Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 27406 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 27406 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 14/10/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 10539/2019 R.G. proposto da: COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO (TEL. NUMERO_TELEFONO), presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, rappresentata dalla sua procuratrice speciale RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
nonchè contro
NOME COGNOME, BANCA MONTE DEI PASCHI DI RAGIONE_SOCIALE SPA
-intimati- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 358/2019 depositata il 07/02/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/10/2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Nel gennaio del 2004 il Monte dei Paschi di RAGIONE_SOCIALE promuoveva, innanzi al Tribunale di Venezia, l’espropriazione della quota indivisa di 1/6 della proprietà spettante a NOME COGNOME, sua debitrice, su di un immobile sito in Eraclea e in comunione con NOME, NOME e NOME COGNOME. Sospesa l’esecuzione, ai sensi dell’art. 601, primo comma, c.p.c., per l’instaurazione della causa di divisione, il Tribunale dichiarava con sentenza non definitiva n. 383/11 ‘lo scioglimento della comunione’ e la ‘indivisibilità’ del compendio comune, disponendone la vendita all’incanto. Si susseguivano, deserti, vari esperimenti d’asta, l’ultimo dei quali non aveva luogo per il mancato deposito, nel termine fissato dal giudice, del relativo fondo spese presso il AVV_NOTAIO delegato alla vendita.
A causa di ciò il Tribunale, con sentenza definitiva n. 2800/16, dichiarava la cessazione della materia del contendere e regolava le spese, sia di massa che di difesa. Osservava il giudice che il mancato deposito dell’acconto dovuto al professionista delegato alla vendita fosse espressivo del venir meno dell’interesse sostanziale delle parti alla divisione, e che l’art. 164 -bis disp. att.
c.p.c., benché non trovasse diretta applicazione, aveva un’influenza indiretta nella materia del contendere.
Sull’appello del Monte dei Paschi di RAGIONE_SOCIALE, la Corte distrettuale ribaltava tale decisione.
Limitatamente a quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, la Corte veneziana osservava (richiamando Cass. n. 10553/09) che, dato il carattere tassativo delle cause d’improcedibilità per la mancata adozione di atti d’impulso processuale, la pronuncia di cessazione della materia del contendere, presupponendo il venir meno delle ragioni di contrasto fra le parti, e con esso il comune disinteresse delle stesse alla decisione di merito, non avrebbe potuto essere emessa. Infatti, la parte creditrice aveva espressamente dichiarato nelle conclusioni il proprio interesse alla divisione.
La Corte d’appello, inoltre, dissentendo dal primo giudice, affermava l’inapplicabilità, ‘peraltro’ anche ratione temporis , sia dell’art. 164 -bis disp. att. c.p.c., sulla chiusura anticipata del processo esecutivo, sia dell’art. 631 -bis c.p.c., trattandosi di norme riguardanti il processo esecutivo e non quello di cognizione.
Quindi, la Corte territoriale, con separata ordinanza disponeva procedersi ad una nuova vendita.
Avverso quest’ultima pronuncia NOME, NOME e NOME COGNOME propongono ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.
Vi resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE, quale cessionaria del credito del Monte dei Paschi di RAGIONE_SOCIALE, in virtù di contratto stipulato il 20.12.2017, ai sensi della legge n. 130/99, e per essa cessionaria la procuratrice speciale RAGIONE_SOCIALE
NOME COGNOME e il Monte dei Paschi di RAGIONE_SOCIALE sono rimasti intimati.
In prossimità della pubblica udienza, e nei rispettivi termini, il P.G. e la parte ricorrente hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., delle produzioni documentali allegate alla memoria di parte ricorrente, siccome non inerenti né alla nullità della sentenza impugnata, né all’ammissibilità del ricorso, a nulla rilevando che detti documenti siano di formazione successiva alla notifica del ricorso.
