Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3376 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 3376 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso 1662-2024 proposto da:
COGNOME e NOME COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO NOME COGNOME INDIRIZZO presso lo studio dell’avv . NOME COGNOME che li rappresenta e difende in unione di delega con l’avv. NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avv . NOME COGNOME e domiciliato presso la Cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrente e ricorrente incidentale –
nonchè contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avv . NOME COGNOME e domiciliato presso la Cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1744/2023 della CORTE DI APPELLO di BRESCIA, depositata il 20/11/2023;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 13.4.2012 COGNOME e COGNOME NOME evocavano in giudizio COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Brescia, invocandone la condanna a demolire o arretrare un fabbricato realizzato in violazione delle norme in tema di distanze tra edifici, nonché al risarcimento del danno. Gli attori si dolevano, in particolare, dell’innalzamento dell’altezza dell’edificio che il convenuto aveva eretto in ampliamento di una preesistente fabbrica, della creazione di una intercapedine e della posa in opera di una canna fumaria, in tutti i casi senza rispetto delle prescrizioni in tema di distanze.
Si costituiva il convenuto, contestando la domanda e chiamando in garanzia COGNOME COGNOME, progettista e direttore dei lavori.
Si costituiva il terzo chiamato, resistendo sia alla domanda principale che a quella di manleva.
Con sentenza n. 3140/2018 il Tribunale accertava l’innalzamento del tetto e la realizzazione della canna fumaria in violazione delle distanze e ne ordinava la demolizione, condannando il convenuto COGNOME al risarcimento del danno nella misura di € 3.500; accoglieva la domanda di manleva da questi spiegata nei confronti del COGNOME; rigettava le restanti domande.
Con la sentenza oggi impugnata, n. 1744/2023, la Corte di Appello di Brescia riformava la decisione di prime cure, rigettando le domande proposte dagli odierni ricorrenti. La Corte distrettuale riteneva, in particolare, che l’opera realizzata dall’COGNOME integrasse una nuova costruzione, ma escludeva la violazione delle distanze perché eseguita in aderenza a quella degli odierni ricorrenti. Riteneva inoltre che la canna fumaria, posta a metri 3,80 dal confine, non recasse pregiudizio al fondo di proprietà Arrigoni – Spandre.
Propongono ricorso per la cassazione di detta decisione COGNOME e COGNOME NOMECOGNOME affidandosi a tre motivi.
Resistono con separati controricorsi COGNOME NOME, da un lato, e COGNOME NOME, dall’altro lato. Quest’ultimo propone ricorso incidentale condizionato affidato ad un solo motivo.
A seguito della proposta di definizione anticipata, formulata ai sensi di quanto previsto dall’art. 380 bis c.p.c., la parte ricorrente principale, con istanza in data 28.5.2024, corredata da nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.
In prossimità dell’adunanza camerale, tutte le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente il collegio dà atto che, a seguito della pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte Corte n. 9611/2024 (Cass. Sez. U, Sentenza n. 9611 del 10/04/2024, Rv. 670667), non sussiste alcuna incompatibilità del presidente della sezione o del consigliere delegato, che abbia formulato la proposta di definizione accelerata, a far parte, ed eventualmente essere nominato relatore, del collegio che definisce il giudizio ai sensi dell’art. 380-bis.1, atteso che la proposta non ha funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione in camera di
consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente si configura quale fase distinta del giudizio di cassazione, con carattere di autonomia e contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta stessa.
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 871, 872 c.c. e delle N.T .A. del Comune di Piancogno, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto che la costruzione dell’originario convenuto fosse stata eretta in aderenza, anche avendo accertato l’esistenza di una intercapedine. La Corte distrettuale, in particolare, avrebbe evidenziato che l’intercapedine, ancorché esistente, non sarebbe rilevante perché non visibile dall’esterno, ed in tal modo avrebbe travisato la ratio delle norme applicabili, tese ad evitare la creazione di qualsiasi intercapedine tra edifici.
La censura è fondata, sotto il profilo della dedotta violazione di legge.
