Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14276 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14276 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 28/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8287 R.G. anno 2021 proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME COGNOME , rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME domiciliati presso l’avvocato NOME COGNOME
ricorrenti
contro
Alverà NOME e NOME De NOME COGNOME , rappresentate e difese dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME presso il quale sono domiciliate;
contro
ricorrenti avverso la sentenza n. 7/2021 depositata il 5 gennaio 2021 della Corte di appello di Venezia.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 aprile 2025 dal consigliere relatore NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. –NOME COGNOME ha agito in giudizio nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE proponendo nei confronti degli stessi una domanda risarcitoria per la complessiva somma di euro 8.250.000,00.
L’attore ha dedotto che COGNOME si era reso dolosamente inadempiente all’obbligo di trasferirgli il 50% delle quote della società RAGIONE_SOCIALE, cedute fiduciariamente a detto convenuto, e ha prospettato una responsabilità extracontrattuale delle persone fisiche convenute in giudizio per aver posto in liquidazione la società RAGIONE_SOCIALE al fine di eludere un sequestro giudiziario ottenuto con riguardo alla quota oggetto di intestazione fiduciaria.
In via subordinata, l ‘ attore ha poi agito ex art. 2476 c.c., anche quale sostituto processuale di RAGIONE_SOCIALE nei confronti del socio e amministratore COGNOME lamentando che alla liquidazione della società fosse seguita l’alienazione dell’azienda a una società terza, RAGIONE_SOCIALE
Si sono costituiti in giudizio COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME COGNOME. Tutti i detti convenuti hanno eccepito la prescrizione delle azioni proposte nei loro confronti e contestato nel merito la fondatezza delle stesse. Per quanto qui rileva le nominate COGNOME e COGNOME COGNOME si sono difese assumendo di non aver mai amministrato la società RAGIONE_SOCIALE, di cui la seconda ha allegato non essere stata nemmeno socia; NOME COGNOME ha contestato il nesso causale e l’elemento soggettivo quanto alla messa in liquidazione di Sec.
All’udienza di prima comparizione l’attore ha chiesto l’accertamento della nullità della delibera assembleare del 9 gennaio 1999, con la quale l’assemblea aveva deliberato un compenso all’amministratore di lire 150.000.000: ha sostenuto che la data della suddetta delibera non era veridica e che la determinazione risultava essere successiva al 9 settembre 1999, data in cui era stato disposto
il sequestro giudiziario; ha inoltre formulato domanda di responsabilità per mala gestio nei confronti dell’amministratore, sostenendo che la messa in liquidazione risultava essere frutto di false appostazioni nei bilanci degli anni 1999 e 2000.
Il Tribunale di Venezia, previa separazione delle posizioni di NOME COGNOME e NOME COGNOME ha respinto, con sentenza pubblicata il 10 agosto 2017, le domande risarcitorie proposte nei confronti delle stesse, condannando l’attore al pagamento delle spese processuali.
Avverso tale sentenza hanno proposto appello sia COGNOME che le due convenute COGNOME e COGNOME.
La Corte di Venezia, con sentenza pubblicata il 5 gennaio 2021, in accoglimento del gravame incidentale delle ultime due, ha riformato la sentenza di primo grado rideterminando l’ammontare delle spese processuali cui era tenuto l’attore nei confronti delle due convenute; ha invece respinto l’appello principale di COGNOME.
Questi ora ricorre per cassazione facendo valere quindici motivi di impugnazione. Resistono con controricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME COGNOME Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
– Va dis att esa l’istanza di riunione del presente giudizio a quello di cui al R.G. n. 26370/2024 vertente sulla responsabilità di NOME COGNOME: le posizioni processuali delle odierne controricorrenti, distinte da quella del nominato COGNOME, furono infatti disgiunte fin dal primo grado, allorquando il Tribunale di Venezia dispose la separazione del giudizio relativo a NOME COGNOME e NOME COGNOME , come ricordato nella memoria dell’odierna parte ricorrente; non vi è ragione che giustifichi, in questa sede di legittimità, la refluenza delle due vicende processuali in una trattazione unitaria.
