Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 18007 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 18007 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19832/2022 R.G. proposto da: COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOMECODICE_FISCALE, domicilio digitale ex lege ;
–
ricorrente – contro
COGNOME NOMECOGNOME NOME
–
intimati – avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO LECCE n. 523/2022 depositata il 04/05/2022, notificata il 30/05/2022. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/06/2025
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME creditrice nei confronti di NOME COGNOME della somma di euro 62.940,37, in forza della sentenza n. 13120/2010 del Tribunale di Lecce, citava, dinanzi al medesimo Tribunale, la COGNOME e NOME COGNOME perché fosse accertata la simulazione assoluta e l’inefficacia ex art. 2901 cod. civ. degli atti di disposizione intervenuti in data 31/12/2009 e 29/12/2020.
Il Tribunale di Lecce, con la sentenza n. 3702/2017, rigettava le domande attoree, ritenendo che alcun atto simulato e/o dissimulato fosse stato posto in essere dai convenuti e che non risultasse documentato alcun atto dispositivo che giustificasse l’accoglimento della domanda ex art. 2901 cod. civ.
All’esito del giudizio d’appello proposto dalla COGNOME, la Corte d’appello di Lecce, con la sentenza n. 523/2022, depositata il 04/05/2022 e notificata il 30/05/2022, ha confermato la pronuncia di primo grado.
Segnatamente, il giudice a quo ha ritenuto:
-che la cessazione da parte della COGNOME dell’attività di produzione e di vendita di prodotti di panetteria del 31/12/2009 non poteva «configurarsi quale atto dispositivo effettuato con consilium fraudis , tantomeno con la partecipazione del coniuge COGNOME NOME e del figlio COGNOME NOME, che, tra l’altro, non è neppure, parte del giudizio» (p. 4);
che «non può sussistere simulazione sia con riguardo alla cessazione di attività di cui sopra, atteso che la simulazione può esplicarsi solo in relazione a negozi giuridici, sia con riguardo all’atto del 29.12.2010 con cui COGNOME NOME riceveva in affitto dal figlio NOME NOME l’azienda commerciale ubicata in Campi Salentina alla INDIRIZZO posto che non è intervenuto alcun negozio giuridico tra gli odierni appellati COGNOME NOME e COGNOME NOME» (p. 4);
– « stante l’insussistenza di un negozio giuridico tra COGNOME NOME e COGNOME NOME nonché di alcun atto dispositivo non occorreva procedere alla valutazione delle prove» (p. 5).
NOME COGNOME ricorreva per la cassazione di detta sentenza, formulando quattro motivi.
Nessuna attività difensiva veniva svolta in questa sede da NOME COGNOME e da NOME COGNOME
È stata formulata proposta di definizione accelerata ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., con cui è stato prospettato il rigetto del ricorso.
NOME COGNOME ha chiesto ritualmente e tempestivamente la decisione del ricorso ai sensi dell’art. 380 -bis , secondo comma, cod. proc. civ.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1. cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1416, 1417, 2697, 2901 e 2722 cod.civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
La tesi della ricorrente è che la corte d’appello, preso atto della mancata chiamata del terzo, il figlio della COGNOME e del COGNOME, contraente relativamente all’alienazione del forno/panificio di Campi Salentina, avrebbe dovuto disporne la chiamata in giudizio ex art. 270 cod. proc. civ. e accertare la simulazione dell’atto oggetto di causa.
Il motivo è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.
Con i motivi di ricorso per cassazione la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell’appello, senza considerare le ragioni offerte da quest’ultimo, poiché in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella
proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. (Cass. 24/09/2018, n. 22478; Cass. 25/08/2000, n. 11098; Cass. 17/11/2003, n. 17402; Cass. 23/09/2003, n. 12632).
La corte d’appello, confermando la sentenza di primo grado, ha escluso la ricorrenza di alcun negozio giuridico che potesse essere attinto dalla domanda di simulazione: né la cessazione dell’attività (ritenuto un fatto) né l’affitto di azienda da parte di NOME COGNOME al padre NOME COGNOME ed ha altresì dichiarato l’inammissibilità delle domande nuove tardivamente introdotte volte ad ottenere la dichiarazione di inefficacia di ogni altro atto (connesso o intermedio) finalizzato a sottrarre alla creditrice la garanzia patrimoniale.
Dette statuizioni non sono state né colte né confutate dalla ricorrente che, in maniera piuttosto eccentrica, si duole del mancato esercizio da parte del giudice a quo del potere di provocare il c.d. intervento coatto del terzo, sebbene la valutazione dell’opportunità di ordinare l’intervento in causa del terzo a norma dell’art. 107 c.p.c. rappresenti una prerogativa esclusiva e discrezionale del giudice di primo grado, sia per i limiti temporali stabiliti, per la chiamata di un terzo in causa, dall’art. 269 cod.proc.civ., sia per la salvaguardia del doppio grado di giurisdizione. Da ciò consegue che il mancato uso del relativo potere non può formare oggetto di sindacato da parte del giudice di appello, il quale, da un lato, non potrebbe rimettere la causa al primo giudice per l’esercizio di quel potere, esulando tale ipotesi dai motivi di remissione tassativamente previsti dall’art. 354 cod. proc. civ., e, dall’altro, non potrebbe ordinare l’intervento del terzo in appello, ostandovi il divieto di cui all’art. 344 dello stesso codice (Cass., sez. 3, 16/09/1981, n. 5133; Cass., sez. 1, 13/03/2013, n. 6208). A fortiori il mancato esercizio dei poteri di cui all’art. 207
cod. proc. civ. non può essere sindacato dal giudice di legittimità (Cass., sez. 2, 21/02/2019, n. 5147).