La Corte di Appello ha accertato che tra gli edifici di proprietà COGNOME ed COGNOME esiste una intercapedine di cm. 60, ma la ha ritenuta irrilevante perché non visibile dall’esterno, in quanto tamponata con un muro in pietrame (cfr. pagg. 14 e 15 della sentenza impugnata). La statuizione non si confronta con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui ‘Affinché si verifichi l’ipotesi di costruzione in aderenza è necessario che la nuova opera e quella preesistente -pur essendo autonome dal punto di vista strutturale, nel senso che il perimento o la demolizione dell’una non possa incidere sull’integrità dell’altra- combacino perfettamente da uno dei lati, in modo che non rimanga tra i due muri, nemmeno per un breve tratto o ad intervalli, uno spazio vuoto, ancorché totalmente chiuso, che lasci scoperte, sia pure in parte, le relative facciate. Nella specie, è stata
negata la qualità di costruzione in aderenza ad una costruzione il cui muro perimetrale non combaciava perfettamente con quello adiacente, restando nella parte centrale un vuoto di circa cinquanta centimetri, chiuso in alto mediante un solaio in calcestruzzo, non rilevando che l’intercapedine fosse totalmente chiusa, in modo che l’uomo non potesse accedervi, ne potesse cadervi pioggia od altro’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 477 del 16/02/1966, Rv. 320943; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2025 del 13/07/1973, Rv. 365180; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2904 del 17/10/1974, Rv. 371343; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9354 del 16/12/1987, Rv. 456520; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21227 del 05/10/2009, Rv. 609569).
L’accertata esistenza della intercapedine, dunque, avrebbe dovuto condurre il giudice di merito a valutare se la fabbrica esistente a confine della proprietà COGNOME, costituisse o meno una costruzione, tenendo conto del principio secondo cui ‘In tema di distanze legali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi costruzione agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica funzione di sostegno e contenimento, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento, dovendosi escludere la qualifica di costruzione anche se una faccia non si presenti come isolata e l’altezza possa superare i tre metri, qualora tale sia l’altezza del terrapieno o della scarpata’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 24842 del 16/09/2024, Rv. 672368; conf. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 6766 del 19/03/2018, Rv. 647859); mentre, per converso, costituisce costruzione, soggetto all’osservanza delle norme in tema di distanze, ‘Il muro di contenimento tra due fondi posti a livelli differenti, qualora il dislivello derivi dall’opera dell’uomo o il naturale preesistente
dislivello sia stato artificialmente accentuato …’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1217 del 22/01/2010, Rv. 611224; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 145 del 10/01/2006, Rv. 5859139 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8144 del 15/06/2001, Rv. 547517). Ove fosse ravvisata la natura di costruzione della fabbrica predetta, la domanda avrebbe dovuto essere accolta, essendo del tutto irrilevante la circostanza che lo spazio residuo tra i due edifici fosse accessibile, o visibile, dall’esterno. Anche se interamente chiusa, infatti, l’intercapedine tra le due fabbriche è considerata ope legis dannosa.
L’accoglimento della doglianza, con riguardo alla violazione di legge, assorbe la contestazione concernente l’omesso esame di un fatto decisivo.
Con il secondo motivo, la parte ricorrente principale lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 871, 872, 873 c.c. e delle N.T.A. del Comune di Piancogno, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello, pur avendo confermato che l’opera realizzata dall’COGNOME sia da configurare come nuova costruzione, avrebbe erroneamente rigettato la domanda degli odierni ricorrenti, con la quale essi avevano lamentato la violazione delle distanze in relazione alla detta innovazione.
La censura è fondata, sotto il profilo della dedotta violazione di legge.
La Corte di Appello ha correttamente richiamato l’orientamento di questa Corte, secondo cui costituisce nuova costruzione qualsiasi opera che importi modificazione della volumetria o della sagoma di un fabbricato preesistente, ed ha evidenziato che ‘Nel caso di specie è ben visibile nell’allegato grafico alla relazione integrativa del Ctu, depositata nel giudizio di primo grado, che, al di là dell’altezza del
colmo del tetto, rimasta invariata o addirittura inferiore, la nuova copertura ha comportato una nuova sagoma del tetto -a due falde anziché ad una- ed un aumento delle superfici esterne e dei volumi interni, sicché si deve ritenere che essa integri una nuova costruzione’ (cfr . pag. 14 della sentenza impugnata).