Infatti, la giurisprudenza di questa Corte ammette la documentazione del factum superveniens solo se definitivamente modificativo dell’oggetto controverso (cfr. nn. 25396/24 e 19938/12) o se attestante la formazione del giudicato esterno (v. n. 26041/10 e S.U. n. 13916/06) o della cessazione della materia del contendere (nn. 9654/99, 2197/98 e 6333/90) o della sopravvenuta carenza d’interesse al ricorso o transazione della lite (nn. 14250/05, 13565/05 e 11176/04), restando esclusa la documentazione dei fatti sopraggiunti che attengano al merito della controversia.
1. – Il primo mezzo deduce la violazione degli artt. 130 disp. att. c.p.c. e 325 e 327 c.p.c. La Corte d’appello si sostiene -avrebbe dovuto dichiarare inammissibile il gravame, siccome prodotto con citazione e non con ricorso, quest’ultimo da depositarsi nelle forme e nei termini prescritti dagli artt. 308 c.p.c. e 130 disp. att. c.p.c. Sostiene parte ricorrente che la declaratoria di estinzione, pronunciata dal giudice monocratico, è assimilabile alla sentenza emessa dal Tribunale in composizione collegiale ai sensi dell’art. 308, secondo comma, c.p.c., in esito al reclamo ivi previsto; e che, nella specie, la sentenza di primo grado era stata notificata al Monte dei Paschi di RAGIONE_SOCIALE il 15.2.2017, sicché l’atto
d’appello, benché sotto l’erronea forma della citazione e non del ricorso, avrebbe dovuto essere depositato entro il 17.3.2017, mentre l’iscrizione a ruolo è avvenuta il 24.3.2017.
1.1. – Il motivo è, per due ragioni, manifestamente infondato.
1.1.1. Esso procede dall’implicita premessa che la declaratoria di cessazione della materia del contendere equivalga in toto ad una pronuncia di estinzione, e su tale presupposto impianta il proprio (per di più fallace: v. par. seguente) ragionamento sillogistico.
Al contrario, va osservato che, per quanto entrambe le suddette pronunce comportino il venir meno del processo, la loro equipollenza a livello effettuale è tutt’altro che inverabile.
La cessazione della materia del contendere costituisce, nel rito contenzioso davanti al giudice civile, una fattispecie di estinzione del processo, creata dalla prassi giurisprudenziale, che si verifica quando sopravvenga una situazione che elimini la ragione del contendere delle parti, facendo venir meno l’interesse ad agire e a contraddire, e cioè l’interesse ad ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, da accertare avendo riguardo all’azione proposta e alle difese svolte dal convenuto. Pertanto, alla emanazione di una sentenza di cessazione della materia del contendere consegue, da un canto, la caducazione della sentenza impugnata, a differenza di quanto avviene nel caso di rinuncia al ricorso, che ne determina il passaggio in giudicato; e, dall’altro, l’assoluta inidoneità della sentenza di cessazione della materia del contendere ad acquisire efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, limitandosi tale efficacia di giudicato al solo aspetto del venir meno dell’interesse alla prosecuzione del giudizio (v. nn. 4714/06, 3122/03 e 9332/01, tutte scaturite da S.U. n. 1048/00).
Mentre l’estinzione è normativamente prevista sia nel processo esecutivo (art. 629 e ss. c.p.c.) che in quello dichiarativo (artt. 306
e ss. c.p.c.), la cessazione della materia del contendere (d’origine pretoria) è compatibile solo con quest’ultimo, giacché suppone un contraddittorio in senso tecnico tra parti equi-ordinate, che dispongono di pari poteri processuali. Così inteso, il contraddittorio è assente, invece, nel processo esecutivo, che ha carattere tipicamente unilaterale in virtù della soggezione del debitore esecutato al potere coattivo del creditore. Nel processo d’esecuzione il principio del contraddittorio, infatti, è sostituito dal principio di audizione, volto al miglior esercizio dei poteri ordinatori del G.E., salvo risorgere in occasione e a causa degli incidenti cognitivi (sulla differenza tra contraddittorio e audizione nel processo esecutivo e sulle relative conseguenze, v. nn. 16731/09 e 8293/93; in generale, sull’argomento v. anche, fra le tantissime, le nn. 22279/10, 13914/05 e 1618/05).
