Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1911 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 1911 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 18/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27007/2021 R.G. proposto da : COGNOME NOME, COGNOME NOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrenti- contro
NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 2157/2021 depositata il 23/03/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/01/2024 dal Presidente NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME e NOME COGNOME, comproprietari per quote uguali di un immobile su più piani, oltre garage, sito in Roma, INDIRIZZO, gravato pro quota da usufrutto in favore di NOME COGNOME, vedova COGNOME, ne effettuavano (o ne consentivano) il frazionamento in due distinti appartamenti, dando vita agli interni nn. 1 e 1bis . Alla base, l’intento comune che sarebbe stato espresso verbis -di provvedere successivamente alla formale divisione di tale compendio, operando gli opportuni conguagli e nel rispetto della già avvenuta attribuzione di fatto di tali appartamenti, quello n. 1 a NOME COGNOME e quello n. 1bis a NOME COGNOME. Successivamente, con atto pubblico del 24.9.1993 sottoscritto da entrambi e dall’allora usufruttuaria, preceduto da un preliminare del 1992, essi alienavano a terzi la sola porzione immobiliare distinta dall’interno n. 1 -bis , per il prezzo di lire 685.000.000. Quindi, sulla base del giudizio di stima di entrambi i cespiti, essi incameravano tale somma in misura diversa, e cioè lire 575.000.000 in favore di NOME COGNOME e lire 110.000.000 in favore di NOME COGNOME (l’uno e l’altro importo pagati loro separatamente dagli acquirenti), quest’ultima somma dovendo valere come conguaglio in vista della futura assegnazione dell’unità di cui all’interno n. 1, che NOME COGNOME continuava, come prima, a godere.
Trascorsi, invano, vari anni, NOME COGNOME con citazione notificata il 26.7.2006 conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, NOME COGNOME e l’allora usufruttuaria, NOME COGNOME.
Domandava, in tesi, l’emissione di una sentenza ex art. 2932 c.c. che stesse in luogo dell’atto pubblico di trasferimento in suo favore dell’unità n. 1; in subordine, la divisione, con assegnazione a lei di detto bene.
Nel resistere, i convenuti deducevano l’assenza di qualsivoglia accordo scritto ed eccepivano la prescrizione decennale, «trattandosi di fatti occorsi nel 1992, di molto anteriori al decennio precedente la proposizione della domanda» (così, testualmente, a pag. 3 del ricorso).
Con sentenza n. 5202/13 del 9.3.2013, resa nei confronti di NOME COGNOME ed NOME COGNOME, quali eredi di NOME COGNOME, deceduto come NOME COGNOME in corso di causa, il Tribunale rigettava la domanda di tesi, accoglieva la subordinata e, disposta la divisione, assegnava all’attrice il suddetto cespite, senza addebito dell’eccedenza.
L’appello proposto da NOME COGNOME ed NOME COGNOME era respinto dalla Corte territoriale di Roma, con sentenza n. 2157/21 del 23.3.2021.
La Corte distrettuale riteneva che la non equanime ripartizione tra le parti venditrici del prezzo dell’appartamento di cui all’interno 1 -bis induceva a ritenere che le parti si fossero accordate per la divisione dei beni comuni nel senso che la ‘quota’ ( rectius , porzione) di NOME COGNOME fosse composta dalla proprietà per l’intero dell’immobile n. 1 e dal conguaglio di lire 110.000.000, pari ad € 56.810,25; che operando in tal modo le parti avevano «inteso, attraverso la vendita del cespite, procedere ad una divisione parziale del patrimonio comune con la conseguenza che il bene attribuito al condividente, secondo l’insegnamento della Suprema Corte, si qualifica(va) come acconto sulla quota spettante in sede di divisione definitiva»; che la parte appellante non poteva dolersi del valore delle ‘quote’,
atteso che, attualizzato al 2011 con interessi e rivalutazione monetaria, il prezzo dell’appartamento n. 1 -bis equivaleva a circa € 700.000,00 contro gli € 296.962,71 corrispondenti al prezzo in lire incamerato da NOME COGNOME per la vendita del 1993; che tale importo era ben superiore al valore dell’appartamento n. 1, di cui la parte appellata aveva chiesto l’assegnazione senza conguaglio, valore che con riferimento all’anno su indicato era stato stimato dal c.t.u. in € 435.000,00, importo cui doveva aggiungersi la somma di circa € 140.000,00, risultante dalla maggiorazione per interessi e rivalutazione monetaria calcolati fino all’anno 2011 sull’importo di € 56.810,25, corrispettivo ricevuto dall’appellata per la vendita dell’appartamento anzi detto; che l’eccezione di prescrizione del diritto alla divisione era inammissibile, perché sollevata con comparsa di costituzione tardiva, siccome depositata in primo grado oltre il termine dell’art. 166 c.p.c. (nel testo in allora vigente: n.d.r.), ed infondata, in quanto l’art. 1111 c.c. contempla una facoltà dell’imprescrittibile diritto dominicale; che gli abusi edilizi che avevano accompagnato la suddivisione dell’allora fondo comune nei due appartamenti oggetto del contendere erano stati condonati con emissione di tre concessioni in sanatoria; e che il fatto che in dette concessioni non risultasse l’indicazione catastale dell’appartamento interno n. 1 non assumeva rilievo ai fini dello scioglimento della comunione, essendo ciò suscettibile di rettifica.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ed NOME COGNOME, nella ridetta qualità, propongono ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
Vi resiste con controricorso NOME COGNOME. La sola parte ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1350, nn. 3 e 11, e 1351, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., «avendo la Corte d’appello (e il Tribunale) conferito validità a un preteso accordo orale tra le parti, concernente la divisione di fatto di beni immobili» (pag. 9 del ricorso).
Sostiene parte ricorrente che «come risulta dallo storico processuale» la domanda accolta dai giudici di merito è quella di divisione che l’attrice aveva svolto in via subordinata, in caso di opposizione a quella di tesi, volta a far accertare la validità giuridica della divisione di fatto del bene comune in comproprietà tra NOME COGNOME e NOME COGNOME, e all’emissione di una sentenza ex art. 2932 c.c. ( loc. ult. cit. ). Pertanto, sostiene, «(controparte) ha fin da subito postulato l’esistenza di una comunione su uno o più immobili, e l’esistenza di un accordo divisorio orale, di cui ha chiesto (e ottenuto) l’attuazione» (così, testualmente, nei primi tre righi di pag. 10 del ricorso).
Quindi, prosegue il motivo, la Corte d’appello di Roma, dal fatto che l’appartamento 1 -bis , utilizzato da NOME COGNOME, era stato venduto per il prezzo in lire corrispondente ad euro 353.777,97, somma di cui NOME COGNOME aveva ricevuto solo l’importo pari a € 56.810,25, a titolo di conguaglio, ha desunto l’esistenza di un accordo sulla divisione dei beni, che attribuiva a quest’ultima l’appartamento n. 1 e il conguaglio anzi detto. Ma così facendo -sostiene parte ricorrente -la Corte capitolina avrebbe violato le norme su indicate, e in particolare i nn. 3 e 11 dell’art. 1350 c.c., che impongono la forma scritta per gli atti aventi ad oggetto diritti reali su beni immobili. Cita, quindi, giurisprudenza di questa Corte al riguardo, anche relativamente alla necessità che l’accordo di divisione parziale sia basato su atto scritto, nella specie del tutto assente.
1.1. Vanamente teso ad attribuire alla sentenza d’appello affermazioni che questa non opera, il motivo è inammissibile.
1.1.1. In primis , ne va rimarcata l’illogicità per la coeva affermazione di due proposizioni tra loro inconciliabili: se è vero com’è vero che la domanda di tesi, basata su un accordo divisorio verbale, è stata respinta già in primo grado (tanto che nel giudizio d’appello la parte odierna ricorrente sostenne essersi formato su tale rigetto il giudicato interno per mancata impugnazione incidentale: v. pag. 6 del ricorso), è insensato affermare, attraverso una pura torsione di parole, che l’attrice abbia ottenuto dal Tribunale (prima) e dalla Corte d’appello (poi) l’attuazione di quel medesimo accordo orale. Lo scioglimento della comunione, infatti, è oggetto d’un diritto potestativo (art. 1111, primo comma, c.c.), come tale non condizionato da accordi preliminari tra i condividenti. Ne consegue che ove tali accordi o non esistano o esistano ma siano nulli, il giudice provvede alla divisione ai sensi degli artt. 784 e ss. c.p.c., non necessitando d’altro che della relativa domanda, così com’è avvenuto nella specie.
1.1.2. In secondo luogo, va rimarcato che nell’economia della decisione impugnata l’esistenza di un previo accordo verbale di divisione tra le parti, seguìto dal separato godimento dei due appartamenti in comunione, costituisce null’altro che l’antefatto della lite. Da esso la Corte d’appello non ha derivato effetti giuridici di sorta, ma ha tratto unicamente l’argomento logico per spiegare la ragione per cui, venduto uno dei due appartamenti, quello già goduto dal solo NOME COGNOME, le parti suddivisero tra loro in maniera non paritaria (nonostante l’uguaglianza delle quote) il prezzo ricavato, considerandolo quale acconto sulla futura divisione (di rilievo meno che nullo, poi, il fatto che i venditori si siano fatti pagare separatamente il relativo importo
dagli acquirenti, in proporzione del diverso valore stimato dei due immobili oggetto della comunione).
La migliore riprova che l’originario accordo verbale e il susseguente godimento separato dei due appartamenti abbiano costituito, nella logica della pronuncia d’appello, null’altro che il motivo del riparto non paritario del prezzo di vendita dell’appartamento n. 1 -bis , motivo che in quanto tale è (come insegna la manualistica civile) irrilevante rispetto all’agire giuridico, è data da quanto segue: eliminando mentalmente l’uno e l’altro, la decisione resta idoneamente basata proprio e solo ( i ) sulla vendita di uno soltanto dei due appartamenti (fatto pacifico), la quale è stata rettamente qualificata come divisione parziale; ( ii ) sul riparto del prezzo incamerato (dato anch’esso pacifico); e ( iii ) sulla considerazione «che il bene attribuito al condividente, secondo l’insegnamento della Suprema Corte si qualifica come acconto sulla quota spettante in sede di divisione definitiva» (v. pag. 6 della sentenza impugnata). Il riferimento giurisprudenziale, anche se privo della citazione degli estremi, deve intendersi operato al pertinente principio espresso dalla sentenza delle S.U. n. 1145/77, in base alla quale ove la divisione, per volontà delle parti, abbia ad oggetto solo alcuni dei beni del patrimonio comune, ciò che viene attribuito a ciascun partecipante assume la natura di acconto sulla porzione spettante in sede di divisione definitiva, con la conseguenza che tale ultima porzione, salvo patto contrario, va determinata attraverso una valutazione globale di tutti i beni, quelli già divisi e quelli rimasti in comunione, secondo un criterio uniforme e riferito allo stesso momento temporale.
Applicato alla fattispecie, ciò significa che la ripartizione non paritaria del prezzo, ove anche fosse avvenuta casualmente e
senza ragione alcuna, avrebbe del pari imposto al giudice dello scioglimento della comunione di provvedere a riequilibrare i rapporti tra i condividenti, tenendo conto di quanto l’uno e l’altra avevano già ottenuto in esito alla ridetta vendita.
Pertanto, e conclusivamente, nulla autorizza a ritenere che la Corte distrettuale abbia, in un modo o nell’altro, attribuito rilievo giuridico ad un contratto preliminare di divisione immobiliare nullo per difetto di forma.
– Col secondo motivo è allegata la violazione o falsa applicazione degli artt. 2946, 1111 e 1350, nn. 3 e 11 c.c., nonché dell’art. 167 c.p.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., per aver la Corte territoriale ritenuto tardiva e comunque infondata l’eccezione di prescrizione sollevata dalle odierne ricorrenti.
Subordinato rispetto al primo, tale motivo deduce che il preteso accordo divisorio, ove anche se ne affermasse l’esistenza, risalirebbe al più tardi al 1993, epoca della vendita dell’unità immobiliare 1 -bis , per cui rispetto all’atto di citazione notificato il 26.7.2006 sarebbe più che ampiamente decorso il termine decennale della prescrizione ordinaria. Soggiunge, poi, che l’eccezione era tempestiva, atteso che l’udienza di comparizione indicata in citazione (10.1.2007) era stata differita, ai sensi dell’art. 168 -bis , al 19.6.2007, di guisa la costituzione della parte convenuta, avvenuta il 30.5.2007, era tempestiva.
2.1. – Il motivo è inammissibile.
Sebbene sia esatto che l’eccezione sia stata formulata con comparsa di costituzione da giudicarsi tempestiva ai sensi dell’art. 166 c.p.c. nel testo allora vigente, la censura in oggetto non solo non spende una sola parola per confutare la ratio decidendi aggiuntiva esplicitata nella sentenza impugnata (la quale ha -giustamente -rilevato che il diritto di cui all’art. 1111
c.c. costituisce facoltà dell’imprescrittibile diritto di proprietà), ma elude, al pari del primo motivo, il senso della decisione. Infatti, al fine di configurare l’esistenza di un diritto di credito suscettibile di prescrizione, la doglianza continua a supporre che la decisione impugnata abbia dato esecuzione ad un accordo divisorio preliminare. Tesi a confutazione della quale valgono, pertanto, le considerazioni sopra esposte.
– Il terzo mezzo espone la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 183, sesto comma e 184bis c.p.c. (applicabile ratione temporis ), in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c., poiché nel giudizio di primo grado la parte attrice produsse la documentazione ipocatastale inerente all’immobile da dividere non già nei termini di rito, ma addirittura dopo che la causa era stata introitata a sentenza e, poi, rimessa in istruttoria per l’espletamento della c.t.u.
3.1. – Anche tale motivo è inammissibile.
In disparte che la doglianza mostra di non considerare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il consulente tecnico d’ufficio, ai sensi dell’art. 194 cod. proc. civ., può acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori, rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e costituenti il presupposto necessario per rispondere ai quesiti formulati, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse.(Nella specie la S.C., in applicazione dell’enunciato principio, ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto inammissibile l’acquisizione, ad opera del consulente tecnico d’ufficio, di documentazione relativa alla certificazione catastale ed alla regolarità urbanistica dell’immobile oggetto di divisione)
(così, la sentenza n. 14577/12; conforme, n. 21926/21), giurisprudenza da cui si desume che tale documentazione, proprio perché acquisibile anche dal c.t.u., non soggiace alla preclusioni istruttorie, per l’ovvia considerazione che all’ausiliario del giudice non è attribuibile un potere che alle parti è negato; tutto ciò a parte, è decisivo osservare che il motivo in oggetto predica la consumazione già nel giudizio di primo grado di un’asserita nullità processuale, che si sarebbe estesa alla sentenza del Tribunale. Nullità che, però, non risulta essersi convertita, come invece prescrive l’art. 161, primo comma c.p.c., in alcuno dei motivi d’appello, così come indicati alle pagg. da 4 a 6 del ricorso.
4. – Il quarto motivo denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 46, primo comma, D.P.R. n. 380/01 (già art. 17 legge n. 47/85) e 40, secondo comma, legge n. 47/85, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto, nonostante gli abusi edilizi rilevati dal c.t.u., che l’immobile potesse non di meno essere oggetto di scioglimento della comunione o, comunque, essere assegnato all’odierna intimata.
La Corte capitolina, si sostiene, ha ritenuto infondato il motivo d’appello col quale le odierne ricorrenti avevano lamentato il fatto che il Tribunale aveva trascurato di considerare la relazione del c.t.u. nella sua integrità. In essa, infatti, l’ausiliario, dopo aver riferito che per le opere abusive la sig.ra COGNOME aveva presentato nel 1987 domanda di condono edilizio, per la quale il Comune di Roma il 17.1.2002 aveva rilasciato tre concessioni, aveva precisato che queste non riportavano gli identificativi catastali dell’appartamento di cui all’interno n. 1 ( sub 22). Da ciò si ricaverebbe, secondo parte ricorrente, che le richieste di sanatoria non avrebbero riguardato quest’ultimo appartamento, oggetto della divisione, il quale, di conseguenza, difettava della
regolarità edilizia cui sono subordinati, in base alle norme precitate, tutti gli atti inter vivos , incluso lo scioglimento della comunione, come affermato da S.U. n. 25021/19.
La stessa circostanza che la Corte d’appello abbia ritenuto rimediabile tale difetto mediante una semplice richiesta di rettifica, confermerebbe, secondo parte ricorrente, che al momento della sentenza il bene immobile in questione non era suscettibile di trasferimento in base alle norme sopra citate, le quali configurano una nullità di tipo testuale riconducibile al terzo comma dell’art. 1418 c.c. Ne conseguirebbe che (tanto nei contratti traslativi, quanto) negli atti di scioglimento di una comunione, il titolo urbanistico da dichiarare deve essere (indipendentemente dalla sua legittimità) reale e riferibile all’immobile, la cui regolarità edilizia è da ritenersi condizione dell’azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della sua stessa ‘possibilità giuridica’, come affermato, appunto, dalla precitata pronuncia delle S.U., che afferma rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio la mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia o il suo mancato esame da parte del giudice.
4.1. – Il motivo è infondato.
Indiscusso il principio di diritto di cui alla sentenza S.U. n. 25021/19, va osservato che è compito del giudice di merito, e non di quello di legittimità, accertare se l’atto d’assenso edilizio si riferisca al bene oggetto della divisione. In senso affermativo è, nella specie, la sentenza impugnata, lì dove ha accertato che «l’appartamento interno n.1, rispetto all’originaria concessione, era stato ricavato dalla suddivisione dell’originario impianto volumetrico con la creazione di una doppia unità immobiliare e che, per tale modifica, era stata formulata domanda di condono accolta dal Comune di Roma con il rilascio di n. 3 concessioni
edilizie in sanatoria (nn. 272333-273334-273336)» (v. pag. 7 della sentenza impugnata). La Corte d’appello ha precisato, quindi, che «il fatto che in dette concessioni non risulti l’indicazione catastale dell’appartamento int. n. 1 (sub 22) non assume rilievo ai fini della possibilità di ottenere giudizialmente lo scioglimento della comunione, atteso che gli abusi sono stati oggetto di sanatoria e che, attraverso una semplice richiesta di rettifica, il provvedimento amministrativo può essere correttamente riferito all’immobile in questione» (loc. ult. cit.).
Non essendo sindacabile in questa sede di legittimità l’accertamento di fatto operato dalla Corte distrettuale su ciò, che le tre concessioni in sanatoria si riferiscono proprio alle opere effettuate sull’originario unico immobile per ricavarne i due appartamenti, la successiva affermazione della stessa Corte, che reputa la denunciata incompletezza suscettibile di rettifica, è conforme a diritto.
I dati catastali servono alla compiuta identificazione dei beni immobili e non già alla validità dell’atto che li contempla, tanto che essi, se oggetto di errori od omissioni in un atto notarile, sono suscettibili di rettifica, ai sensi dell’art. 59 -bis , inserito nella legge n. 89 del 1913 dall’art. 1, primo comma, D.Lgs. n. 110/10. Pertanto, la tesi di parte ricorrente, che dal mero difetto di indicazione catastale inferisce, senza altro argomento, la non riferibilità all’appartamento n. 1 delle tre concessioni in sanatoria al fine di trarne, per traslato, l’invalidità della divisione giudiziale, è sostanzialmente paralogica. La stessa parte, infatti, premette che il c.t.u. ha affermato che le opere abusive compiute dalla sig.ra COGNOME sono state «concessionate tutte in data 17 gennaio 2002 con in numeri NUMERO_CARTA» dal Comune di Roma (v. pag. 20 del ricorso). Dunque, se per la stessa ammissione di parte ricorrente costituisce dato di fatto non
contro
verso che le tre concessioni sono state emesse per condonare tali opere abusive, e non già per altra ragione, non è lecito, non consentendolo la contraddizione, dedurne la non riferibilità anche all’appartamento n. 1, oggetto della divisione, che da tali opere è -pacificamente -derivato, solo per il difetto del referente catastale.
5. – Il quinto motivo espone la violazione o falsa applicazione degli artt. 832, 1100 e 1111 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c., in considerazione della mancata attribuzione alle ricorrenti della metà del valore dell’appartamento assegnato in sede di divisione ad NOME COGNOME.
Nell’impugnare la sentenza di primo grado le odierne ricorrenti avevano sostenuto che l’assegnazione alla comproprietaria dell’appartamento n. 1, che era il solo cespite oggetto della domanda di divisione, imponeva la liquidazione in loro favore del 50% del valore di assegnazione del bene (€ 435.000,00), e dunque della somma di € 217.500,00. Invece, la Corte territoriale, nel respingere tale loro richiesta, ha soltanto evidenziato che il dante causa delle appellanti aveva già ricevuto per la vendita dell’appartamento n. 1 -bis una somma corrispondente a € 296.962,71, che rivalutata all’attualità era pari a circa € 700.000,00, somma superiore al valore del bene assegnato all’altra condividente, stimato in € 435.000,00 cui aggiungere € 140.000,00, così attualizzate lire 110.000.000 ricavate dalla vendita dell’appartamento 1 -bis. Pertanto, conclude parte ricorrente, la Corte territoriale, avendo ritenuto di sciogliere la comunione anche sul bene che, essendo stato precedentemente alienato, non ne faceva più parte, avrebbe violato le norme anzi dette.
5.1. – Il motivo è manifestamente infondato.
Contrariamente a quanto vi si assume, la sentenza impugnata non ha sciolto la comunione dell’appartamento n. 1 -bis , cosa del resto impossibile essendo stato il bene già alienato a terzi, ma ha considerato -rettamente, per quanto sopra esplicitato in relazione al primo motivo di ricorso -quale acconto sulla divisione la somma che ciascuna parte aveva ricavato da quella vendita, in applicazione d’un principio già espresso dalla giurisprudenza di questa Corte (S.U. n. 1145/77 cit.). E poiché la parte del prezzo di vendita trattenuta da NOME COGNOME era superiore a quella incamerata da NOME COGNOME, maggiorata del valore dell’appartamento a lei assegnato (intendi, ai sensi dell’art. 720 c.c.c), correttamente la Corte d’appello non ha operato alcun addebito di eccedenza a carico di quest’ultima.
– Il ricorso va, pertanto, respinto.
– Seguono le spese, liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12, va dichiarata la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, in solido tra loro, alle spese, che liquida in € 5.800,00, oltre € 200,00 per esborsi, spese generali al 15% ed accessori legge.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto, a carico delle ricorrenti.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 16.1.2024.
Il Presidente
NOME COGNOME