─ Col primo motivo si prospetta la violazione o erronea applicazione dell’art. 183, comma 5, c.p.c.. Viene dedotto, in sintesi,
che le domande svolte in prima udienza da parte attrice risultavano essere ammissibili in quanto «conseguenza e reazione all’eccezione dei convenuti», dovendosi escludere che l’ingresso delle stesse fosse giustificato avendo riguardo al momento dell’insorgenza dell’interesse alla loro proposizione.
Col secondo mezzo si oppone la violazione dell’art. 183, comma 6, c.p.c., oltre che l’omesso esame di un motivo di appello in violazione dell’art. 112 c.p.c .. Si impugna la sentenza per aver conferito valore di novità alla «domanda da fatto illecito costituente reato» consistente nell’elusione del sequestro giudiziario e nella truffa e per aver reputato nuove, e dunque inammissibili, le domande come modificate con la memoria ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c., pur se strettamente connesse alla vicenda sostanziale dedotta e non implicanti alcuna modifica del petitum.
Il primo e il secondo mezzo possono essere esaminati unitamente al settimo, con cui si prospetta la violazione degli artt. 183, commi 5 e 6, 112 e 115 c.p.c.. Si imputa, qui, alla Corte di merito di aver attribuito alla retrodatazione della delibera assembleare di attribuzione dei compensi risalente al 9 gennaio 1999 una qualificazione che non le si addiceva, rifiutandosi di valutare la stessa come fatto storico rilevante ai fini della decisione.
I primi due motivi investono la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di appello, al pari del Tribunale, ha reputato inammissibili per tardività due domande aventi ad oggetto la nullità della delibera assembleare del 9 gennaio e una responsabilità per mala gestio . Ha osservato la Corte di Venezia che si era in presenza non già di una modificazione delle domande originarie, ma di vere e proprie nuove domande; ha rimarcato, al riguardo, che lo stesso appellante aveva precisato che con tali domande «aveva inteso arricchire di nuovi elementi, attraverso l’esercizio di due ulteriori azioni, la domanda risarcitoria in origine proposta», escludendo, alla stregua di queste
stesse allegazioni, che le domande in questione potessero «essere considerate come alternative o incompatibili con quelle formulate nell’atto introduttivo».
I due motivi non meritano accoglimento.
Va anzitutto osservato, con riguardo al primo motivo, che la domanda avente ad oggetto la declaratoria della nullità della delibera assembleare non è stata proposta nei confronti della stessa parte che aveva sollevato l’eccezione , onde non può essere qualificata come domanda conseguente a quest’ultima .
Si osserva, poi, quanto segue.
La sentenza impugnata si pone in linea di continuità con l’insegnamento delle Sezioni Unite , di cui conviene riportare un passaggio fondamentale: « La vera differenza tra le domande ‘nuove’ implicitamente vietate – in relazione alla eccezionale ammissione di alcune di esse – e le domande ‘modificate’ espressamente ammesse non sta nel fatto che in queste ultime le ‘modifiche’ non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate ‘nuove’ nel senso di ‘ulteriori’ o ‘aggiuntive’, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate -eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali -, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività. In questo pertanto, secondo la disciplina positiva enucleabile dalla struttura dell’art. 183 c.p.c., sta tutto il loro non essere domande ‘nuove’, rispetto ad un divieto implicitamente ricavato dalla (e pertanto oggettivamente correlato alla) necessità espressa di prevedere l’ammissibilità di alcune specifiche domande ‘nuove’ aventi la caratteristica di non essere alternative alla (o sostitutive della) domanda iniziale, ma di aggiungersi ad essa: in pratica, con la modificazione della domanda iniziale l’attore, implicitamente rinunciando alla precedente domanda (o, se si vuole, alla
domanda siccome formulata nei termini precedenti alla modificazione), mostra chiaramente di ritenere la domanda come modificata più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio » (Cass. Sez. U. 15 giugno 2015, n. 12310, in motivazione).
Ora, la Corte di merito ha ritenuto che l’originario attore, con l’iniziativa di cui si è detto, avesse proposto «nuove domande», e non avesse quindi apportato semplici «modifiche» alle domande originarie: e tale conclusione si rivela corretta alla luce del rilievo per cui, come si è visto, era stato lo stesso COGNOME a chiarire di aver inteso proporre «due ulteriori azioni»: locuzione del tutto chiara nell’escludere la portata meramente emendativa dell’intervento operato sul thema decidendum .
Dopodiché, occorre ricordare che il quarto comma dell’art. 183 c.p.c. consente all’attore di proporre nella prima udienza di trattazione domande nuove e diverse rispetto a quella originariamente proposta, solo ove esse trovino giustificazione nella domanda riconvenzionale o nelle eccezioni proposte dal convenuto, da intendersi in senso proprio, non anche nelle semplici controdeduzioni volte a contestare il fondamento dell’azione (Cass. 13 maggio 2016, n. 9880; Cass. 12 novembre 2013, n. 25409; Cass. 11 marzo 2006, n. 5390): la norma consente, cioè, all’attore, nella prima udienza di trattazione, di proporre le sole domande e le eccezioni, anche nuove, che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto, ma non attribuisce alle parti la facoltà di proporre domande nuove che potessero essere proposte già con la citazione o con la comparsa di risposta (Cass. 2 settembre 2005, n. 17699). Ebbene, la ricorrente non fornisce alcuna utile indicazione che consenta di superare il giudizio formulato dalla C orte di appello circa l’inammissibilità delle richiamate nuove domande.
Non è del resto punto concludente l’affermazione dei ricorrenti secondo cui la Corte di appello avrebbe preteso si fornisse la prova che l’interesse all a domanda fosse sorto dopo la proposizione della avverse
deduzioni, quasi che questo fosse un elemento ulteriore rispetto a quelli costitutivi della fattispecie contemplata d all’art . 183, comma 5, c.p.c.; la detta Corte si è limitata a valorizzare, sul piano probatorio, la circostanza per cui parte attrice non aveva contestato l’insussistenza di una relazione di causalità tra difese delle odierne ricorrenti e nuova domanda: questo è, con tutta evidenza, il senso del l’affermazio ne per cui COGNOME non aveva «confutato il fatto che l’interesse alla proposizione delle nuove domande non sorto dalle difese dei convenutì».
Poiché si verte in tema di domande «nuove» era poi escluso che le stesse potessero trovare ingresso nella prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., in cui era consentito far luogo alla sola modificazione delle domande iniziali: in tal senso, non giova ai ricorrenti la deduzione, svolta all’interno del secondo motivo, circa la «fattispecie unitaria» di illecito posta a fondamento della loro domanda (pag. 32 del ricorso); il limite al l’estensione del thema decidendum trovava ostacolo, come si è visto, nella proposizione di domande aggiuntive che non costituivano reazione alle opzioni difensive della parte convenuta e che la Corte di appello ha per tale ragione reputato inammissibili.
Sempre col secondo motivo la parte ricorrente si duole dell’omessa pronuncia su di una censura di appello, vertente sul fatto che RAGIONE_SOCIALE aveva potuto prendere visione della documentazione della società RAGIONE_SOCIALE solo nel maggio 2015. In realtà, la Corte di merito ha ritenuto che la proposizione di nuove domande poteva trovare giustificazione solo nella necessità, in fatto non ravvisata, di replicare alle domande e alle eccezioni di controparte, onde non si configura alcuna omessa pronuncia: infatti, non ricorre il vizio di omessa pronuncia ove la decisione comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione, da ritenersi ravvisabile quando la pretesa non espressamente esaminata risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia, nel senso che la domanda o l’eccezione,
pur non espressamente trattate, siano superate e travolte dalla soluzione di altra questione, il cui esame presuppone, come necessario antecedente logico-giuridico, la loro irrilevanza o infondatezza (Cass. 26 settembre 2024, n. 25710; cfr. pure: Cass. 30 gennaio 2020, n. 2153; Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29191; Cass. 20 settembre 2013, n. 21612; Cass. 4 ottobre 2011, n. 20311).
Quanto al settimo motivo, è del tutto evidente che la circostanza della retrodatazione della delibera relativa ai compensi sia rimasta estranea al thema decidendum proprio in quanto integrava il fatto costitutivo della domanda di accertamento della nullità della delibera stessa: domanda che – come si è visto è stata correttamente dichiarata inammissibile.
La parte ricorrente pare supporre una sorta di fungibilità tra i fatti costitutivi delle diverse domande proposte dall’attore in primo grado : ma è indubbio che la domanda risarcitoria da essa spiegata, avendo ad oggetto un diritto eterodeterminato, esigeva che l’attore indicasse espressamente i fatti materiali che assumeva essere stati lesivi del proprio diritto (Cass. 4 maggio 2018, n. 10577; Cass. 12 ottobre 2012, n. 17408), non potendo gli istanti contare sulla valorizzazione, a tal fine, dei fatti materiali posti a fondamento di domande diverse.
3 . -Il terzo motivo prospetta la violazione dell’art. 2043 c.c., nonché l’erronea applicazione dell’art. 42 c.p.. Con riguardo alla posizione di NOME COGNOME si lamenta non essersi considerato, ai fini della configurazione della responsabilità per fatto illecito costituente reato, l’elemento soggettivo della colpa.
Tale mezzo di censura riguarda la posizione di NOME COGNOME COGNOME La Corte di appello, con riguardo all’operazione consistente nel la cessione del ramo di azienda della società RAGIONE_SOCIALE, con cui, secondo i ricorrenti, si era concorso allo «svuotamento» della prima, ha osservato che l’acquisto era stato effettuato da NOME COGNOME
amministratore di RAGIONE_SOCIALE, e che la responsabilità dell’odierna controricorrente, invocata sulla base della disciplina dell’art. 110 c.p. , in materia di concorso nel reato, doveva escludersi «perché la responsabilità a titolo di concorso postula pur sempre la sussistenza dell’elemento psicologico del dolo (nella fattispecie dei reati di cui agli artt. 388 e 640 c.p., ipotizzati in sede penale), che in concreto è rimasto indimostrato non può desumersi sic et simpliciter dal rapporto di parentela tra le parti».
Il motivo è inammissibile.
Sul piano della responsabilità penale, cui si raccorda la responsabilità civilistica che qui viene in esame, occorre ricordare che non è configurabile, in linea di principio, il concorso colposo nel delitto doloso in assenza di una espressa previsione normativa, non ravvisabile nell’art. 113 c.p. che contempla esclusivamente la cooperazione colposa nel delitto colposo, di talché, nei delitti, la condotta colposa che accede al fatto principale doloso è punibile solo in via autonoma, a condizione che integri una fattispecie colposa espressamente prevista dall’ordinamento (Cass. pen. 7 marzo 2024, n. 22280; Cass. pen. 19 luglio 2018, n. 7032). Vero è che ove la legge penale non preveda espressamente la punibilità del fatto anche a titolo di colpa l’esistenza di una condotta colposa può essere fatta valere nell ‘azione di danni basata su quel fatto, poiché in sede civile l’ elemento soggettivo della colpa è fungibile con quello del dolo nell’illecito civile, a differenza che per i delitti (Cass. 15 ottobre 2019, n. 25918). Nondimeno, i ricorrenti non deducono di aver fatto valere, nel corso del giudizio di merito, profili di responsabilità colpevole, onde la questione proposta si profila inammissibile. Ove, infatti, con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al
principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 1 luglio 2024, n. 18018; Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675).
4 . -Col quarto motivo la sentenza impugnata è censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. in relazione agli artt. 2697 e 2729 c.c., nonché degli artt. 40, 110, 388 e 640 c.p.c. «con riguardo alla asserita assenza della partecipatio fraudis e del dolo e della conoscenza in capo alla Fresco». Con riguardo alla posizione di quest’ultima si deduce essere erronea la pronuncia impugnata nella parte in cui ha ritenuto che un rapporto di stretta parentela non costituisca prova, anche per presunzione, del dolo o della conoscenza del fatto illecito costituente reato in capo al soggetto che non sia autore materiale della condotta.
Il motivo è palesemente inammissibile.
Esso si innesta sul passaggio motivazionale sopra citato.
