Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 11585 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 11585 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 02/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 27774-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 475/2021 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 01/09/2021 R.G.N. 163/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
26/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
Licenziamento
R.G.N. 27774/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 26/02/2025
CC
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di Firenze, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, accertato che tra NOME COGNOME e la RAGIONE_SOCIALE era intercorso un rapporto di lavoro subordinato dall’1.12.2015 al 21.05.2018, ha dichiarato inefficace il licenziamento intimato in data 21 maggio 2018 ed ha ordinato alla società la reintegrazione nel posto di lavoro del COGNOME, con condanna al pagamento di ‘un’indennità pari a cinque mensilit à dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto che si indica in € 6.500,00 lordi mensili, oltre interessi e rivalutazione come per legge ed il versamento dei dovuti contributi previdenziali e assistenziali’;
la Corte, in sintesi e per quanto qui rilevi, circa le ‘questioni processuali’ sollevate dalla società, ha ritenuto che ‘nel caso in esame non vi è stata alcuna modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio né la domanda ha come presupposto elementi di fatto diversi da quelli della originaria domanda; si tratta infatti di una diversa tutela (ossia quella prevista dal decreto n. 23/2015) la cui applicabilità dipende unicamente dalla data di instaurazione del rapporto di lavoro (dopo il 7 marzo 2015)’;
la Corte, poi, sulla base degli elementi istruttori acquisiti al giudizio, ha ritenuto sussistente un rapporto di lavoro subordinato tra le parti dal 1° dicembre 2015 e, su tale presupposto, essendo pacifica la risoluzione senza l’adozione della forma scritta della comunicazione del licenziamento, ha applicato le tutele previste dall’art. 2 del d. lgs. n. 23 del 2015, liquidando però la misura del risarcimento nel minimo di legge delle cinque mensilità;
per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso la società soccombente con quattro motivi; ha resistito con controricorso l’intimato;
entrambe le parti hanno comunicato memorie; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il
deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
i motivi di ricorso possono essere sintetizzati come di seguito; 1.1. il primo denuncia: ‘violazione degli artt. 112, 345 e 414 c.p.c. per essersi la Corte di Appello pronunciata su domande nuove rispetto a quelle ritualmente introdotte dall’arch. COGNOME si eccepisce che con l’originario ricorso introdotto con il rito cd. ‘Fornero’ erano state richieste le tutele previste dall’art. 18 St. lav. novellato, mentre la Corte territoriale ha poi somministrato le sanzioni previste dalla successiva disciplina del cd. ‘ Jobs Act’ ;
1.2. il secondo motivo, in subordine, denuncia: ‘violazione degli artt. 112, 345, 414 e 420 c.p.c. per essersi la Corte di Appello pronunciata su domande ritenute dalla stessa emendate dall’arch. COGNOME senza che la modifica fosse stata autorizzata dal Tri bunale’;
1.3. il terzo motivo denuncia: ‘violazione dell’art. 102 c.p.c. per essersi la Corte di Appello (e prima il Tribunale) pronunciata in assenza di un litisconsorte necessario (l’INPS)’;
1.4. il quarto motivo denuncia: ‘violazione dell’art. 350 c.p.c. per essere stata effettuata l’escussione dei testimoni nel grado di appello da un Consigliere che ha agito in violazione e oltre i limiti della delega ricevuta dalla Presidente del collegio’; si lamenta che il Consigliere istruttore in grado di appello avrebbe
formulato ‘domande non oggetto di capitolazione e non ammesse (né discusse) dalla Corte nella sua collegialità’;
il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. i primi due motivi, congiuntamente esaminabili per connessione in quanto impugnano la medesima statuizione contenuta nella sentenza, pur essendo il successivo articolato subordinatamente al primo, risultano infondati;
il vizio di ultra ed extra petizione ricorre solo quando il giudice pronunzia oltre i limiti delle domande e delle eccezioni non rilevabili d’ufficio fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, mentre al di fuori di tali specifiche previsioni il giudice, nell’esercizio della sua potestas decidendi , resta libero di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronunzia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all’uopo prospettate, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta osservanza della legge, che il giudice deve conoscere e applicare (art. 113 c.p.c.);
recentemente, questa Corte ha condivisibilmente rilevato che ‘le tutele di cui all’art. 18, co. 1 e 2, L. n. 300/1970 sono identiche a quelle previste dall’art. 2 d.lgs. n. 23/2015, sicché l’errata invocazione della fonte normativa di riferimento non è in grado di incidere in senso conformativo ed invalidante sul petitum , ossia sull’identificazione del provvedimento giurisdizionale domandato a tutela della situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio’ (Cass. n. 34416 del 2024); va escluso, pertanto, che nella specie si sia realizzata una vera e propria modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo perché fondato su presupposti diversi da
quelli prospettati nell’atto introduttivo del giudizio, così da porre in essere una pretesa diversa da quella precedente;
ne deriva l’infondatezza anche della censura che subordinatamente lamenta la mancata autorizzazione alla emendatio libelli ex art. 420 c.p.c., atteso che i fatti costitutivi dedotti dal lavoratore a fondamento della pretesa poi riconosciuta erano stati addotti sin dall’atto introduttivo del giudizio, per cui non si rendeva necessaria alcuna autorizzazione alla modifica della domanda, la quale, peraltro, può essere data dal giudice anche in forma implicita (cfr. Cass. n. 6728 del 2019; Cass. n. 4702 del 2016) e, cioè, risultare, ad esempio, anche dall’ordinanza con cui il giudice, nel disporre il mutamento del rito, accorda alle parti termine per l’integrazione degli atti introduttivi (Cass. n. 12539 del 2000);
2.2. il terzo motivo, che lamenta la mancata partecipazione al giudizio dell’INPS, è infondato;
secondo la giurisprudenza di questa Corte, in caso di applicazione della tutela reale in materia di licenziamento, ai sensi degli artt. 18, commi 2 e 4, St.lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, e degli artt. 2, comma 2 e 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, il datore di lavoro è condannato al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, costituendo detta fattispecie una ipotesi eccezionale di condanna a favore del terzo, che non richiede la partecipazione al giudizio dell’ente previdenziale (Cass. n. 6722 del 2022, cui si rinvia anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. );
pertanto, nella specie, la richiesta – contenuta nel ricorso che ha dato origine al presente giudizio -di condanna della società convenuta ‘al versamento, per il suddetto periodo, dei contributi previdenziali e assistenziali’, in relazione al disposto
legale e al periodo che va dal licenziamento alla reintegra, non postulava la partecipazione necessaria dell’INPS;
2.3. il quarto motivo, infine, presenta concorrenti profili di inammissibilità;
innanzitutto, non è dubbio che la doglianza con cui si lamenti che il consigliere istruttore avrebbe agito in violazione della delega presidenziale configuri un errore di attività del giudice e, come ogni error in procedendo , avrebbe dovuto essere fatto valere nelle forme prescritte dal n. 4 dell’art. 360 c.p.c., specificando anche come tale preteso errore nel procedere del giudizio fosse idoneo a determinare la nullità della sentenza o del procedimento; invece, il motivo si limita a dedurre una presunta vi olazione dell’art. 350 c.p.c., senza individuare il conseguente vulnus di gravità tale da imporre la cassazione della sentenza impugnata;
inoltre, la censura concernente l’assunzione della prova testimoniale ad opera del consigliere istruttore riguarda un vizio concernente le modalità della prova, sottoposta ad apposite regole formali scandite dal codice di rito, che involge la nullità di un atto processuale, sottoposto al regime di nullità relativa in quanto posto nell’interesse individuale delle parti , affidato al meccanismo dell’art. 157, comma 2, c.p.c.;
per risalente insegnamento, le nullità concernenti l’ammissione e l’espletamento della prova testimoniale hanno carattere relativo, derivando dalla violazione di formalità stabilite non per ragioni di ordine pubblico, bensì nell’esclusivo interesse delle parti e, pertanto, non sono rilevabili d’ufficio dal giudice ma, ai sensi dell’art. 157, secondo comma, c.p.c., vanno denunciate dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al loro verificarsi o alla conoscenza delle nullità stesse, dovendo altrimenti ritenersi sanate e non deducibili in sede di
impugnazione (cfr. Cass. SS.UU. n. 264 del 1997; tra le tante successive conformi v. Cass. n. 7110 del 2016; più di recente, v. Cass. SS.UU. n. 9456 del 2023);
nel motivo in esame neanche viene allegato che, all’atto dell’espletamento della prova, la difesa della società abbia tempestivamente eccepito la nullità concernente la domanda rivolta al testimone al di fuori delle circostanze capitolate e ammesse;
infine, nell’illustrazione del motivo non vengono riportati i contenuti delle prove testimoniali asseritamente assunti in violazione della delega presidenziale, di modo che è del tutto precluso a questa Corte di apprezzarne la decisività, nel senso che, in mancanza di quell’elemento acquisito indebitamente, il giudizio avrebbe avuto un esito diverso con prognosi quanto meno di rilevante probabilità;
pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 26 febbraio