Né, d’altro canto, la ricorrente si sofferma a spiegare, pur a fronte della ratio che sorregge la decisione, le ragioni per le quali la Corte d’appello si porrebbe in contrasto con le disposizioni normative evocate nella rubrica del motivo, di talché le censure si rivelano generiche ed inosservanti dell’art. 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. (Cass., sez. U, 28/10/2020, n. 23745).
2) Con il secondo motivo la ricorrente prospetta l’omesso esame delle deposizioni testimoniali da parte della corte d’appello e la sussistenza di un vizio di motivazione ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
Dette disposizioni testimoniali, se esaminate, secondo la prospettazione della COGNOME, avrebbero dovuto indurre il giudice d’appello ad assumere una decisione diversa.
Anche la censura qui prospettata è inammissibile per plurime ragioni che invero si aggiungono a quella già prospettata con lo scrutinio del primo motivo (la corte d’appello la ricorrente se ne disinteressa del tutto – ha spiegato le ragioni per cui ha ritenuto non necessaria l’ammissione delle prove testimoniali e ciò già basta per escludere la sussistenza del denunciato vizio di motivazione):
-la violazione dell’art. 348 ter cod.proc.civ., la censura non supera la preclusione di cui all’art. 348 ter , ult. comma, cod. proc. civ., secondo cui quando la sentenza di appello sia conforme in facto (fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata) a quella di primo grado non è deducibile il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.; il ricorrente per evitare l’inammissibilità del motivo deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., sez. 3, 28/02/2023, n. 5947);
la non denunciabilità ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., dell’omesso esame di elementi istruttori. Agli effetti dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., non costituisce fatto una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass., 6/09/2019, n. 22397; Cass., 8/09/2016, n. 17761; Cass., Sez. Un., 23/03/2015, n. 5745; Cass., 4/04/2014, n. 7983; Cass., 5/03/2014, n. 5133). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio di cui alla richiamata norma del codice di rito le argomentazioni, supposizioni o deduzioni difensive (Cass. 18/10/2018, n. 26305; Cass. 14/06/2017, n. 14802); gli elementi istruttori (Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053; Cass., sez. 2, 20/06/2024, n. 17005); una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. 21/10/2015, n. 21439; Cass. 29/10/2018, n. 27415), sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo oltre i limiti descritti (v. Cass. 25/07/2023, n. 22273).
Con il terzo motivo parte ricorrente si duole dell’omessa valutazione di una valida ragione di credito in capo alla ricorrente sufficiente ad accogliere la domanda ex art. 2901 cod.civ.
Dato che anche una semplice ragione di credito e non esclusivamente un credito certo, liquido ed esigibile può essere tutelata con l’azione di cui all’art. 2901 cod.civ., i giudici d’appello avrebbero dovuto ritenere l’atto dispositivo compiuto in pregiudizio delle sue ragioni creditorie e, in specie, nonostante una causa di lavoro ancora pendente; in aggiunta, la ricorrente sostiene che il depauperamento della debitrice non doveva essere confermato da altre prove, bastando, a tal fine, la cessione dell’azienda/forno/panificio.
Anche in questo caso le censure mosse alla sentenza impugnata non ne hanno affatto colto la ratio decidendi e quindi sono inammissibili, ai sensi dell’art. 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., atteso che la corte d’appello ha escluso la ricorrenza di un atto dispositivo, cioè di uno degli elementi costitutivi dell’azione revocatoria. Inconferente risulta, pertanto, il richiamo alle ragioni di credito, da solo inidoneo a giustificare l’accoglimento della domanda.
Con il quarto motivo parte ricorrente imputa al giudice a quo di averla condannata con «manifesta illogicità» alle spese di entrambi i gradi di giudizio.
La tesi sostenuta è che la corte d’appello avrebbe dovuto disporre la condanna alle spese solo dopo aver vagliato nel merito la domanda, dopo aver verificato, con poteri officiosi, il rapporto di parentale di NOME COGNOME con i convenuti e la simulazione del fantomatico contratto d’affitto.
Il motivo è infondato, avendo il giudice d’appello fatto corretta applicazione del principio della soccombenza.
All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Nulla deve essere disposto per le spese del giudizio di cassazione, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.
Considerato che la trattazione del ricorso è stata chiesta ai sensi dell’art. 380bis , secondo comma, cod. proc. civ., la Corte, avendo definito il giudizio in conformità della proposta, è tenuta ad applicare l’art. 96, quarto comma, cod. proc. civ. come previsto dall’art. 380 bis , ult. comma, cod. proc. civ.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, ai sensi dell’art. 96, quarto comma, cod. proc. civ.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modif. dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente all’ufficio del merito competente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Camera di Consiglio del 9 giugno 2025 dalla