In presenza di una nuova costruzione, le norme in tema di distanze tra edifici dovevano essere rispettate, poiché esse sono ispirate da finalità pubblicistiche; in relazione alla loro applicazione, quindi, non sussiste alcun margine di tolleranza, dovendosi ribadire l’insegnamento di questa Corte, secondo cui ‘… le disposizioni in materia di distacco delle costruzioni dal confine non lasciano al giudice alcun margine di valutazione in ordine ai pregiudizi prodotti dalla loro inosservanza, avuto riguardo alle finalità di natura pubblicistica cui dette disposizioni si ispirano’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2294 del 27/02/1995, Rv. 490779; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12459 del 02/12/1995, Rv. 494914; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15381 del 01/12/2000, Rv. 542364; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15367 del 05/12/2001, Rv. 550866; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 213 del 11/01/2006, Rv. 585821; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8691 del 04/04/2017, Rv. 643541). Né sussistono dubbi sull’applicazione automatica delle norme in tema di distanze, una volta accertato che si configura, in concreto, una nuova costruzione, posto che ‘La nozione di costruzione, agli effetti dell’art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe da parte delle norme secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, in quanto il rinvio ivi contenuto ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una distanza maggiore” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 144 del 08/01/2016, Rv. 638534; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19530 del 07/10/2005, Rv. 584152; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 23843 del 02/10/2018, Rv. 650629; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 23845 del
02/10/2018, Rv. 650630). Di conseguenza, ‘L’art. 873 c.c., nello stabilire per le costruzioni su fondi finitimi la distanza minima di tre metri dal confine o quella maggiore fissata dai regolamenti locali, si riferisce, in relazione all’interesse tutelato dalla norma, non necessariamente ad un edificio, ma ad un qualsiasi manufatto (nella specie, tettoia), avente caratteristiche di consistenza e stabilità o che emerga in modo sensibile dal suolo e che, inoltre, per la sua consistenza, abbia l’idoneità a creare intercapedini pregiudizievoli alla sicurezza ed alla salubrità del godimento della proprietà, idoneità il cui accertamento è rimesso al giudice di merito’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3199 del 06/03/2002, Rv. 552847; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23189 del 17/12/2012, Rv. 624754; Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 5753 del 12/03/2014, Rv. 630205).
L’accertata natura di nuova costruzione di quanto realizzato dall’COGNOME, quindi, avrebbe dovuto condurre il giudice di merito ad applicare le prescrizioni in tema di distanze tra edifici. Il rigetto della domanda degli odierni ricorrenti, sotto questo profilo, è dunque erroneo.
L’accoglimento della doglianza, con riguardo alla violazione di legge, assorbe la contestazione concernente l’omesso esame di un fatto decisivo.
Con il terzo motivo, la parte ricorrente principale lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 980 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente rigettato la domanda di eliminazione della canna fumaria realizzata dall’COGNOME.
La censura è fondata.
La Corte di Appello ha correttamente richiamato l’orientamento di questa Corte, secondo cui alle canne fumarie non si applica la
presunzione assoluta di dannosità e pericolosità prevista dall’art. 889 c.c. per le condutture di acqua e gas che abbiano un flusso costante di sostanze liquide o gassose, bensì la diversa disposizione di cui all’art. 890 c.c., secondo cui ‘… in difetto di una disposizione regolamentare, si ha una presunzione di pericolosità relativa che può essere superata ove la parte interessata dimostri che, mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino (Cass. n. 22389/09; Cass. 13449/16)’ (cfr . pag. 16 della sentenza impugnata). Dopo tale premessa, tuttavia, la Corte distrettuale si è limitata ad affermare che ‘Nel caso di specie, la distanza di m. 3,80 dal confine si reputa essere sufficiente a superare il giudizio presunto di pericolosità’ (cfr . sempre pag. 16 della sentenza).
Questa Corte, proprio nelle pronunce richiamate dal giudice di merito, ha affermato il principio secondo cui ‘Il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’art. 890 c.c. è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22389 del 22/10/2009, Rv. 610534). In applicazione del principio sopra richiamato, tuttavia, in quel caso specifico la Corte di Cassazione aveva confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto presunta la nocività di un impianto a fronte della fuoriuscita di esalazioni di fumo da un tubo posto sul confine con la proprietà limitrofa, in violazione di una norma regolamentare che imponeva la distanza di tre metri.
Sempre in tema di distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi, va ribadito che l’obbligo di rispetto della stessa, previsto dall’art. 890 c. c. e pacificamente applicabile anche alle canne fumarie (cfr . Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21744 del 23/09/2013, Rv. 627780), ‘… è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha una presunzione di pericolosità relativa, che può essere superata mediante prova contraria’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9267 del 16/04/2018, Rv. 648082; conf. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17758 del 27/06/2024, Rv. 671712).
Dalla corretta applicazione dei suindicati principi emerge che per escludere la violazione dell’art. 890 c.c. non è sufficiente il mero richiamo, da parte del giudice di merito, ad una determinata distanza della canna fumaria dal confine tra i fondi, ma occorre in primis verificare se, nel regolamento locale, esista una disposizione idonea ad imporre una specifica distanza, e se questa, ove esistente, sia stata violata, dovendosi, in tale ipotesi, ravvisare comunque la presunzione assoluta di pericolosità dell’impianto realizzato in violazione della disposizione locale; in caso contrario, occorre verificare se, in concreto, la canna fumaria sia stata realizzata con modalità idonee a superare la presunzione di pericolosità relativa prevista dalla disposizione codicistica. Sul punto, va data continuità al principio, recentemente affermato da questa Corte, secondo cui ‘L’art. 890 c.c. stabilisce il regime delle distanze per le fabbriche e i depositi nocivi o pericolosi in base ad una presunzione di nocività e pericolosità che è assoluta, ove prevista da una norma del regolamento edilizio comunale mentre, in difetto di specifiche disposizioni al riguardo, la distanza in concreto
sufficiente alla tutela del fondo vicino dev’essere, invece, accertata dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento anche alla luce delle prescrizioni tecniche previste dai regolamenti nonché delle norme tecniche di uso comune. In tal caso la presunzione è superabile con la dimostrazione che, in relazione alla peculiarità della fattispecie ed agli accorgimenti usati, non esiste danno o pericolo per il fondo vicino’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21819 del 02/08/2024, Rv. 672176).
In definitiva, il giudice del rinvio dovrà innanzitutto verificare se nel regolamento locale esista, o meno, una norma impositiva di una specifica distanza dal confine per le canne fumarie, e, ove tale disposizione non sussista, accertare se, in concreto, il manufatto sia stato realizzato con modalità tali da superare la presunzione relativa di dannosità e pericolosità per il fondo vicino. Accertamento, quest’ultimo, che non può essere ridotto alla mera verifica della distanza della canna fumaria dal confine, ma deve estendersi alle specifiche modalità con la quale la condotta è stata realizzata ed agli accorgimenti adottati, o da adottare, per eliminare il pericolo presunto dalla disposizione codicistica.
Con l’unico motivo del ricorso incidentale condizionato si contesta infine la statuizione con la quale la Corte di Appello ha ritenuto che quanto realizzato dall’COGNOME costituisse nuova costruzione. Secondo il ricorrente incidentale, infatti, non si configurerebbe alcun incremento della sagoma di ingombro del precedente manufatto, né alcuna sopraelevazione, ma, al contrario, sarebbe stata abbassata l’altezza della fabbrica e diminuita la sua volumetria esterna ed interna.
La censura è inammissibile.
In primo luogo, il ricorrente incidentale non indica alcuna norma che sarebbe stata asseritamente violata dal giudice di merito. Sul punto, va data continuità al principio secondo cui ‘In tema di ricorso
per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare -con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni- la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 23745 del 28/10/2020, Rv. 659448; conf. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 18998 del 06/07/2021, Rv. 661805).
In secondo luogo, va osservato che la censura si risolve nella contestazione dell’accertamento del fatto operato dalla Corte di Appello, che il ricorrente incidentale attinge contrapponendovi un apprezzamento alternativo delle risultanze istruttorie, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del
merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328 e Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 16467 del 04/07/2017, Rv. 644812).
Alla luce delle esposte argomentazioni, il ricorso principale va accolto, mentre quello incidentale condizionato va dichiarato inammissibile. La sentenza impugnata va di conseguenza cassata, in relazione alle censure accolte, e la causa rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Brescia, in diversa composizione.
Stante il tenore della pronuncia relativa al ricorso incidentale, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P.R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso incidentale ed accoglie il ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Brescia, in diversa composizione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda