Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 4817 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 4817 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 23/02/2024
Oggetto: Comunione-Divisione.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 32343/2018 R.G. proposto da NOME (c.f.: CODICE_FISCALE) e NOME (cf CODICE_FISCALE), rappresentati e difesi, con procura speciale in calce al ricorso, dagli avvocati NOME COGNOME, (codice fiscale CODICE_FISCALE) del Foro di RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME (codice fiscale CODICE_FISCALE) del Foro di Roma, elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio d ell’ ultimo difensore;
-ricorrenti –
contro
COGNOME NOME (c.f.: CODICE_FISCALE) e COGNOME NOME (c.f.: CODICE_FISCALE), rappresentati e difesi, con procura speciale in calce al controricorso, dall’AVV_NOTAIO del foro di RAGIONE_SOCIALE e dal l’AVV_NOTAIO (C.f.: CODICE_FISCALE) del foro di Roma ed elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio del secondo difensore;
–
contro
ricorrenti –
nonché contro
NOME COGNOME (c.f.: CODICE_FISCALE), rappresentata e difesa nel giudizio di primo grado dallo stesso avvocato NOME COGNOME;
-intimata- avverso la sentenza della Corte di Appello di Trento n. 102/2018, pubblicata il 18 agosto 2018 e notificata il 20 agosto 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 settembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
Osserva in fatto e in diritto
Ritenuto che:
– con atto di citazione del 3 ottobre 2012, NOME COGNOME evocava, dinanzi al Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME e NOME COGNOME e premesso di essere proprietaria di una porzione dell’edificio contraddistinto nel sistema tavolare come p. ed. 2530 in P.T. 4047/II c.c. Gries, costituito da sole due unità, di cui la seconda era della nuda proprietaria NOME COGNOME, usufruttuario NOME COGNOME, chiedeva lo scioglimento della comunione del piano seminterrato del fabbricato, dove tra l’altro si trovava l’abitazione del custode, previo accertamento della comoda divisibilità dello stesso, trattandosi di proprietà comune tra le due suddette porzioni;
-instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti, in seguito intervenuti NOME COGNOME e NOME COGNOME, divenuti nel frattempo proprietari della metà della parte dell’edificio appartenente alla COGNOME, il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, con sentenza n. 967 dell’11 luglio 2016, accoglieva le domande attoree, ma ritenendo il bene non comodamente divisibile in quanto, con la divisione in natura sarebbe terminata la destinazione d’uso ad alloggio, assegnava il bene per intero agli intervenienti a fronte del pagamento di euro 46.899,50, oltre interessi legali;
– sul gravame interposto da NOME e NOME, la Corte di Appello di Trento, nella resistenza degli appellati COGNOME e COGNOME, rimasta contumace l’originaria attrice, rigettava l’appello e condannava NOME e NOME al pagamento delle spese di lite.
A sostegno della decisione, il giudice del gravame riteneva che non fosse possibile procedere alla divisione del bene in natura, frazionandolo in singoli vani da assegnare ai comproprietari secondo le quote ideali di comproprietà, in quanto lo stesso bene non avrebbe potuto avere più la medesima destinazione di alloggio per il custode, destinazione non revocata dai comproprietari, che non avrebbe potuta essere ripristinata neanche in futuro. Pertanto, la permanenza di tale vincolo andava apprezzata quale indivisibilità del bene in natura ai sensi dell’art. 1119 c.c., con conseguente necessità di procedere all’attribuzione esclusiva ai sensi dell’art. 720 c.c. Aggiungeva che l’immobile anche in ipotesi di modifica della destinazione andava assegnato agli appellati, potendolo accorpare al proprio appartamento accrescendone il valore;
avverso la citata sentenza della Corte di appello di Trento, proponevano ricorso per cassazione NOME e NOME COGNOME, sulla base di sette motivi, cui hanno resistito NOME COGNOME e NOME COGNOME con controricorso;
NOME COGNOME è rimasta intimata;
-in prossimità dell’adunanza camerale entrambe le parti hanno curato il deposito delle memorie ai sensi dell’art. 380 -bis.1 c.p.c.
Considerato che:
-con il primo motivo viene dedotta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1119 c.c., dell’art. 1118 c.c., nonché degli artt. 23, 24, 25 e 42 della Costituzione, art. 1 Protocollo
Addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., assumendo che con l’assegnazione dell’ex alloggio del custode ai controricorrenti, i ricorrenti verrebbero del tutto esclusi dal godimento, dall’utilizzo e dall’amministrazione della cosa comune e mancherebbe comunque la necessaria unanimità dei partecipanti al condominio.
