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Domanda risarcitoria: an e quantum nel processo civile

Un professionista, curatore fallimentare, veniva diffamato da un vice direttore di banca. Nonostante l’accertamento del carattere diffamatorio della condotta, la domanda risarcitoria è stata respinta per mancata prova del danno. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha confermato la decisione, chiarendo la relazione tra la richiesta di condanna generica (an debeatur) e quella specifica (quantum debeatur), e ribadendo che l’onere di provare il danno subito spetta sempre al danneggiato.

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Pubblicato il 6 dicembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Domanda risarcitoria: an e quantum nel processo civile

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sulla domanda risarcitoria nel processo civile, in particolare sulla relazione tra l’accertamento del diritto al risarcimento (an debeatur) e la sua quantificazione (quantum debeatur). Il caso, originato da un’accusa di diffamazione, dimostra che la prova del fatto illecito non è sufficiente, da sola, a garantire un indennizzo se il danneggiato non dimostra concretamente le conseguenze negative subite.

I fatti del caso: la diffamazione e il lungo percorso giudiziario

La vicenda ha inizio quando il vice direttore di un istituto di credito accusa, tramite una lettera, un curatore fallimentare di aver omesso i suoi doveri d’ufficio. Il professionista, sentendosi leso nella sua reputazione, avvia un’azione legale. Il percorso processuale è complesso:

1. Giudice di Pace: Riconosce la colpevolezza del vice direttore per diffamazione e ingiuria, condannandolo a un risarcimento generico da liquidarsi in un separato giudizio civile.
2. Tribunale (Appello Penale): Riforma la decisione di primo grado, assolvendo l’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.
3. Corte di Cassazione (Sezione Penale): Annulla la sentenza di assoluzione su ricorso della parte civile e rinvia la causa al giudice civile competente per la sola valutazione degli aspetti risarcitori.
4. Corte d’Appello (in sede di rinvio): Accerta il carattere diffamatorio e persino calunnioso della lettera, ma respinge la domanda di risarcimento. Secondo i giudici, gli eredi del professionista (nel frattempo deceduto) non hanno fornito alcuna prova di un danno patrimoniale o non patrimoniale. Anzi, la documentazione prodotta dimostrava che, nonostante la missiva, il curatore aveva continuato a ricevere incarichi e a godere della stima degli organi istituzionali, a riprova che la sua immagine professionale non era stata scalfita.

Contro questa ultima decisione, gli eredi propongono ricorso in Cassazione.

La domanda risarcitoria al centro del dibattito in Cassazione

I ricorrenti lamentano principalmente un vizio di ultrapetizione. Sostengono che la Corte d’Appello avrebbe dovuto limitarsi a una pronuncia sull’an debeatur (l’esistenza del diritto al risarcimento), come da loro richiesto, senza entrare nel merito del quantum (la quantificazione del danno). Invece, decidendo sulla quantificazione e rigettando la domanda per assenza di prova del danno, il giudice avrebbe violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Il rapporto tra “an” e “quantum debeatur”

La Cassazione respinge questa tesi, chiarendo la natura del rapporto tra la domanda di condanna generica e quella di condanna a un importo specifico. Quando un danneggiato formula entrambe le richieste, anche in via alternativa, non si tratta di una piena alternatività, ma di un rapporto di pregiudizialità logica. La domanda sull’an è pregiudiziale rispetto a quella sul quantum.

Di conseguenza, il giudice che esamina la richiesta di condanna specifica (il quantum) sta implicitamente decidendo anche sulla questione pregiudiziale (l’an). Rigettare la domanda specifica per mancanza di prova del danno significa, inevitabilmente, assorbire e rigettare anche la richiesta generica. Non vi è quindi alcuna ultrapetizione.

L’onere della prova nel giudizio di rinvio

Un altro punto cruciale affrontato dalla Corte riguarda la natura del giudizio civile di rinvio disposto dalla Cassazione penale (ex art. 622 c.p.p.). Questo giudizio è a tutti gli effetti un normale processo civile, in cui valgono le regole ordinarie, prima tra tutte quella sull’onere della prova (art. 2697 c.c.).

Spetta quindi al danneggiato, che assume la veste di attore, dimostrare non solo il fatto illecito (la diffamazione), ma anche l’esistenza e l’entità delle conseguenze dannose che ne sono derivate. L’accertamento della condotta diffamatoria costituisce solo il presupposto del danno, ma non il danno risarcibile in sé.

Le motivazioni della Corte

La Corte Suprema ha rigettato tutti i motivi di ricorso. In primo luogo, ha escluso il vizio di ultrapetizione, affermando che la Corte d’Appello, decidendo sulla domanda specifica di risarcimento formulata dagli attori, ha correttamente esteso i suoi effetti anche alla domanda generica, logicamente pregiudicata.

In secondo luogo, ha confermato che non vi è stata alcuna omissione di pronuncia sul danno non patrimoniale. La Corte territoriale ha esaminato la domanda ma l’ha respinta nel merito, apprezzando motivatamente l’assenza di prova di un danno risarcibile. La lesione dell’onore e della reputazione è stata accertata come “evento di danno”, ma non sono state dimostrate le “conseguenze dannose” risarcibili. La Corte ha sottolineato che il semplice fatto che la lettera diffamatoria fosse stata inviata anche al Procuratore della Repubblica non era un elemento decisivo, poiché la prova fondamentale che mancava era quella di un effettivo discredito professionale, smentito dai fatti.

Infine, sono stati dichiarati inammissibili i motivi relativi alla produzione di nuovi documenti da parte dei convenuti, poiché la decisione si fondava principalmente sulla mancata assoluzione dell’onere della prova da parte degli attori. Le prove prodotte dalla controparte sono state considerate dalla Corte di merito come ad abundantiam, cioè ultronee rispetto alla vera ratio decidendi.

Le conclusioni

Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale in materia di responsabilità civile: per ottenere un risarcimento, non basta provare di aver subito un’ingiustizia o un atto illecito. È indispensabile dimostrare con prove concrete che da quell’atto sono derivate conseguenze negative, siano esse patrimoniali o non patrimoniali. L’onere di fornire tale dimostrazione grava interamente sulla parte che avanza la domanda risarcitoria. In assenza di tale prova, anche di fronte a un fatto palesemente illecito come una diffamazione, la richiesta di risarcimento è destinata a essere respinta.

Cosa succede se in una causa di risarcimento si chiede sia una condanna generica sia una condanna a un importo specifico?
Secondo la Corte, le due domande sono in un rapporto di pregiudizialità logica. Decidere sulla richiesta di un importo specifico implica necessariamente una valutazione sull’esistenza stessa del diritto al risarcimento. Pertanto, se il giudice respinge la domanda specifica per mancanza di prova del danno, la sua decisione si estende implicitamente anche alla domanda generica, senza che ciò costituisca un vizio di ultrapetizione.

Per ottenere un risarcimento per diffamazione, è sufficiente dimostrare che la condotta è stata diffamatoria?
No, non è sufficiente. L’ordinanza chiarisce che l’accertamento della condotta diffamatoria (l'”evento di danno”) non coincide con il danno risarcibile. Il danneggiato ha l’onere di provare l’esistenza di concrete “conseguenze dannose”, patrimoniali o non patrimoniali (come un effettivo discredito professionale, la perdita di opportunità lavorative, o una sofferenza interiore documentabile), derivanti da quella condotta.

Quali sono le regole sull’onere della prova in un giudizio civile di rinvio disposto dalla Cassazione penale?
Il giudizio civile di rinvio, anche se originato da un processo penale, è un procedimento civile autonomo. Di conseguenza, si applicano integralmente le regole del processo civile, inclusa quella sull’onere della prova (art. 2697 c.c.). La parte civile assume la veste di attore e deve provare tutti gli elementi costitutivi del suo diritto al risarcimento: il fatto illecito, il danno subito e il nesso di causalità tra i due.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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