Si fa questione della valenza indiziaria che può assumere il rapporto di parentela. Va osservato che « e presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice » ex art. 2729, comma 1, c.c..; in tale prospettiva questa Corte ha avuto modo di evidenziare che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 5 agosto 2021, n. 22366, la quale precisa, poi, che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà
del ragionamento decisorio; cfr. pure: Cass. 26 febbraio 2020, n. 5279; Cass. 27 ottobre 2010, n. 21961).
5 . -Col quinto motivo si lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché la violazione degli artt. 2700, 2727 e 2729 c.c.. Si rileva che la Corte di appello ha ritenuto non provata una circostanza che era stata invece dimostrata con uno scritto facente prova fino a querela di falso: in particolare, risulterebbe «essere stata prodotta in giudizio la comunicazione del custode, depositata al Tribunale di Venezia con timbro e firma del cancelliere del 2 dicembre 2001, con cui questo segnalava e notiziava al giudice del sequestro che COGNOME era amministratore di RAGIONE_SOCIALE».
La censura, non proprio perspicua, ha riguardo all’intestazione fiduciaria, in capo ad NOME COGNOME COGNOME, della partecipazione di COGNOME in RAGIONE_SOCIALE e si dirige contro questa enunciazione contenuta nella sentenza impugnata: «é appare in alcun modo suffragato l’assunto secondo il quale , ove a conoscenza del fatto che la cessionaria era solo una fiduciaria del COGNOME, il liquidatore non avrebbe effettuato la cessione ed il custode avrebbe notiziato l’autorità inquirente, non potendosi sottacere come la cessione sia comunque avvenuta tra società di capitali». Secondo la parte istante la circostanza che il custode avrebbe notiziato l’autorità giudiziaria sarebbe comprovata dal documento in questione.
Il motivo è inammissibile, in quanto volto a sollecitare il riesame della nominata comunicazione scritta, da cui l’istante pretende di ricavare una prova logica. Tanto si ricava dalla seguente proposizione, contenuta a pag. 47 del ricorso: «Se il custode aveva segnalato che COGNOME era amministratore della RAGIONE_SOCIALE, è verosimile che lo stesso avrebbe effettuato la medesima segnalazione una volta avuta contezza che lo stesso ne era pure il proprietario». Come è noto, però, la parte, col ricorso per cassazione, non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle
risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 22 novembre 2023, n. 32505; Cass. 7 aprile 2017, n. 9097). E non coglie nel segno il rilievo, formulato dalla parte istante, per cui la comunicazione in questione avrebbe valore di prova legale sino a querela di falso, siccome contenuta in uno scritto recante il timbro di deposito del cancelliere: tale attestazione conferiva valore di prova privilegiata ex art. 2700 c.c., alla provenienza del documento; non vincolava di certo il giudice a trarre dalle dichiarazioni contenute nello scritto l’illazione di cui si è detto.
6 . -Col sesto mezzo la sentenza impugnata viene denunciata per cassazione in ragione della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2727, 2729 c.c., 670 e 676 c.p.c.. Si lamenta che la Corte territoriale non abbia valutato l’illecito costituente reato come un unico fatto attuato con più condotte finalizzate allo scopo di eludere il sequestro e porre in essere una truffa, ma lo abbia invece parcellizzato, attribuendo rilievo a singoli comportamenti. Il Giudice di appello avrebbe quindi valutato la sola condotta dell’intestazione fiduciaria senza prendere in considerazione l’unitaria fattispecie delittuosa contestata, ricadente sotto la previsione degli artt. 388 e 640 c.p..
Il motivo si risolve in una generica contestazione che investe l’interpretazione , da parte dei Giudici del merito, della domanda proposta nei confronti delle odierne controricorrenti. Tuttavia, in linea di principio, l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al giudice del merito, e in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass. 21 dicembre 2017, n. 30684; Cass. 18 maggio 2012, n. 7932; nel senso che l’interpretazione data dal giudice
di merito alla domanda o alla sua estensione è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione e nei ristretti limiti del vigente art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., più di recente: Cass. 28 dicembre 2024, n. 34762; Cass. 3 dicembre 2019, n. 31546). I ricorrenti lamentano, col mezzo in esame, la violazione di plurime norme sul principio dispositivo, sulla valutazione delle prove, sulle presunzioni, sul sequestro giudiziario: una tale censura risulta, in tal modo, inidonea a investire, sul versante motivazionale, l’interpretazione della domanda , che qui interessa, ed è oltretutto del tutto priva di specificità, dal momento che nel corpo del motivo non si spiega affatto in quale modo le norme richiamate sarebbero state violate.
7 . -Con l’ottavo motivo viene fatta valere una censura di violazione o erronea applicazione degli artt. 2043, 2055 c.c., 185, 41, 42, 110, 288 e 640 c.p.. La doglianza attiene alla posizione di NOME COGNOME ed è sviluppata con le stesse argomentazioni formulate nel corpo del terzo motivo di ricorso.
Col nono motivo si deduce la violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., 40, 388 e 640 c.p., 112, 115 e 116 c.p.c.. Ci si duole che il possesso, da parte di NOME COGNOME, di una quota pari al 10% del capitale della società RAGIONE_SOCIALE e il rapporto di coniugio della stessa COGNOME con COGNOME non siano stati ritenuti fatti storici da cui desumere la partecipatio fraudis della medesima.
In buona sostanza, i due motivi replicano in gran parte, con riferimento alla posizione di NOME COGNOME le deduzioni svolte con riguardo alla posizione di NOME COGNOME col terzo e col quarto motivo di ricorso. Va quindi ribadito quanto ivi già osservato in merito all’impossibilità di scrutinare, in questa sede, profili di responsabilità colpevole, non dolosa, della controricorrente e in merito ai limiti che incontra il sindacato di legittimità in tema di presunzioni.
Col nono motivo i ricorrenti lamentano pure che la Corte di appello non abbia preso in considerazione il dato probatorio costituito dalla
retrodatazione della delibera relativa al compenso di COGNOME. In realtà, la circostanza non è stata affatto accertata e – lo si è visto è stata estromessa dal tema del decidere in quanto la relativa domanda risultava essere inammissibile ex art. 183, comma 5, c.p.c.. Vale, sul punto, quanto rilevato trattando del terzo motivo di impugnazione.
8 . – Il decimo mezzo oppone la violazione dell’art. 2043 c.c., 110 e 185 c.p., nonché l’omesso esame di un motivo di appello. Si assume che la responsabilità di NOME COGNOME «andava valutata ai sensi dell’art. 110 c.p. anche sotto forma agevolativa aumentando la possibilità della produzione del danno».
Con riguardo al terzo motivo di appello, la Corte distrettuale ha così motivato: «Quanto alla posizione di NOME COGNOME, moglie di NOME COGNOME e titolare del 10% delle quote della società RAGIONE_SOCIALE, non vi è alcun elemento, neppure presuntivo, a sostegno del fatto che la stessa abbia partecipato alla messa in liquidazione della società nella consapevolezza della natura artefatta dei bilanci e, più ancora, del fatto che tali condotte fossero dolosamente preordinate a far apparire un indebitamento in realtà inesistente, in modo tale da frustrare l’efficacia del sequestro giudiziario, a mezzo della messa in liquidazione, fermo restando che ogni considerazione sul fatto che la data della delibera del 9 gennaio 1999 non sia veritiera non può essere valorizzata, attesa l’inammissibilità della relativa domanda, né può sostenersi che la misura del compenso deliberato (lire 150.000.000) costituisca un elemento dal quale desumere la volontà di pregiudicare l’appellante». La Corte territoriale ha inoltre posto in evidenza, sul piano causale, la «partecipazione minoritaria di NOME COGNOME nella compagine sociale, che non gli avrebbe consentito, in alcun modo, di far sì che l’assemblea della società potesse determinarsi in modo diverso».
E’ escluso, quindi, che sia mancato lo scrutinio del l’indicato mezzo di gravame. Per il resto, è sufficiente osservare che la Corte di appello ha ritenuto insussistente, in punto di fatto, il contributo agevolativo
della controricorrente, posto che la quota del 10%, di cui la stessa era titolare, non le consentiva di incidere sulla formazione della volontà assembleare. La parte ricorrente mostra di non confrontarsi con la suindicata motivazione, limitandosi a trascrivere il contenuto del terzo motivo di appello. Tale modalità redazionale del ricorso si rivela inammissibile, in quanto l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, n. 4, c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare non solo le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, ma, altresì, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa , che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745; Cass. 6 luglio 2021, n. 18998). Per completezza, è il caso di osservare che nel citato motivo di appello la responsabilità della nominata COGNOME era ancorata a circostanze che la Corte territoriale ha reputato inidonee a giustificare la riforma della sentenza di primo grado: la retrodatazione della delibera sui compensi, che, si è visto, era posta a fondamento di una domanda inammissibile, e la consapevolezza, in capo alla controricorrente, dell’illiceità dell’attività del marito, preordinata all’e lusione del sequestro: evenienza che è stata negata dalla Corte territoriale laddove ha rilevato – come si è detto – che NOME COGNOME non aveva consapevolezza che la condotta di COGNOME fosse diretta «a far apparire un indebitamento in realtà inesistente, in modo da frustrare l’efficacia del sequestro giudiziario».
Anche il decimo motivo va dunque disatteso.
9 . -Con l’undicesimo motivo si denuncia la violazione degli artt. 2497 e 2486 c.c., oltre che l’erronea applicazione degli artt. 2484 e
2487 c.c. e l’o messo esame di un motivo di appello in violazione dell’art. 112 c.p.c.. Si contesta che la partecipazione minoritaria della controricorrente RAGIONE_SOCIALE non avrebbe consentito alla stessa di impedire l’adozione della delibera avente ad oggetto la messa in liquidazione della società RAGIONE_SOCIALE
Il motivo è inammissibile.
L’insussistenza dell’elemento soggettivo (anche in termini di mera consapevolezza, in capo ad COGNOME, della condotta illecita del marito) priva di rilievo la deduzione svolta, che ha riguardo al contributo causale che la controricorrente avrebbe dato alla messa in liquidazione della società. Il motivo risulta peraltro incomprensibile avendo riguardo a quest’ultimo profilo: sost engono gli istanti che la messa in liquidazione della società doveva essere deliberata con una maggioranza di due terzi del capitale sociale o con la maggioranza indicata nello statuto (che non viene indicata nel ricorso) e precisano che NOME COGNOME era titolare del 10% del capitale, COGNOME del 40% e il custode, che non aveva diritto di voto su di un atto di gestione straordinaria, del restante 50%. Non si spiega, dunque, come la volontà della controricorrente potesse incidere sul quorum deliberativo dell’assemblea: se i ricorrenti intendono che la maggioranza dei due terzi doveva calcolarsi sull’intero capitale sociale, questa non poteva in alcun modo raggiungersi; se reputano che la quota di pertinenza del custode dovesse essere estromessa dalla base di calcolo della maggioranza, la delibera poteva essere adottata anche senza il concorso di NOME COGNOME
10 . -Il dodicesimo motivo denuncia l’apparenza di motivazione e l’omesso esame del motivo di appello relativo ai mezzi istruttori. La censura investe la decisione assunta con riguardo alle prove: decisione che, ad avviso dei ricorrenti, risulterebbe essere generica e sostanzialmente immotivata.
Il mezzo è inammissibile.
La Corte territoriale ha condiviso la decisione del Giudice di primo
grado di non ammettere le istanze istruttorie proposte, reputando esplorativa l’istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c. e generici, oltre che valutativi e inidonei a fornire la prova della partecipazione delle appellate alla condotta antigiuridica di NOME COGNOME i capitoli di prova orale che erano stati articolati dalla parte attrice. L’affermazione è lessicalmente correlata alla prova testimoniale, ma la Corte distrettuale ha chiaramente inteso riferirsi, sul punto, all’intero capitolato istruttorio, e quindi anche alla prova per interrogatorio formale: ne dà implicitamente atto parte ricorrente, la quale, nella propria censura, non distingue la prova per interrogatorio formale da quella per testimoni.
Posto, dunque, che la Corte di merito si è pronunciata sul quarto motivo di appello, appunto vertente sulle istanze istruttorie, va rilevato che il giudizio sulla superfluità o genericità della prova testimoniale è insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto che può essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico (Cass. 21 novembre 2022, n. 34189; Cass. 10 settembre 2004, n. 18222). Allo stesso modo, per risalente, ma sempre attuale, insegnamento, l’apprezzamento sull’influenza e pertinenza dell’interrogatorio, riservato al giudice di merito, costituisce valutazione di natura meramente discrezionale che non è soggetta a sindacato di legittimità, quando sia sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici (Cass. 24 maggio 1979, n. 3002; Cass. 7 novembre 1974, n. 3411). Ciò detto, la statuizione impugnata non è affetta da alcuna illogicità.
La decisione impugnata risulta motivata anche con riguardo all ‘ esibizione, la quale è pure espressione di una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito (Cass. 3 novembre 2021, n. 31251; cfr. pure: Cass. 29 ottobre 2010, n. 22196; Cass. 23 febbraio 2010, n. 4375).
11 . -Col tredicesimo motivo ci si duole della violazione dell’art.
92 c.p.c., con riguardo alla regolazione delle spese del giudizio di primo grado. Si lamenta che la Corte di appello non abbia tenuto conto, nel regolare le spese del giudizio avanti al Tribunale, della soccombenza reciproca dei contendenti; si conferisce rilievo, a tal fine, al rigetto dell’eccezione di prescrizione sollevata avanti al Tribunale.
Col quattordicesimo motivo si lamenta la violazione degli artt. 92 e 112 c.p.c., nonché l’omesso esame di un motivo di appello, la motivazione apparente e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. La Corte di merito avrebbe mancato di pronunciarsi sul motivo di appello vertente sulla mancata compensazione, da parte del Tribunale, delle spese di primo grado.
Col quindicesimo motivo è prospettata la violazione degli artt. 92 e 276 c.p.c.. Secondo parte ricorrente avrebbe errato la Corte distrettuale a non operare la compensazione delle spese in ragione dell’assor b imento del secondo motivo dell’appello incidentale di controparte: assorbimento che avrebbe determinato la soccombenza reciproca delle parti.
I tre motivi investono la decisione assunta dalla Corte di appello sulla mancata compensazione delle spese di primo grado e non meritano accoglimento.
L’omessa pronuncia è da escludere in quanto la Corte di merito ha statuito sul quinto motivo di appello, vertente sulla sorte delle spese del giudizio di primo grado. Deve pure negarsi che si configuri l’omesso esame di fatto decisivo e il vizio di motivazione. Da un lato, non si vede quale sia il «fatto storico» (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054) che la Corte di merito avrebbe trascurato di considerare. Dall’altro , il Giudice del gravame ha dato ragione della decisione assunta, osservando non poter essere condivisa l’argomentazione dell’appellante principale secondo cui vi sarebbe stata una soccombenza reciproca dei contendenti in ragione del rigetto delle
eccezioni di prescrizione formulate dalle allora convenute: e ciò in quanto, dovendo la soccombenza essere apprezzata in relazione all’accoglimento della domande, e non già delle eccezioni, le odierne controricorrenti risultavano essere integralmente vittoriose.
Quest’ultima proposizione si rivela, poi corretta, da l momento che la reciproca soccombenza è configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, comma 2, c.p.c. (Cass. Sez. U. 21 ottobre 2022, n. 32061).
La richiamata delimitazione del concetto di soccombenza reciproca è risolutiva anche per l’esame del quindicesimo motivo : rispetto alla citata pronuncia delle Sezioni Unite si mostra del resto coerente Cass. 13 maggio 2019, n. 12633, secondo cui il dichiarato assorbimento di una questione prospettata dalla parte non consente di configurare, nei suoi confronti, una soccombenza parziale e non costituisce, pertanto, giusto motivo per la compensazione delle spese processuali ai sensi dell’art. 92 c.p.c..
12 . – In conclusio ne, il ricorso per cassazione va respinto.
13 . -Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 20.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater ,
del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione