Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 6873 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 6873 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16399/2024 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in SALERNO LUNGOMARE TRIESTE, 84 DOMICILIO DIGITALE, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in COGNOME INDIRIZZO NOME COGNOMEINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende
avverso il DECRETO del TRIBUNALE di NAPOLI NORD n. 974/2024 depositato il 17/05/2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Napoli Nord, con decreto n. 4189/2024, depositato il 17.5.2024, ha rigettato il reclamo proposto dalla Banca Nazionale del Lavoro avverso il decreto con cui il G.D. della procedura di sovraindebitamento, ex art. 3 L. 3/2012, dei signori NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME ha ritenuto non ammissibile la domanda di insinuazione, in via ipotecaria, del credito di € 239.908,42, oltre interessi di mora al tasso convenuto, derivante da un contratto di mutuo ipotecario stipulato con atto a rogito del notar NOME COGNOME del 25.2.2008.
Il giudice di merito ha evidenziato la peculiarità del procedimento di formazione dello stato passivo nella procedura di sovraindebitamento ex L. n 3/2012, improntato ad un’esigenza di concentrazione e celerità, caratterizzato da una forte limitazione del potere del giudice nella fase sia di accertamento del passivo che di liquidazione dell’attivo, con la conseguenza ha detto -che è pienamente coerente con tali elementi l’omessa previsione della possibilità dei creditori di presentare domande tardive di ammissione al passivo, oltre il termine previsto dal liquidatore; cosa che ha una sua ragionevolezza, avendo il legislatore controbilanciato tale limitazione con la previsione di particolari presidi di garanzia per gli stessi creditori (quali adeguate forme di pubblicità per la presentazione della domanda).
Il tribunale ha, altresì, richiamato indirizzi giurisprudenziali di merito che hanno parimenti escluso l’ammissibilità di domande
tardive in relazione alla natura sintetica e semplificata della procedura e che hanno escluso l’applicazione analogica delle disposizioni fallimentari.
Infine, il Tribunale di Napoli Nord ha richiamato la nuova disciplina del CCII (art. 273), che consente il deposito delle domande tardive solo nel caso in cui il ritardo sia dipeso da causa non imputabile.
Avverso il predetto decreto ha proposto ricorso per cassazione la Banca Nazionale del Lavoro spa, affidandosi a tre motivi.
RAGIONI DELLA DECISIONE
E’ stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 14 sexies lett. b), septies e octies L. n. 3/2012 .
Espone la ricorrente che il decreto impugnato contrasta con il tenore letterale dell’art. 14 sexies lett b) legge cit., atteso che il ritenere inammissibili le domande tardive si traduce nella previsione di una decadenza non contemplata da alcuna disposizione di legge, che non si giustifica neppure con l’impianto normativo previsto dalla L. n. 3 /2012., da cui non si evince la volontà del legislatore di fissare una decadenza a carico dei creditori che abbiano presentato una domanda ‘tardiva’.
La ricorrente evidenzia, altresì, che sebbene l’art. 14 septies l. 3/2012 delinei un modello procedimentale più snello, inferire, da tale ‘semplificazione’, l’inammissibilità, non prevista dalla norma, delle domande ‘tardive’, vorrebbe dire ipotizzare un’ingiustificata compressione del diritto di difesa dei creditori, assolutamente incompatibile con i principi consacrati negli artt. 24 e 111 Costituzione, e con la finalità satisfattiva della procedura sopra richiamata.
Ad avviso della ricorrente, la procedura di liquidazione, sebbene ‘semplificata’, non appare ispirata al principio di accelerazione e contenimento dei tempi.
Al contrario, è lo stesso legislatore ad avere previsto, all’art. 14 nonies comma 5 l. 3/2012, un lasso di tempo piuttosto lungo per la conclusione del procedimento, nella parte in cui dispone che la chiusura della procedura non possa essere pronunciata dal giudice prima ‘ del decorso del termine di quattro anni dal deposito della domanda’.
Inoltre, argomenti a sostegno della tesi del collegio di merito non possono essere tratti nemmeno dall’art. 267 ( rectius , 270 CCII.) atteso che l’impianto normativo del codice della crisi di impresa è successivo alla legge 3/2012, ed ha introdotto una disciplina innovativa che non avrebbe avuto senso se il sistema avesse già imposto la soluzione dell’inammissibilità delle domande pervenute oltre il termine, salva la non imputabilità del ritardo.
Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 152 c.p.c.
Espone la ricorrente che l’art. 14 sexies I comma lett. b) legge cit. assegna, non al giudice, ma al liquidatore il compito di determinare la data ultima entro la quale i creditori sono onerati di presentare la domanda di ammissione al passivo, senza comminare alcuna sanzione per il mancato rispetto del termine.
Ritenere, dunque – come ha fatto il collegio campano – non accettabili le domande ‘tardive’ di ammissione al passivo, e, così, impedire ai creditori, che hanno presentato la propria domanda oltre il termine fissato dal liquidatore, di partecipare al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione, vuol dire violare l’art. 152 c.p.c. ed individuare un’ipotesi di decadenza non prevista dalla legge.
Né, ad avviso della ricorrente, possono condividersi le ragioni espresse, dal giudice a quo in ragione della natura ‘non processuale’ del termine assegnato: anche a voler supporre che il termine in parola non sia processuale, e, dunque, abbia natura ‘sostanziale’, non ne potrebbe derivare, quale ‘logico corollario’, che non sia necessaria la previsione di alcuna decadenza. Al
contrario, in ragione dell’assenza di un’espressa statuizione, legale o negoziale, la sua violazione non implicherebbe la perdita di alcuna facoltà per la parte onerata.
Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 12 delle preleggi in relazione all’art. 101 L.F.
Espone la ricorrente che le numerose affinità tra la procedura ex artt. 14 ter e ss. L. 3/2012 ed il fallimento ex R.D. 267/1942, legittimano un’applicazione analogica dell’art. 101 L.F. Né le differenze tracciate dal tribunale di merito appaiono sufficienti ad escludere che le lacune contenute nella l. 3/2012 possano essere colmate dalle previsioni della legge fallimentare.
Al contrario, come affermato da una parte della giurisprudenza di merito, sono numerosi i punti di contatto tra le due procedure che legittimano l’applicazione analogica dall’art. 101 L.F., che stabilisce che le domande tardive di insinuazione al passivo fallimentare possono essere presentate entro il termine di ‘di dodici mesi dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo’: trasponendo il dettato di quella norma nella struttura procedimentale delineata dalla l. 3/2012 per la procedura di sovraindebitamento in esame, ritiene la ricorrente che le domande tardive di insinuazione al passivo di una procedura di liquidazione del patrimonio possono essere proposte fino a dodici mesi, dalla comunicazione dello stato passivo da parte del liquidatore.
Nel caso di specie, proprio ricorrendo all’applicazione analogica dell’art. 101 L.F., la domanda di insinuazione al passivo proposta dalla Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. deve essere considerata ammissibile. La liquidatrice della procedura ha, infatti, trasmesso lo stato passivo in data 05/12/2022 e, a fronte di quell’invio, l’odierna ricorrente ha inviato la propria domanda di insinuazione il 03/01/2024, prima che spirasse il termine di un anno ed un mese (in ragione della cd. ‘sospensione feriale dei termini’ ex l. 742/1969), dalla definitiva formazione dello stato passivo.
4. Tutti e tre i motivi, da esaminare unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono infondati.
La ricorrente ha invocato l’applicazione analogica dell’art. 101 L.F. (che al comma 1° consente la proposizione delle domande tardive depositate oltre il termine di trenta giorni prima dell’udienza di verifica del passivo e non oltre quello di dodici mesi dal deposito di del decreto di esecutività dello stato passivo) e deduce la violazione dell’art. 12 delle preleggi del codice civile, evidenziando le numerose affinità tra la procedura ex artt. 14 ter e ss. L. 3/2012 ed il fallimento ex R.D. 267/1942, che legittimerebbero un’applicazione analogica di tale norma. Ad avviso della ricorrente, in particolare, trasponendo il dettato di quella stessa norma nella struttura procedimentale delineata dalla L. 3/2012 per la procedura di sovraindebitamento in esame, le domande tardive di insinuazione al passivo di una procedura di liquidazione del patrimonio potrebbero essere proposte fino a dodici mesi dalla comunicazione dello stato passivo da parte del liquidatore.
Questo Collegio ritiene che, erroneamente, la ricorrente ha invocato l’applicazione analogica dell’art. 101 comma 1° L.F., prospettando un’interpretazione dell’art 14 sexies lett b L. n. 3/2012 come se il suo testo presentasse una lacuna e necessitasse di un’integrazione.
La norma in oggetto è, invece, determinativa di un testo autosufficiente, atteso che la mancata previsione da parte del legislatore della L. n. 3/2012 della possibilità di proporre domande tardive è frutto di una scelta dello stesso legislatore, che non ha ritenuto ammissibile altro che la domanda tempestiva.
Le Sezioni Unite, nella sentenza n 38596/2021, hanno chiarito che il ricorso all’analogia non può mai giustificarsi in funzione ‘creativa’ da parte del giudice, ma solo quando ricorrano determinati precisi presupposti, esplicitati nei termini che seguono:
‘…..L’interpretazione, o applicazione, analogica o per analogia è costituita dunque dal procedimento mediante il quale chi interpreta ed applica il diritto può sopperire alle eventuali deficienze di previsione legislativa (c.d. lacuna dell’ordinamento giuridico) facendo ricorso alla disciplina normativa prevista per un caso “simile”, ovvero per “materie analoghe”: ciò, in forza dei principi fondamentali del nostro ordinamento, secondo cui il giudice deve decidere ogni caso che venga sottoposto al suo esame (“obbligo di non denegare giustizia”) e deve assumere la relativa decisione applicando una norma dell’ordinamento positivo (“obbligo di fedeltà del giudice alla legge” ex art. 101, comma 2, Cost.) (Cass. 8 agosto 2005, n. 16634).
Segnatamente, quindi, per poter ricorrere al procedimento per analogia, è necessario che: i) manchi una norma di legge atta a regolare direttamente un caso su cui il giudice sia chiamato a decidere; li) sia possibile ritrovare una o più norme positive (c.d. analogia legis) o uno o più principi giuridici (c.d. analogia iuris), il cui valore qualificatorio sia tale che le rispettive conseguenze normative possano essere applicate alla situazione originariamente carente di una specifica regolamentazione, sulla base dell’accertamento di un rapporto di somiglianza tra alcuni elementi (giuridici o di fatto) della vicenda regolata ed alcuni elementi di quella non regolata: costituendo il fondamento dell’analogia la ricerca del quid comune mediante il quale l’ordinamento procede alla propria “autointegrazione” (così ancora la menzionata decisione). Onde l’analogia postula, anzitutto, che sia correttamente individuata una “lacuna”, tanto che al giudice sia impossibile decidere, secondo l’incipit del precetto («se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione …»); l’art. 12, comma 2, preleggi si spiega storicamente soltanto nel senso di evitare, in ragione del principio di completezza dell’ordinamento giuridico, che il giudice possa pronunciare un non
liquet, a causa la mancanza di norme che disciplinino la fattispecie. La regola, secondo cui l’applicazione analogica presuppone la carenza di una norma nella indispensabile disciplina di una materia o di un caso (cfr. art. 14 preleggi), discende dal rilievo per cui, altrimenti, la scelta di riempire un preteso vuoto normativo sarebbe rimessa all’esclusivo arbitrio giurisdizionale, con conseguente compromissione delle prerogative riservate al potere legislativo e del principio di divisione dei poteri dello Stato. Onde non semplicemente perché una disposizione normativa non preveda una certa disciplina, in altre invece contemplata, costituisce ex se una lacuna normativa, da colmare facendo ricorso all’analogia ai sensi dell’art. 12 preleggi. Ciò tanto più quando si tratti di estendere l’applicazione di una disposizione specifica oltre l’ambito di applicazione delineato dal legislatore, ovvero di applicarla “analogicamente” a vicenda concreta da questi non contemplata ed in presenza di diversi presupposti integrativi della fattispecie…’ .
Dunque, non si può ricorrere all’applicazione analogica semplicemente perché una disposizione normativa non preveda una certa disciplina, in altre invece contemplata, non integrando tale situazione ex se una lacuna normativa. L’analogia postula, infatti, che sia correttamente individuata una “lacuna”, tanto che al giudice sia impossibile decidere altrimenti (art. 12 preleggi: «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione …»). La previsione si spiega storicamente nel senso di evitare, in ragione del principio di completezza dell’ordinamento giuridico, che il giudice possa pronunciare un non liquet , a causa della mancanza di norme che disciplinino la fattispecie.
Non è questo il caso di specie, atteso che, come sopra evidenziato, la disciplina dei termini nella presentazione delle domande di partecipazione alla liquidazione del patrimonio del sovraindebitato è ‘compiuta’ e se non prevede la disciplina delle domande tardive ciò
si giustifica in ragione della peculiarità di tale procedura, improntata alla massima semplicità e celerità.
Non si può accedere all’interpretazione invocata dalla ricorrente neppure prospettando che il termine di cui all’art. 14 sexies lett b) L. n. 3 /2012 non è stato previsto a pena di decadenza, con la conseguenza che una diversa interpretazione si porrebbe in conflitto con l’art. 152 c.p.c.
Sul punto, va osservato, che tale norma disciplina i termini per il compimento degli atti del processo, mentre gli atti del procedimento di liquidazione del patrimonio del sovraindebitato non sono atti processuali in senso proprio: sono atti di un procedimento concorsuale di liquidazione di beni, non di un vero processo a parti contrapposte funzionale a una tutela dichiarativa.
In questo senso soccorre ciò che questa Corte ha affermato in procedimenti di analogo taglio.
In generale, ove ci si trovi in presenza di atti che non hanno natura processuale in senso stretto, questa Corte ha affermato che il carattere perentorio di un termine non deve necessariamente risultare esplicitamente dalla norma, potendosi desumere dalla funzione, ricavabile con chiarezza dal testo della legge, che il termine è chiamato a svolgere (v. Corte Cost. n. 107/2003; Cass. S.U. n. 1111/1994; vedi anche Cass. n. 2608/1984; Cass. n. 1288/1988).
Dopodiché, questa Corte (vedi Cass. n. 30247/2019), in analoga prospettiva qual è quella della liquidazione concorsuale dell’eredità beneficiata, ha affermato ‘ che il termine previsto dall’art. 498, comma 2, c.c., entro il quale l’erede deve invitare i creditori e i legatari a presentare le dichiarazioni di credito, ha natura perentoria, in quanto coerente con l’esigenza di procedere in tempi ragionevoli alla liquidazione dell’eredità; in funzione della medesima necessità è perentorio anche il termine, fissato dal
notaio, entro il quale i creditori e i legatari possono presentare le dichiarazioni di credito’.
Dunque, nella fattispecie di cui all’art. 498 c.c., caratterizzata dall’analoga situazione del concorso di più creditori e dalla liquidazione di un patrimonio (in questo caso ereditario), benché il termine ivi previsto non sia espressamente previsto come perentorio, questa Corte ha ritenuto di desumere la perentorietà dall’esigenza acceleratoria della procedura, che indubbiamente si riscontra anche nella liquidazione del patrimonio del debitore sovraindebitato. Non vi è dubbio, infatti, che, anche in confronto con la disciplina della procedura fallimentare, l’esigenza di procedere alla rapida liquidazione del patrimonio emerge (nel sovraindebitamento) con evidenza sia nella fase di verifica del passivo, che in quella di eventuale contestazione della decisione sull’ammissione del credito, e pure in quella di liquidazione dell’attivo, fasi la cui regolamentazione è caratterizzata dalla massima semplificazione del rito.
Nella procedura fallimentare, è il giudice delegato che provvede necessariamente all’esame di ciascuna domanda e forma lo stato passivo, mentre nella liquidazione ex art. 14 ter e ss. L. n. 3/2012 è il liquidatore che, dopo aver provveduto (come il curatore fallimentare) a predisporre il progetto di stato passivo, ove non vi siano osservazioni, lo approva, con la conseguenza che l’intervento del giudice è solo eventuale, in presenza di contestazioni non superabili. Anche la fase di eventuale impugnazione della decisione del giudice è assai più snella rispetto alla procedura fallimentare, non essendo previsto nella procedura di sovraindebitamento un vero e proprio procedimento di impugnazione articolato e minutamente disciplinato, come quello di cui all’art. 99 L.F., atteso che con il richiamo dell’art. 14 octies comma 4° all’art. 10 comma 6°, il legislatore ha previsto la possibilità di proporre reclamo con un procedimento del tutto deformalizzato, come si evince dal
riferimento agli artt. 737 e ss c.p.c., in quanto compatibili, che prevede termini sensibilmente più brevi di quelli previsti dal procedimento ex art. 99 L.F.
Pure, la fase liquidatoria è più snella, atteso che nella procedura fallimentare il programma di liquidazione ex art. 104 ter L.F. soggiace a termini specifici e alla susseguente sottoposizione al comitato dei creditori. Laddove, invece, nella procedura di liquidazione, a norma dell’art. 14 novies L. cit., il liquidatore deve elaborare il programma entro termini ben più ristretti (trenta giorni dalla formazione dell’inventario) e depositarlo direttamente in cancelleria, senza necessità di approvazione di altro organo. Invero, ‘tale programma deve assicurare la ragionevole durata della procedura’.
Insomma, emerge, con evidenza che, analogamente alla liquidazione dell’eredità beneficiata prevista dall’art. 498 c.c., anche la procedura di liquidazione del sovraindebitato è tutta improntata, oltre che alla semplificazione, al suo sollecito svolgimento.
Tale conclusione non può essere confutata – come pretenderebbe la ricorrente con il richiamo all’art. 14 nonies comma 5 l. 3/2012, che dispone che la chiusura della procedura non possa essere pronunciata dal giudice prima ‘ del decorso del termine di quattro anni dal deposito della domanda’. Sul punto, va osservato che tale norma va raccordata con l’art. 14 quinques comma 4°, secondo cui ‘ la procedura rimane aperta sino alla completa esecuzione del programma di liquidazione e, in ogni caso, ai fini di cui all’art. 14 undecies per i quattro anni successivi al deposito della domanda ‘. Orbene, il motivo per cui il legislatore ha previsto che la chiusura della procedura non possa essere pronunciata dal giudice prima ‘del decorso del termine di quattro anni dal deposito della domanda’ è perché in questi quattro anni, a norma dell’art. 14 undecies, gli eventuali beni sopravvenuti in capo al sovraindebitato
possono formare oggetto di liquidazione. Si tratta di una norma, ispirata ad un’esigenza di cautela, finalizzata a rafforzare la possibilità di soddisfacimento dei creditori, che giustifica che la procedura di liquidazione non possa essere formalmente chiusa prima dei quattro anni dal deposito della domanda, circostanza assolutamente non incompatibile con la previsione, già evidenziata, dell’art. 14 novies comma 1°, secondo cui ‘il programma deve assicurare la ragionevole durata della procedura’.
Ne segue che i termini che il legislatore ha previsto per la verifica dello stato passivo e per l’esame delle domande hanno un significato pregnante, e non possono ritenersi, ‘inutili’ come sostanzialmente pretenderebbe la ricorrente – solo perché non espressamente previsti a pena di decadenza.
La loro perentorietà -oggi d’altronde riconosciuta nel CCII (art. 270) -discende quindi dalla loro funzione.
Pertanto, è preclusa al creditore la semplice presentazione di domande di partecipazione alla liquidazione oltre il termine ex art. 14 sexies lett. b) L n. 3/2012, salvo che il creditore tardivo non giustifichi il suo ritardo nell’ottica di un’istanza di remissione in termini (art. 153 c.p.c.), dimostrando l’esistenza della causa non imputabile che abbia determinato la decadenza.
Correttamente, pertanto, nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto l’inammissibilità della domanda presentata dalla ricorrente successivamente alla scadenza del termine stabilito dal liquidatore.
La ricorrente non ha neppure invocato la non imputabilità del ritardo, limitandosi ad invocare, erroneamente, per quanto tutto sopra illustrato, l’applicazione analogica dell’art. 101 comma 1° L.F. In questa sede va enunciato il seguente principio di diritto:
‘Gli artt. 14 -ter e seg. della l. n. 3 del 2012 contengono una disciplina compiuta della liquidazione del patrimonio del sovraindebitato, nella quale il termine ex art. 14 sexies lett b) – la cui concreta determinazione è rimessa all’organo della liquidazione
– è termine di fonte legale avente specifica funzione acceleratoria della procedura; ne segue che, pur non essendo espressamente previsto dalla legge a pena di decadenza, il termine va considerato perentorio. Pertanto, è preclusa al creditore la semplice presentazione di domande di partecipazione alla liquidazione oltre il termine citato, salvo che il creditore tardivo non giustifichi il suo ritardo nell’ottica di un’istanza di rimessione in termini (art. 153 c.p.c.), dimostrando l’esistenza della causa non imputabile che abbia determinato la decadenza’.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in € 7.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del DPR 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1° bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il 26.2.2025