Ciò posto, la diversità delle due tipologie definitorie in esame -estinzione e cessazione della materia del contendere -è puntualmente rilevata dalla giurisprudenza di questa Corte nell’ambito dell’esecuzione forzata. Si afferma, al riguardo, che l’estinzione del processo esecutivo per rinuncia e la cessazione della materia del contendere, relativamente al processo, non sono statuizioni equipollenti, differenziandosi sia per la forma, che per i rispettivi rimedi. Infatti, l’estinzione per rinuncia, in forza di quanto stabilito dagli artt. 629 e 630 c.p.c., è dichiarata con ordinanza reclamabile, mentre la cessazione della materia del contendere, non espressamente prevista dal codice di rito, ove non dia luogo ad una rinuncia avente i requisiti previsti dall’art. 629 citato, si configura come ordinanza di chiusura del processo esecutivo, eventualmente opponibile ai sensi dell’art. 617 c.p.c. (v. nn. 24775/14 e 15374/11, entrambe emesse -si noti -al di fuori dell’espropriazione prevista dagli artt. da 599 a 601 c.p.c.).
Allorché l’espropriazione dei beni indivisi avvenga nelle forme della divisione, c.d. endoesecutiva, i due processi, l’uno esecutivo, l’altro dichiarativo, ancorché funzionalmente e strutturalmente connessi (cfr. n. 4473/22), per essere accomunati dall’unica finalità di soddisfare l’interesse creditorio, restano tra loro autonomi (v. nn. 5386/24, 22210/21 e 21218/20), sicché il giudizio divisorio non costituisce né un subprocedimento né una fase del processo esecutivo.
Ciò si riflette sui rimedi rispettivamente esperibili, nel senso che quelli propri del processo d’esecuzione non sono applicabili alla divisione, ancorché endoesecutiva (cfr. n. 4499/11), e viceversa, salvo per le singole fasi di quest’ultima che siano soggette alle forme proprie dell’espropriazione forzata (cfr. 5386/24, secondo cui, nell’ambito della divisione c.d. endoesecutiva, l’ordinanza che fissi da un lato le modalità dell’incanto e dall’altro consenta la prosecuzione della divisione deve essere gravata, rispettivamente, con il rimedio di cui all’art. 617 c.p.c. e con l’appello, senza che possa trovare applicazione l’art. 618 c.p.c.).
Del resto, l’autonomia del processo di espropriazione di beni indivisi rispetto alla divisione disposta ai sensi dell’art. 600, cpv. c.p.c. è indiscutibilmente dimostrata dall’effetto sospensivo dell’esecuzione, che si produce ex lege , in base all’art. 601, primo comma, c.p.c., per il semplice principiarsi del giudizio divisorio.
Pertanto, ove quest’ultimo sia definito con una declaratoria di cessazione della materia del contendere, il rimedio esperibile contro tale pronuncia è costituito (non dall’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c. o dal reclamo, bensì) dall’appello secondo le regole ordinarie.
1.1.2. – Oltre a ciò -e si passa, così, ad esaminare il secondo profilo d’infondatezza della censura il ragionamento svolto dalla parte ricorrente è intrinsecamente contraddittorio.
Da un lato il motivo cita la giurisprudenza di questa Corte (nn. 14889/02, 8092/04 e 13760/06, cui adde n. 18242/08 e, da ultimo, 18603/25), che equipara quoad effectum l’ordinanza di estinzione emessa dal giudice monocratico alla sentenza resa dal Tribunale in composizione collegiale in esito al reclamo ex art. 308, secondo comma, c.p.c. Dall’altro, però, immemore sia del fatto che detta assimilazione decisoria in tanto è affermata ed è dotata di senso logico-giuridico, in quanto il provvedimento di estinzione sia stato emesso in una causa soggetta a decisione monocratica, sia del suo ovvio contrario, vale adire che il reclamo di cui agli artt. 308 c.p.c. e 130 disp. att. c.p.c. è esperibile, invece, avverso un provvedimento avente effettiva natura ordinatoria (in virtù della soggezione della causa a decisione collegiale), detto motivo pretende di assoggettare l’appello alle forme proprie del reclamo, ancorché detti rimedi siano tra loro incompatibili.
1.2. Questa l’enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 384, primo comma, c.p.c. e 143, disp. att. c.p.c. nuovo testo:
allorché l’espropriazione dei beni indivisi avvenga nelle forme della divisione, c.d. endoesecutiva, i due processi, l’uno esecutivo, l’altro dichiarativo, ancorché funzionalmente e strutturalmente connessi, restano tra loro autonomi; pertanto, ove il giudizio di divisione sia definito con una declaratoria di cessazione della materia del contendere, il rimedio esperibile contro tale pronuncia è costituito (non dall’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c. o dal reclamo ex artt. 308 o 630 c.p.c., bensì) dall’appello secondo le forme ordinarie.
-Il secondo motivo espone la violazione ‘per errata applicazione’ (così, a pag. 13 del ricorso) degli artt. 164 -bis disp. att. c.p.c. e 788 c.p.c. Sostiene parte ricorrente che l’art. 164 -bis disp. att. c.p.c. sulla chiusura anticipata dell’esecuzione, introdotto
dall’art. 19, secondo comma, del D.L. n. 132/14, convertito in legge n. 162/14, sia applicabile anche alle divisioni giudiziali, e che detta norma sia stata prevista proprio per le esecuzioni ‘inutilmente’ pendenti, onde la sua applicabilità, nella specie, in virtù del principio tempus regit actum .
Quanto alle relative condizioni, il motivo dalle pagg. 16 a 18 espone i calcoli in virtù dei quali, a fronte dell’ammontare complessivo dei crediti del procedente e degli intervenuti e delle spese della procedura, ulteriori esperimenti d’asta sarebbero stati privi d’ogni utilità e contrari alla giusta ( recte , ragionevole: n.d.r.) durata del processo.
2.1. – Il motivo è inammissibile, ma richiede la correzione in parte qua della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c.
Infatti, il comma 6bis dell’art. 19 D.L. n. 132/14, aggiunto dalla legge di conversione n. 162/14, stabilisce che le disposizioni del medesimo articolo, fatta eccezione per quelle previste al comma 2, lettera a ), limitatamente alle disposizioni di cui all’articolo 155sexies , e lettera b ) -che ha introdotto, appunto, l’art. 164 -bis disp. att. c.p.c. -e al comma 5, si applicano ai procedimenti iniziati a decorrere dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Nulla quaestio , pertanto, sull’applicabilità dell’art. 164bis , disp. att. c.p.c., in virtù del principio tempus regit actum , alle esecuzioni che, come quella in oggetto (iniziata nel 2004), erano pendenti alla data anzidetta.
2.1.1. – Se detta norma sia applicabile anche alla divisione c.d. endoesecutiva prevista dagli artt. 600-601 c.p.c. è quesito cui pure s’impone risposta affermativa. Benché dotata (v. supra par. 1.1.1.) di una propria autonomia, al pari degli altri incidenti cognitivi che costellano il processo d’esecuzione, tale divisione costituisce una
delle tre modalità (le altre sono la separazione in natura e la vendita della quota indivisa) attraverso cui si attua l’espropriazione dei beni indivisi. A tale connessione di tipo funzionale, si accompagna anche una parziale connessione di tipo strutturale, palesata dal fatto che l’atto introduttivo della divisione è costituito dall’ordinanza emessa dallo stesso giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 600, secondo comma, c.p.c., il quale provvede, poi, a norma degli artt. 175 e ss. c.p.c. (art. 181, primo comma, disp. att. c.p.c.).
Infine, la concentrazione innanzi al giudice dell’esecuzione ( id est , il giudice persona fisica cui il processo esecutivo è stato assegnato) dei due processi, esecutivo e cognitivo (sempre prevista, a differenza di quanto disponeva il testo dell’art. 600, secondo comma, c.p.c. ante D.L. n. 35/05, convertito in legge n. 80/05), consente di realizzare con un medesimo provvedimento la chiusura anticipata di entrambi, concorrendone le condizioni di legge.
2.1.2. -Ciò chiarito a correzione della motivazione della sentenza impugnata, deve rilevarsi che: a ) la chiusura anticipata del processo di espropriazione ex art. 164bis disp. att. c.p.c. va disposta quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo; b ) pertanto, si tratta di un provvedimento propriamente esecutivo, che in quanto tale è estraneo alla fase cognitiva della divisione endoesecutiva; c ) la relativa valutazione non deve avere luogo in modo espresso prima di ogni rifissazione della vendita, ma una motivazione espressa è necessaria in caso di esplicita istanza di uno dei soggetti del processo oppure quando si verifichino o considerino fatti nuovi,
soprattutto in relazione alle previsioni dell’ordinanza ai sensi dell’art. 569 c.p.c. (così, in particolare, sotto quest’ultimo aspetto la sentenza n. 11116/20); d ) detto provvedimento non è suscettibile di impugnazione con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. essendo soggetto all’opposizione agli atti esecutivi (v. n. 7754/18 e la precitata n. 11116/20, pure emessa in esito ad un’opposizione ex art. 617 c.p.c.); e ) infine, e di riflesso, la mancata adozione dell’ordinanza di chiusura anticipata non è neppure impugnabile con il ricorso ordinario per cassazione, come invece avvenuto nella specie, a nulla rilevando che il relativo diniego sia contenuto nella sentenza d’appello (sulla necessità di diversificare i mezzi d’impugnazione ove le diverse statuizioni contenute in una medesima pronuncia siano soggette ad un regime diverso, cfr. la vasta e nota giurisprudenza di questa Corte in tema di impugnazione dei provvedimenti emessi ai sensi sia dell’art. 617 che dell’art. 615 c.p.c., tra cui, ex multis e per tutte, la sentenza n. 3166/20).
Di qui l’anzidetta inammissibilità del mezzo.
– Col terzo motivo parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 631 -bis c.p.c., e l’art. 788 c.p.c., la cui applicabilità alla vendita in sede di divisione giudiziale, per il caso di mancato pagamento delle spese notarili, la Corte d’appello ha erroneamente escluso, in violazione del principio tempus regit actum.
3.1. – Anche tale motivo è in parte inammissibile e in parte destituito di fondamento.
3.1.1. Inammissibile lì dove non considera che l’ipotizzata applicazione dell’art. 631 -bis c.p.c. comporterebbe la soggezione anche del provvedimento di diniego dell’estinzione al reclamo, ex art. 630, terzo comma, c.p.c., e non già all’appello (cfr. n. 22308/11).
3.1.2. Infondato, in quanto l’art. 631 -bis c.p.c., inserito dall’art. 13, primo comma, lett. ee ) D.L. n. 83/15, convertito in legge n. 132/15, ai sensi dell’art. 23, secondo comma, stesso D.L., si applica decorsi trenta giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale delle specifiche tecniche previste dall’articolo 161quater delle disposizioni per l’attuazione del c.p.c. Queste ultime, a loro volta, sono stabilite dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della medesima disposizione, termine che, però, è stato prorogato al 31.12.2016 dall’art. 2 -bis , primo comma, D.L. n. 210/2015, convertito in legge n. 21/16 (dette specifiche tecniche sono state poi pubblicate nella G.U. n. 16 del 20 gennaio RAGIONE_SOCIALE).
Orbene, la vendita cui si riferisce la sentenza d’appello è quella disposta con ordinanza del 4.7.2014, di delega al AVV_NOTAIO, e in relazione alla quale il termine di deposito del fondo spese era scaduto il trentesimo giorno successivo al 26.5.2016 (v. pag. 6 della sentenza impugnata). Va da sé, pertanto, che a tale data la disposizione dell’art. 631 -bis c.p.c. non era ancora entrata in vigore.
4. – Col quarto motivo è denunciata la violazione degli artt. 112 e 91 c.p.c. La Corte d’appello, condannando l’odierna ricorrente alle spese di lite e di c.t.u., avrebbe ingiustamente omesso di considerare che la sig.ra NOME COGNOME nel corso del giudizio di primo grado aveva offerto alla Banca procedente € 30.000,00 in via transattiva. In tal modo la Corte distrettuale avrebbe violato l’art. 91, primo comma, c.p.c., nella parte in cui detta norma stabilisce che il giudice, se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta conciliativa al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione
della proposta (salvo, prosegue la norma, quanto disposto dal secondo comma dell’art. 92: n.d.r.).
4.1. In disparte l’inconferente richiamo all’art. 112 c.p.c., la cui violazione viene in rilievo solo allorché il giudice ometta la decisione su di una domanda o un’eccezione di merito rimessa alla disponibilità delle parti, e non anche quando, come nella specie, sia denunciato un error in iudicando ; ciò a parte, il motivo è manifestamente infondato per due concorrenti ed equiordinate ragioni.
4.1.1. La prima è che l’art. 91, primo comma, secondo periodo, c.p.c., lì dove richiede per la sua applicazione l’accoglimento della domanda ‘in misura non superiore alla proposta conciliativa’, presuppone ( i ) una domanda di condanna, ( ii ) per di più ad una prestazione apprezzabile in termini quantitativi, e dunque frazionabile, come ad esempio il pagamento di una somma di denaro o la consegna di un dato quantitativo di altro bene fungibile. Il che esclude dal suo ambito d’applicazione da un lato le pronunce di carattere dichiarativo o costitutivo, e dall’altro le proposte che, irriducibili ad una frazione del bene oggetto di domanda, prescindono dal petitum dell’azione esercitata, avendo un contenuto sostanziale transattivo e non processuale conciliativo.
Ciò posto, la censura mostra di fare commistione di concetti del tutto eterogenei, quali condanna, esecuzione forzata, domanda di divisione endoesecutiva e credito pecuniario azionato in executivis , come se la divisione endoesecutiva avesse ad oggetto una domanda di condanna. Ma poiché è di evidenza solare che né l’espropriazione di beni indivisi né la divisione che ne segua mettono capo ad una statuizione di tale contenuto, non essendo questo l’oggetto né dell’uno né dell’altro processo (la condanna
essendo insita e indiscutibile nel titolo esecutivo), la censura è disallineata rispetto alle condizioni della norma.
4.1.2. La seconda ragione risiede nel fatto che l’art. 91 c.p.c. presuppone il potere del giudice di regolare le spese, cioè di stabilirne l’aggravio all’una o all’altra parte secondo il principio di soccombenza o di responsabilità preprocessuale. Il giudice dell’espropriazione, invece, ha solo il potere di liquidare le spese in favore del creditore procedente e di quelli intervenuti, il cui diritto a ripeterle dal debitore esecutato deriva dalla legge (art. 510, primo comma, c.p.c.) e non da una decisione del giudice.
4.2. Nei termini che seguono, l’enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 384, primo comma, c.p.c. e 143, disp. att. c.p.c. nuovo testo:
l’art. 91, primo comma, secondo periodo, c.p.c., richiedendo per la sua applicazione l’accoglimento della domanda in misura non superiore alla proposta conciliativa, presuppone una domanda di condanna ad una prestazione apprezzabile in termini quantitativi, e dunque frazionabile, il che esclude dal suo ambito sia le pronunce di carattere dichiarativo o costitutivo, sia le proposte che, essendo irriducibili ad una frazione del bene oggetto di domanda, prescindono dal petitum dell’azione esercitata, avendo un contenuto sostanziale transattivo e non processuale conciliativo. Ne deriva che l’art. 91 c.p.c. è inapplicabile al processo di esecuzione, che non ha natura dichiarativa e nel quale, pertanto, l’aggravio delle spese al debitore esecutato ripete la propria fonte dalla legge (art. 510, primo comma, c.p.c.) e non da una decisione del giudice.
– Il quinto motivo lamenta la nullità della sentenza per violazione degli artt. 111 Cost. sul giusto processo, 159, 161 e 279 c.p.c. Ciò in quanto la Corte d’appello ha pubblicato dapprima, in data 1.2.2019, l’ordinanza (denominata, in maniera illegittima e incomprensibile, ‘decreto di sospensione’) con cui ha disposto la
vendita all’asta del bene oggetto di divisione, e poi, in data 7.2.2019, la sentenza che, accogliendo l’appello della Banca MPS, ha disposto il prosieguo di tale processo.
In tal modo -si sostiene -la Corte territoriale ha invertito la sequenza imposta dall’art. 279, secondo comma, n. 4) c.p.c.; emesso un’ordinanza nonostante la sospensione del processo esecutivo; posto in essere, di riflesso, un provvedimento abnorme; e anticipato, infine, il contenuto della decisione finale, ponendo un problema di ‘incompatibilità’ (è citata, al riguardo, Cass. n. 11505/96).
5.1. – Il motivo è infondato.
Premesso che la denominazione di tale ordinanza quale ‘decreto di sospensione’ è contenuta esclusivamente nelle annotazioni marginali recanti il numero cronologico, quello di R.G. e la data di emissione, le quali essendo generate dal sistema non sono ascrivibili all’organo giudicante, va osservato che in base all’art. 159, primo comma, c.p.c., la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti, né di quelli successivi che ne sono indipendenti.
Nella specie, la sentenza impugnata è sì successiva all’ordinanza di vendita, ma ne è indipendente, per la semplice ragione che (come, del resto, conviene la stessa parte ricorrente) è l’ordinanza a dipendere dalla sentenza emessa ai sensi dell’art. 279, secondo comma, n. 4) c.p.c., e non il contrario, per cui nessuna nullità della sentenza è tecnicamente predicabile in virtù del citato effetto di propagazione.
Quanto, infine, alla dedotta incompatibilità del Collegio, per l’asserita anticipazione del giudizio derivante dall’inversione dei tempi di pubblicazione tra sentenza ed ordinanza, va rilevato che: a ) anticipazione del giudizio e incompatibilità sono profili del tutto diversi, l’una derivando dalla condotta del giudice, l’altra dalle
norme processuali che la prevedono in casi tassativi; b ) l’anticipazione del giudizio è configurabile solo se espressa in maniera impropria, cioè al di fuori del processo cui essa inerisce e delle relative finalità; c ) essa non rientra nei casi tipici di astensione e di ricusazione, ma al massimo nell’ipotesi di astensione facoltativa per gravi ragioni di convenienza, ai sensi dell’art. 51, cpv. c.p.c.; e d ) la mancata astensione non può costituire motivo d’impugnazione, giacché la violazione dell’obbligo del giudice di astenersi -e a fortiori , pertanto, la mancata astensione per gravi ragioni di convenienza, che non è oggetto di un obbligo -non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da lui emessa. Infatti, è stato osservato dalla giurisprudenza di questa Corte suprema, l’art. 111 Cost., nel fissare i principi fondamentali del giusto processo (tra i quali, appunto, l’imparzialità e terzietà del giudice), ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina e, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato sull’impulso paritario delle parti, non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire, nell’ipotesi anzidetta, l’imparzialità e terzietà del giudice tramite gli istituti dell’astensione e della ricusazione; né detti istituti, cui si aggiunge quello dell’impugnazione della decisione nel caso di mancato accoglimento della ricusazione, possono reputarsi strumenti di tutela inadeguati o incongrui a garantire in modo efficace il diritto della parti alla imparzialità del giudice, dovendosi, quindi, escludere un contrasto con la norma recata dall’art. 6 della Convenzione EDU, che, sotto l’ulteriore profilo dei contenuti di cui si permea il valore dell’imparzialità del giudice, nulla aggiunge rispetto a quanto già previsto dal citato art. 111 Cost. (v. n. 21094/17).
Nella specie, mancano tutte le condizioni innanzi richiamate, anche soltanto per revocare in ipotesi una fattispecie di
incompatibilità. Lo stretto nesso tra l’un provvedimento l’altro e la brevità del lasso temporale intercorso tra di essi conclamano -implausibile qualsivoglia diversa lettura dotata di senso -essersi trattato non già di un atto nullo o abnorme, ma di un mero ed involontario disguido (del giudice o della cancelleria, non è dato sapere), improduttivo di pregiudizi di sorta per le parti.
– Il sesto motivo reitera le medesime censure del precedente, ma le riferisce all’ordinanza che ha disposto la vendita, di cui deduce la nullità.
6.1. Il motivo è inammissibile, non già perché l’ordinanza non sia stata espressamente impugnata (come si evincerebbe dall’epigrafe del ricorso), atteso che il motivo svolto vale, comunque, a manifestarne l’intento, ma per la diversa e più efficiente ragione che segue.
In tema di scioglimento della comunione, gli atti relativi al procedimento di vendita sono soggetti al rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi di cui all’att. 617 c.p.c., dovendo escludersi l’esperibilità di un’autonoma azione di nullità avverso il decreto di trasferimento conclusivo del procedimento di vendita. Invero, la finalità del procedimento di vendita dei beni immobili non è diversa nel giudizio divisorio o nel procedimento esecutivo e le scelte legislative degli ultimi lustri, con l’esplicito rinvio, contenuto nell’art. 788 cod. proc. civ., a norme del processo esecutivo, sono la manifestazione di un richiamo ad esse che va inteso come sistematico; sicché non avrebbe senso scandire il procedimento di vendita con i passi del processo esecutivo e sovrapporgli un apparato rimediale del tutto diverso, privo di quell’efficacia e di quella celerità che deriva sia dalla tipologia delle opposizioni, sia dal meccanismo della sanatoria processuale (così, S.U. n. 18185/13). Di riflesso, l’ordinanza che fissi da un lato le modalità dell’incanto e dall’altro consenta la prosecuzione della divisione
deve essere gravata, rispettivamente, con il rimedio di cui all’art. 617 c.p.c. e con l’appello, senza che possa trovare applicazione l’art. 618 c.p.c. (v. n. 5386/24).
Nella specie, mentre la sentenza d’appello che ha disposto la prosecuzione del giudizio di divisione è stata correttamente impugnata col ricorso ordinario per cassazione, erroneamente la medesima impugnazione è stata prodotta avverso l’ordinanza che ha disposto la vendita, la quale avrebbe dovuto formare oggetto di opposizione ai sensi dell’art. 617 c.p.c.
– In conclusione, il ricorso è respinto.
-Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente.
Sussistono i presupposti processuali, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12, per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alle spese, liquidate in € 2.700,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre 15% di spese generali, IVA e CPA.
Sussistono i presupposti processuali, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12, per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7.10.2025.
Il Presidente estensore NOME COGNOME