Con il secondo motivo viene evidenziata la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1119 c.c., 1117 c.c., 1117 ter c.c. e 1117 quater c.c., in quanto -ad avviso dei ricorrenti l’assegnazione del bene comune nella proprietà esclusiva della controparte necessariamente verrebbe ad incidere sull’uso e sulla destinazione dello stesso, vanificando quindi le previsioni dell’art. 1119 c.c. dirette alla tutela della comproprietà, dell’autonomia patrimoniale ed alla conservazione del comune utilizzo del bene in comproprietà.
Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli articoli 718 c.c., 720 c.c., 1114 c.c., 1116 c.c. e 1119 c.c., oltre agli artt. 23, 25 e 42 Costituzione e art. 101 c.p.c., nonché l’ omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per avere il giudice di secondo grado ritenuto il bene de quo come indivisibile in relazione alla sua funzione/destinazione, compromettendo così il diritto dei ricorrenti di vedere soddisfatta la propria quota mediante assegnazione in natura, nonostante vi fossero i presupposti funzionali e strutturali per procedere alla divisione in natura dell’ex alloggio del custode.
I motivi uno, due e quattro vanno esaminati unitariamente per la connessione argomentativa che li avvince. Essi sono infondati.
Va premesso che i motivi si incentrano sul nuovo testo dell’art. 1119 c.c., che, nel suo unico comma e sotto la rubrica “indivisibilità”, prevede testualmente che “le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio”. La norma è stata modificata dall’art. 4, legge 11 dicembre 2012, n. 220, in materia di riforma del condominio, che ha inserito, in fine del precedente testo, le predette parole «e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio». La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013, prima della deliberazione e della pubblicazione della sentenza di primo grado e di quella di appello, qui impugnata.
Tuttavia, il nuovo testo normativo non impedisce affatto la divisione giudiziale in mancanza di consenso di tutti i partecipanti. Come già evidenziato da questa Corte (Cass. 15 ottobre 2019 n. 26041), va ricordato che nell’originaria iniziativa legislativa (A.C. 4041) il principale testo proposto per la novellazione dell’art. 1119 era il seguente “Le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino, ovvero esse siano state sottratte
all’uso comune per effetto di una deliberazione ai sensi dell’articolo 1117-ter”.
Il testo, che dunque assoggettava la divisione a una deliberazione assembleare a maggioranza qualificata di mutamento di destinazione, è stato poi modificato in sede di testo unificato predisposto dalla Commissione giustizia del Senato, al fine di tenere conto di diverse formulazioni di altri progetti normativi.
Il testo unificato prevedeva che “Le parti comuni dell’edificio non sono soggette a divisione, a meno che le stesse siano state sottratte all’uso comune per effetto di una deliberazione ai sensi dell’articolo 1117ter se la divisione può avvenire in parti corrispondenti ai diritti di ciascuno, rispettando la destinazione e senza pregiudicare il valore delle unità immobiliari. Si applicano le disposizioni degli articoli 1111 e seguenti.” Tale formulazione, dunque, lasciava ferma la necessità di una delibera assembleare di mutamento di destinazione. Venivano richiamate le norme sulla divisione giudiziaria, eventualmente anche in riferimento a quella volontaria.
L’intenzione originaria del legislatore di prevedere un procedimento bifasico costituito da delibera di mutamento di destinazione e da una successiva attività negoziale o giudiziaria si evince dal dossier della Camera dei deputati n. 442 del 23 febbraio 2011. Infatti, tale documento preparatorio, preliminare all’esame del testo unificato da parte della Camera, enuncia: “La novella coordina il testo della
norma con l’introduzione nel codice civile del nuovo art. 1117ter (art. 2 p.d.l.) che ha previsto la disciplina delle modifiche delle destinazioni d’uso e sostituzioni delle parti comuni. Ai fini della divisione della parte comune, essa prevede quindi: – una preventiva delibera di modifica della destinazione d’uso; – la successiva divisione in parti corrispondenti ai diritti di ciascuno, che avviene secondo le norme che disciplinano lo scioglimento della comunione. La disposizione pone come limite alla divisione l’eventuale pregiudizio al valore delle unità immobiliari e prevede, in ogni caso, il rispetto della destinazione”.
Analoghi elementi si potevano dedurre dalla relazione del senatore COGNOME in sede di previo esame dalla commissione Giustizia del Senato in data 24 settembre 2008 e dalla relazione del medesimo sul cennato testo unificato predisposto dalla Commissione giustizia comunicata alla presidenza il 24 gennaio 2011.
Senonché l’NUMERO_DOCUMENTO, elaborato dalla Commissione Giustizia della Camera dei deputati, riordinava complessivamente la disciplina in materia di condominio degli edifici, con importanti novità rispetto al testo originario approvato in prima lettura dal Senato il 26 gennaio 2011.
Come si evince dal NUMERO_DOCUMENTO del 14 settembre 2012, contenente elementi per l’esame dell’Assemblea, in tale fase parlamentare l’art. 1119 cod. civ. assumeva la conformazione poi divenuta legge (già sopra riportata), con la semplice aggiunta al previgente art. 1119 c.c., infine,
dell’espressione “e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio”.
Detto documento preparatorio esplica la novellazione come segue: “L’art. 4 modifica l’art. 1119 c.c., in materia di indivisibilità del condominio, prevedendo che le parti comuni possano essere soggette a divisione solo in presenza di una delibera unanime che le sottragga all’uso comune” (sottolineatura aggiunta).
È agevole notare come gli elementi forniti all’Assemblea non corrispondano al testo: questo, a differenza di quelli, usa il vocabolo “consenso”, essendo del tutto elisa la nozione di “delibera” precedentemente usata. Anche l’aggettivo “unanime” non è presente nel testo normativo, che -evidentemente per allontanare ogni riferimento, anche indiretto, alla concezione bifasica prima accolta, al procedimento di delibera assembleare -è sostituito dall’espressione “di tutti i partecipanti al condominio”. Non viene mantenuta la salvezza degli artt. 1111 c.c. e ss.
Dalla ricostruzione del piano sistematico e della mens legislatoris questa Corte ha tratto l’ermeneutica della volontà obiettivamente espressa dalla legge, quale emerge dal suo dato letterale e logico, secondo cui il legislatore ha inteso lasciare aperta la possibilità di una divisione giudiziaria, quando “la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino”, aggiungendo il requisito del “consenso” di tutti i partecipanti per la sola divisione volontaria (Cass. n. 26041/2019 cit.).
In sintesi, in punto di diritto, va ribadito che in materia di divisione di beni comuni, pur contemplando l’ art. 1119 c.c. una forma di protezione rafforzata dei diritti dei condomini (in omaggio al minor “favor” del legislatore per la divisione condominiale), tuttavia ammette che la divisione sia richiedibile anche da uno solo dei comproprietari, con la sola subordinazione della stessa alla valutazione giudiziale che il bene, anche se diviso, manterrà l’idoneità all’uso cui è stato destinato (cfr., di recente, Cass. n. 4010 del 2020 e Cass. n. 4840 del 2021).
Ne consegue che la statuizione della corte d’appello è conforme al diritto, avendo accertato che solo con l’attribuzione del bene per l’intero ad un solo condomino è garantita la destinazione dell’immobile ad alloggio, la quale sarebbe venuta meno in caso di frazionamento, destinazione non revocata dagli stessi condomini, per cui vanno disattese le doglianze sopra sunteggiate;
-con il terzo motivo i ricorrenti denunziano l’omessa valutazione e l’ omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c.), in quanto il giudicante di secondo grado ha apprezzato la permanenza della destinazione d’uso come indivisibilità del bene in natura, trascurando, che ormai l’uso dell’ex alloggio del custode come appartamento, ovvero, abitazione permanente, è escluso dalle vigenti disposizioni edilizie-urbanistiche.
Il motivo è inammissibile sotto un duplice profilo.
In primo luogo, il vizio denunciato non si misura con la preclusione processuale di cui all’art. 348 ter ultimo comma c.p.c. stante il rigetto dell’appello statuito dalla Corte di merito e non avendo la parte attuale ricorrente specificato in ricorso le ragioni di fatto poste rispettivamente a fondamento della decisione di primo e di secondo grado, così dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 22 dicembre 2016 n. 26774). In secondo luogo, ancorché i fatti indicati dai ricorrenti fossero qualificabili come fatti storici, manca la formulazione del giudizio di decisività di tali fatti, giudizio – invero – mancante proprio in quanto la censura è volta a riformulare il giudizio di valutazione del giudice del merito quanto alla destinazione dell’alloggio al fine di statuire la indivisibilità del bene . , anche esaminando la censura con riferimento ad una supposta violazione di legge, la medesima richiederebbe
D’altra parte comunque un previo apprezzamento di merito;
– con il quinto motivo i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli articoli 720 c.c. 1101 c.c. o 115 c.p.c. per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c.), in relazione al fatto che il giudice d’Appello ha ritenuto i controricorrenti interamente aventi diritto all’attribuzione del bene , pur non risultando gli stessi titolari della quota maggiore.
Con il sesto motivo i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in quanto gli appellanti,
partendo dal dato testuale dell’art. 720 c.c., avevano invece evidenziato che i criteri della priorità della richiesta e della maggiore utilità non potevano essere presi in considerazione e che le quote di proprietà delle parti devono ritenersi identiche in mancanza di un titolo civilistico contrastante.
Con il settimo motivo i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione dell’art. 720 c.c., dell’art. 1119 c.c., dell’art. 1118 C.C., dell’art. 183 c.p.c., degli articoli 784 e seguenti c.p.c. nonché degli art. 23, 24, 25 e 42 della Costituzione (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.), in quanto il giudice d’appello ha ritenuto inammissibile la richiesta degli odierni ricorrenti di ottenere la divisione in natura e/o l’assegnazione in proprietà esclusiva dell’ex alloggio del custode, trascurando che la domanda attorea originaria era irrituale ed inammissibile, come è stato rilevato dai convenuti/odierni ricorrenti nella loro comparsa di costituzione; la domanda attorea è divenuta astrattamente ammissibile soltanto a seguito della modifica con la memoria attorea ex art. 183, comma 6 c.p.c.
Anche gli ultimi tre motivi vanno esaminati congiuntamente e respinti.
Essi rivelano diffusi profili di inammissibilità, adducendo rilievi sprovvisti di evidente decisività ai fini della cassazione della sentenza impugnata.
In realtà, il quinto ed il sesto motivo di ricorso sono volti dichiaratamente a sostenere l’erroneità dell’accertamento di fatto operato dalla Corte d’appello, approdato a tali esiti: a)
l’edificio in cui sono compresi i due appartamenti dei contendenti è costituito da una struttura unitaria; b) l’alloggio di proprietà del condominio è adibito a casa del portiere per essere avvinto dalla presunzione ex art. 1117 c.c.; c) in permanenza del vincolo di destinazione il bene non è divisibile. I ricorrenti contestando la ritenuta indivisibilità dell’alloggio assumendo che esso sia suddivisibile in due autonome parti, ognuna delle quali da attribuire a ciascun condomino in base alle rispettive quote di proprietà, invocano da questa Corte una nuova valutazione in fatto difforme da quella operata nei gradi di merito, valutazione che rimane sottratta al giudizio di legittimità. Spetta, infatti, all’accertamento del giudice di merito, non sindacabile dalla Corte di Cassazione ove, come nella specie, congruamente motivato, verificare la divisibilità o meno di un bene, che i NOME intendono negare, per inferirne che il servizio di portineria era venuto ormai meno nel tempo. uso condominiale, si applica ad essa la disciplina
Ed invece, come già detto, era piuttosto decisivo verificare se vi fosse stata la modifica della destinazione dell’alloggio del portiere prima della domanda di divisione per accertarne la divisibilità, in quanto nell’ipotesi in cui non sia più destinato a della comunione in generale, con tutto ciò che ne consegue (cfr. Cass. 29 giugno 1979 n. 3690; Cass. 22 novembre 2021 n. 35957), mutamento non intervenuto nella specie, per cui si tratta di una unità indivisibile che non consente la divisione strutturale e funzionale del bene condominiale, che potrà sempre essere messo a disposizione per essere adibito ad
alloggio del portiere ed è esattamente quanto affermato anche nell’impugnata sentenza.
Quanto, infine, al settimo motivo -nel ribadirne la infondatezza – occorre rilevare che nel giudizio di divisione l’istanza di attribuzione di un bene immobile indivisibile ex art. 720 c.c. costituisce solo una modalità attuativa della divisione, risolvendosi nella mera specificazione della domanda di scioglimento della comunione, sicché, non essendo domanda ma eccezione, può essere formulata o essere oggetto di rinuncia anche in grado d’appello (cfr Cass. 6 febbraio 2019 n. 3497).
In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il ricorso deve essere respinto, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte degli stessi ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del presente giudizio in favore dei controricorrenti che si liquidano in complessivi euro 7.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre a contributo forfettario, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione