Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 22572 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 22572 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21554/2023 R.G. proposto da:
AZIENDE AGRICOLE DI COGNOME–COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende con procura in atti.
-RICORRENTE- contro
COGNOME, elettivamente domiciliato in BARI INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende con procura in atti.
-CONTRORICORRENTE- nonché
NOME COGNOME NOME COGNOME.
-INTIMATO- avverso la SENTENZA del TRIBUNALE TRANI n. 935/2023, depositata il 07/06/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La RAGIONE_SOCIALEDe RAGIONE_SOCIALE ricorre sulla base di sei motivi avverso la sentenza del Tribunale di Trani n. 935/2023.
NOME COGNOME resiste con controricorso; NOME COGNOME non ha formulato difese.
NOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME aveva chiesto la divisione del complesso immobiliare denominato Villa Schinosa, di cui era comproprietario per la quota di 3/18, appartenendo i restanti 15/18 alla società ricorrente.
In sede di precisazione delle conclusioni la COGNOMERAGIONE_SOCIALE aveva chiesto l’assegnazione del complesso o, in subordine, di disporre la vendita.
Con sentenza non definitiva n. 2168/2018, il tribunale, ritenuta l’indivisibilità del bene e condivisa la stima del bene effettuata dal c.t.u., ha respinto la richiesta di assegnazione, poiché formulata per un importo inferiore al valore stimato, disponendo la vendita con delega ad un professionista; con successivo decreto del 21.3.2022 ha trasferito l’immobile all’aggiudicatario .
Avverso il decreto la ricorrente ha proposto istanza di revoca ex art. 487 c.p.c., con contestuale opposizione ex art. 617 c.p.c., lamentando l’illegittimità del provvedimento perché adottato prima che fosse passata in giudicato la pronuncia n. 6128/2018, con cui era stata rigettata la sua istanza di attribuzione.
Respinta la richiesta di revoca ed esaurita la fase cautelare, il giudizio è stato riassunto per il merito ed è stato definito con rigetto dell’opposizione.
Il giudice, negata la riunione ad analoghe opposizioni proposte nel corso del giudizio di divisione, ha ritenuto di non doversi astenere per aver già pronunciato sulle altre cause; ha osservato che la sentenza non definitiva n. 6128/2018 aveva esaurito una fase contenziosa del processo di divisione e, come tale, era estranea
alla vicenda, successiva ed esecutiva, concernente lo svolgimento della vendita, evidenziando che, quando la vendita viene disposta con sentenza, questa, seppur avente carattere non definitivo, è provvisoriamente esecutiva con la conseguenza che, anche se immediatamente impugnata, il giudice istruttore può procedere alla vendita in pendenza del giudizio di impugnazione.
In adesione al principio espresso da Cass. SU 18185/2013, ha ricordato che è inammissibile l’opposizione ex art. 617 c.p.c. che riguardi vizi sostanziali dei provvedimenti di vendita, affermando che, una volta intervenuto il regolare versamento del saldo ed escluse eventuali ipotesi di sospensione della vendita per incongruità del prezzo, deve procedersi al trasferimento del bene all’aggiudicatario con decreto ex art. 586 c.p.c., e non può più operare l’art. 487 c.p.c., in forza del quale i provvedimenti del giudice dell’esecuzione sono modificabili o revocabili fino a quando non abbiano avuto attuazione.
2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 51 c.p.c. e 111 Cost., per difetto di imparzialità del giudice, osservando che il magistrato che ha deciso l’oppos izione era tenuto ad astenersi, avendo conosciuto delle precedenti opposizioni nell’ambito del medesimo giudizio divisorio, opposizioni che non costituivano giudizi autonomi, ma mere appendici della causa principale.
Il secondo motivo denuncia, sotto altro profilo, la violazione degli art. 51 c.p.c. e 111 Cost., sostenendo che il divieto del giudice di pronunciare su una causa di cui abbia conosciuto in un diverso grado deve intendersi in senso lato, ricomprendendovi anche il caso in cui il medesimo giudice abbia pronunciato su altra opposizione avverso un atto della medesima procedura di vendita o nell’ambito della medesima causa di divisione.
I due motivi sono inammissibili.
La disciplina dell’astensione , posta a garanzia del principio di imparzialità, costituisce una deroga al dovere di ius dicere che grava sul giudice ed è importata al principio di tassatività dei casi in cui il giudice deve astenersi dal definire la lite (Corte cost. 123/1999).
Oltre alle ipotesi tipiche di cui all’art. 51, comma primo, c.p.c. , in cui la valutazione dell’esistenza di un pregiudizio all’ imparzialità dell’organo giudicante è effettuata dal legislatore e l’astensione è obbligatoria, la norma prende in considerazione, in via residuale, la sussistenza di “gravi ragioni di convenienza” che possono -facoltativamente -condurre all’astensione, con formula volutamente generica per l’impossibilità di una tipizzazione dei presupposti applicativi della disposizione, imponendo una valutazione in concreto delle ragioni di convenienza (diverse da quelle di cui al comma primo dell’art. 51 c.p.c.) .
Il relativo procedimento (che si articola nella richiesta di autorizzazione formulata dal giudice, cui segue un provvedimento non impugnabile del Capo dell’ufficio) ha carattere amministrativo (Corte cost. 35/1988) e si svolge senza la possibilità di partecipazione o di intervento delle parti processuali, le cui ragioni sono affidate e sono adeguatamente tutelate mediante il potere di ricusazione del giudice nei casi tassativamente previsti di astensione obbligatoria, senza possibilità di avvalersi della ricusazione nei casi di astensione facoltativa e senza che la mancata astensione possa dar luogo ad un vizio di nullità della sentenza (Corte cost. 123/1999).
Non è possibile scrutinare -come in effetti propone la ricorrente con il secondo motivo di ricorso l’applicabilità al giudizio divisorio della causa di astensione obbligatoria di cui all’art. 51, comma primo, n. 4 c.p.c. (o di quella attualmente contemplata dall’art. 186 bis disp. att. c.p.c., secondo cui i giudizi di opposizione ex art. 618
c.p.c. sono trattati da un magistrato diverso da quello che ha conosciuto degli atti avverso i quali è proposta opposizione), occorrendo che la questione fosse stata posta nel giudizio di merito mediante una formale richiesta di ricusazione, di cui il ricorso non dà conto, il che impedisce la sua deduzione in cassazione come causa di nullità della pronuncia (Cass. SU 1545/2017; (Cass. SU 170/2001; Cass. 5585/91; Cass. 12770/92, Cass. 8529/96).
3. Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. , contestando al Tribunale di non aver pronunciato sulle effettive ragioni che sostenevano la richiesta di riunione del presente giudizio ad altri due giudizi di opposizione tra le parti la causa, deducendo che la riunione si poneva come alternativa alla sospensione, sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnica tra i giudizi da riunire.
Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 274 e 295 c.p.c., lamentando che il giudice avrebbe dovuto o riunire le cause o sospendere il giudizio in attesa della definizione delle altre opposizioni.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente.
Il terzo motivo è inammissibile: il ricorso contiene un mero rinvio agli atti di causa, dando per pacifico un rapporto di pregiudizialità tecnica tra le diverse opposizioni di cui non illustra minimamente i presupposti e le questioni dibattute, né risulta alcuna sospensione del procedimento a seguito delle diverse opposizioni, sospensione che, come si preciserà in prosieguo, non è invocabile neppure tra le presente opposizione e l’impugnazione della sentenza parziale con cui il Tribunale ha respinto la richiesta di attribuzione ex art. 720 c.c. e ha disposto la vendita.
E’ principio costante nella giurisprudenza di legittimità che anche nell’ipotesi in cui questa Corte ha il potere di esaminare direttamente gli atti del giudizio di merito per errori procedurali, il motivo di censura deve essere ammissibile e il ricorrente deve
specificare dettagliatamente la critica alla sentenza impugnata, indicando nel ricorso per cassazione i fatti processuali che sostengono l’errore denunciato, in osservanza dei principi di specificità dell’impugnazione voluti dall’art. 366 c.p.c.
Non resta, quindi, che ribadire che non è configurabile il vizio di omessa pronuncia, né può sindacarsene la motivazione, rispetto all’istanza di riunione dei processi .
Il relativo provvedimento costituisce espressione del potere ordinatorio del giudice che lo esercita incensurabilmente, e, pertanto, non è suscettibile di impugnazione; l’omessa riunione di procedimenti relativi alla stessa causa, che non risulta tra l’altro sanzionata da nullità, non integra un capo della domanda sul quale manchi la decisione e per il quale può configurarsi il vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (Cass. 19693/2008; Cass. 35134/2021; Cass. 28539/2022).
4. Il quinto motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. , per aver il Tribunale omesso di pronunciare sul motivo di opposizione con cui era stata dedotta la possibilità di revocare l’aggiudica anche in ipotesi diverse dal mancato pagamento del prezzo.
Il sesto motivo denuncia la violazione degli artt. 279, comma quarto, e 177 c.p.c., sostenendo che, in caso di rigetto della richiesta di attribuzione ex art. 720 c.c., non è preclusa ed è anzi obbligatoria la sospensione del giudizio divisorio e della successiva vendita, poiché la pronuncia, con valore dichiarativo, è efficace solo al passaggio in giudicato; si assume inoltre che l’ordinanza che dispone la vendita non può pregiudicare la decisione finale sull’attribuzione .
Il settimo motivo deduce la palese illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 111, comma sesto, Cost. e 132 n. 4 c.p.c., lamentando che la pronuncia abbia mal interpretato i principi espressi dalle SU con sentenza 18185/2013 riguardo all’inammissibilità dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso il
decreto di trasferimento per vizi derivanti dal mancato accoglimento della richiesta di attribuzione, trascurando che le stesse SU avevano ritenuto patologica l’emissione di un’ordinanza di vendita ove fosse controverso il diritto all’attribuzione ed avevano stabilito che il fatto che il giudice non tenga conto della richiesta di attribuzione determina la nullità del provvedimento che dispone la vendita non della vendita stessa, avendo rimesso al giudice di rinvio il compito di accertare se la causa di attribuzione non sia pregiudiziale rispetto a quella di opposizione al decreto di trasferimento, riconoscendo implicitamente la possibilità di sospendere la procedura.
Si chiede una riforma della decisione sulle spese.
Il sesto e il settimo motivo, che vanno esaminati congiuntamente, richiedono di essere esaminati con priorità.
Entrambe le censure sono infondate.
A differenza del caso deciso da SU 18185/2013, in cui il Tribunale aveva respinto la richiesta di attribuzione con ordinanza ex art. 788, comma primo, c.p.c. nonostante la richiesta di attribuzione formulata dall’opponente, nel caso qui in discussione la richiesta di attribuzione è stata respinta con sentenza non definitiva impugnata in appello.
Il quesito posto dal ricorso concerne, quindi, la pretesa obbligatorietà della sospensione del giudizio divisorio finché non sia definita l’impugnazione e le possibili ricadute sulla validità del decreto di trasferimento adottato all’esito della procedura di vendita.
Alla questione posta dal ricorso deve darsi risposta negativa.
E’ certo che n el giudizio di divisione, l’istanza di attribuzione di un bene immobile indivisibile ex art. 720 c.c. costituisce una modalità attuativa della divisione che si risolve nella mera specificazione della domanda di scioglimento della comunione, sicché può essere formulata (o essere oggetto di rinuncia) anche in grado d’appello,
ogni volta che le vicende soggettive dei condividenti o quelle attinenti alla consistenza oggettiva e qualitativa della massa facciano emergere una situazione di non comoda divisibilità del bene, così da prevenirne la vendita, che rappresenta l’ extrema ratio voluta dal legislatore (Cass. 14756/2016). Anche quando con sentenza sia stata disposta la vendita, non è preclusa la possibilità di chiedere l’attribuzione, poiché in tal caso ciò che non può più esser posto in discussione (se non che con l’impugnazione), è l’accertamento dell’indivisibilità del bene (Cass. 11293/1998 ; Cass. 12119/2008; Cass. 3497/2019).
Da tali premesse non può farsi discendere -come ritiene la ricorrente anche l’obbligatorietà della sospension e del giudizio di divisione allorquando la sentenza che abbia negato l’attribuzione sia gravata di appello, né può professarsi un divieto di procedere alla vendita.
È utile riaffermare che la divisione giudiziale dà vita ad un processo unico avente quale finalità ultima la trasformazione di un diritto a una quota ideale in un diritto di proprietà su beni determinati e che, fino a quanto tali scopi non siano stati integralmente raggiunti, sono consentite pronunce che non definiscano l’intera res litigiosa. Il principio dell’unitarietà del procedimento non esclude -dunque che nell’ambito di tale processo possano essere pronunciate sentenze non definitive, tali essendo quelle che risolvono le contestazioni insorte fra i condividenti in ordine ai rispettivi diritti o all’appartenenza di un bene alla massa da dividere (Cass. 543/1986; Cass. 4080/1986; Cass. 4777/1989; Cass. 4954/1990; Cass. 4827/1994; Cass. 5960/1996; Cass. 29829/2011; Cass. 10067/2020), o che pronuncino sulla richiesta di attribuzione ex art. 720 c.c. (Cass. 3497/2019), mentre ha natura definitiva quella che provveda, ai sensi degli artt. 789 e 791 c.p.c., alla formazione definitiva dei lotti, anche ove siano rimesse alla fase successiva le
operazioni relative al sorteggio delle quote (Cass. 24300/2023; Cass. 15466/2016).
Ne consegue l’applicazione dell’art. 279, comma quarto , c.p.c. a mente del quale, se è stato proposto appello immediato contro una delle sentenze previste dal n. 4 del secondo comma, il giudice istruttore può sospendere il giudizio solo su istanza concorde delle parti, qualora ritenga che i provvedimenti dell’ordinanza collegiale siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza impugnata. Per principio generale, nel rapporto fra il giudizio di impugnazione di una sentenza emessa ai sensi dell’art. 279, comma secondo, n. 4 c.p.c. e quello che sia proseguito davanti al giudice che ha pronunciato detta sentenza, l’unica possibilità di sospensione di quest’ultimo giudizio è quella prevista dall’art. 279, comma 4, c.p.c., mentre è esclusa sia la sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., sia quella di cui al comma 2 dell’art. 337 c.p.c., per l’assorbente ragione che il giudizio è unico e che la sentenza resa in via definitiva è sempre soggetta alle conseguenze di una decisione incompatibile sulla statuizione oggetto della sentenza parziale o non definitiva (Cass. 18808/2021; Cass. 18664/2020; Cass. 1581/2019; Cass. 5894/2015).
La prosecuzione del giudizio costituisce, nell’ipotesi che qui viene in considerazione, conseguenza del tutto fisiologica della decisione non definitiva della res litigiosa (sul diritto all’assegnazione ex art. 720 c.c.), pur se non passata in giudicato, fatti salvi gli effetti espansivi dell’eventuale riforma della sentenza non definitiva ai sensi dell’art. 336, comma a secondo, c.p.c.
La decisione impugnata è conforme agli insegnamenti delle SU anche ove ha affermato che l’esistenza di una richiesta di attribuzione di cui il giudice non abbia tenuto conto (o che abbia illegittimamente respinto) non costituisce causa diretta di nullità della vendita, trattandosi di vizio relativo a un momento anteriore alla vendita, cioè della determinazione di disporre la vendita (Cass.
SU 18185/2013, pag. 12). In effetti, il provvedimento che dispone la vendita è un atto del procedimento per lo scioglimento delle comunioni, disciplinato dagli artt. 784 e ss. c.p.c., che costituisce l’antecedente giuridico del procedimento ex artt. 576 e ss. c.p.c. (Cass. 12419/2012; Cass. 1575/1999; Cass. 1572/2000, Cass. 5614/1994); quando il provvedimento che decide sulla controversia riguardo alla vendita è una sentenza ex art. 788, comma secondo, c.p.c., essa conclude una fase contenziosa (eventuale) del processo di divisione e, come tale, è estranea alla vicenda, successiva ed esecutiva, che concerne lo svolgimento della vendita.
Per tali ragioni i motivi sesto e settimo sono respinti; la questione, proposta con il quinto motivo, circa la possibilità di revocare il decreto di trasferimento per cause diverse dal mancato pagamento del prezzo è inammissibile perché priva di decisività, non potendo condurre ad un diverso esito del giudizio.
Le spese seguono la soccombenza.
Deve darsi atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in solido delle spese processuali, liquidate in € 7500,00 per compensi ed € 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, dà della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda