso).
Né il Collegio condivide la qualificazione effettuata dalla Corte territoriale di indebito vantaggio alle riduzioni e rinunce delle pretese dei creditori, che -soprattutto se chirografari -possono anche derivare dall’urgenza di trasformare transattivamente i propri cr editi in poste attive di altra natura, a prescindere dalla durata della procedura fallimentare.
1.3. Ritenuta, quindi, l’insussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari idonee, in termini positivi (commi 2quinquies e 2septies dell’art. 2, legge Pinto), ad escludere che alcun danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo fosse stato subìto dal ricorrente, con riferimento all’art. 2, comma 2 -bis della legge Pinto, deve ricordarsi che è pur vero che nell’accertare la violazione del termine di ragionevole durata del processo occorre acclarare quanta
parte della durata irragionevole sia imputabile al comportamento delle parti e quanta al comportamento del giudice o di altri organi della procedura o a disfunzioni dell’apparato giudiziario (cfr. Cass 17.1.2011, n. 950). Sotto tale profilo, è innegabile che il giudice deve imputare innanzitutto al fallito il tempo eccedente la durata «ragionevole» correlata alle iniziative, segnatamente giudiziarie, resesi necessarie onde vanificare gli atti lesivi della garanzia patrimoniale e della par condicio creditorum dal debitore posti in essere sia in pendenza della procedura concorsuale sia in epoca antecedente alla sua apertura, nel periodo «sospetto» (Cass. Sez. 2, n. 6577 del 06.03.2023; Cass. nn. 22498, 28499 del 2020, cit.; Cass. Sez. 2, n. 1831 del 25.01.2017).
Tanto, beninteso, salva dimostrazione del contrario, come nel caso che ci occupa, ovvero a meno che il fallito non deduca specificamente, fornendone puntuale dimostrazione, che le iniziative giudiziarie, pur necessitate dal suo indebito comportamento, si sono protratte oltre la misura imposta dalla legge (6 anni) per ragioni ascrivibili all’ufficio fallimentare ovvero all’organo giudiziario dall’ufficio fallimentare appositamente adito.
1.4. Ha, pertanto, errato la Corte d’Appello di Salerno, in presenza di una procedura fallimentare durata circa 25 anni, a negare l’ an del diritto alla equa riparazione al creditore ammesso al passivo, non bastando ad escludere l’indennizzabilità per una procedura concorsuale protrattasi secondo i tempi anzidetti la constatazione della valenza negativa del comportamento del fallito.
In definitiva, il decreto della Corte d’Appello di Salerno merita di essere cassato, e il giudizio rinviato alla medesima Corte in diversa composizione affinché stabilisca la durata irragionevole della procedura fallimentare nei termini sopra precisati, decidendo altresì sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, in accoglimento del ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda