Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 20576 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 20576 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/07/2025
Oggetto: Distanze
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 34814/2019 R.G. proposto da
COGNOME e NOME COGNOME rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME
-ricorrenti –
contro
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME presso il cui studio in Palermo, INDIRIZZO è elettivamente domiciliato;
-controricorrente –
NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME
-intimati –
per la cassazione della sentenza n. 818/2019 resa dalla Corte di appello di Palermo il 15/2/2019, pubblicata il 11/4/2019 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta alla pubblica udienza del 29/5/2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
lette le conclusioni del Sostituto procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso;
lette le memorie depositate da entrambe le parti;
Fatti di causa
Con ricorso del 10 dicembre 1986 al Pretore di Misilmeri, NOME e NOME denunciarono che, a seguito di una nuova opera intrapresa da COGNOME Giusto e da NOME NOME, consistente nello sbancamento di un terreno limitrofo al fabbricato di loro proprietà, erano stati causati danni alla struttura di questo immobile, e chiesero che dette lavorazioni venissero sospese e che venissero poste in essere opere che garantissero la stabilità.
Venne disposta c.t.u., all’esito della quale il Pretore ordinò la sospensione dei lavori limitatamente al muro di contenimento, al terrapieno retrostante e alle opere ad esso connesse, e ordinò alle parti, ciascuno per il proprio impegno, di provvedere alle attività di consolidamento.
Con sentenza del 19 ottobre 1988, lo stesso Pretore dichiarò la propria incompetenza per valore a decidere il merito della causa, rimettendo le parti avanti al Tribunale di Palermo. NOME e NOME NOME riassunsero il giudizio nei confronti di COGNOME e NOME NOME e, assumendo che i danni lamentati erano conseguenti allo sbancamento effettuato dai convenuti per la realizzazione di un fabbricato sul loro terreno, e che nella realizzazione di questo erano state violate le disposizioni relative alle distanze legali imposte dal piano di fabbricazione del
Comune di Misilmeri, chiesero l’abbattimento delle fabbriche fino alla distanza prevista dallo strumento urbanistico, nonché il risarcimento dei danni subiti.
I convenuti, costituitisi in giudizio, contestarono l’assunto degli attori, assumendo che gli asseriti danni erano conseguenza della carenza strutturale del fabbricato di questi ultimi e del maggior peso di cui essi lo avevano gravato, per aver costruito abusivamente un quarto piano non previsto nel progetto, e chiesero il rigetto delle domande. Nel corso del giudizio, gli attori chiesero e ottennero di essere autorizzati a chiamare in giudizio COGNOME NOME e COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME COGNOME NOME e COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, acquirenti degli appartamenti realizzati dai convenuti, i quali si costituirono, eccependo la loro mancanza di legittimazione passiva in relazione al chiesto risarcimento del danno e concludendo per il rigetto delle domande attrici.
Con sentenza n. 4714/2002 del 21 ottobre 2002, il Tribunale ordinò ai convenuti Baiamonte e Agnello di realizzare a propria cura e spese le opere indicate dal c.t.u. Ing. COGNOME alle pagg. 21-22 della relazione, entro sei mesi dalla notifica della sentenza, e, in mancanza, diede facoltà agli attori di provvedervi a propria cura e a spese dei convenuti; condannò questi ultimi al risarcimento del danno e rigettò tutte le rimanenti domande formulate nei confronti dei convenuti e dei chiamati in giudizio, ivi compresa quella di demolizione delle parti di manufatto asseritamente realizzate in violazione delle distanze legali dal confine e tra gli edifici.
Il giudizio di gravame, instaurato da NOME e NOME COGNOME si concluse, nella resistenza dei convenuti, che proposero anche appello incidentale, con la sentenza n. 545/2009, con la
quale la Corte d’Appello di Palermo confermò la sentenza di primo grado, rilevando, quanto alla domanda di demolizione, che il Programma di Fabbricazione del Comune di Misilmeri prevedeva una distanza minima tra fabbricati con pareti finestrate di mt. 10 e una distanza dal confine di mt. 5, che la demolizione non poteva essere disposta, non essendo il fabbricato dei convenuti frontistante, ma posto in posizione obliqua rispetto a quello degli attori, con distanza dal confine variabile da mt. 5 a mt. 3, che il D.M. n. 1444 del 1968 non era immediatamente operativo nei rapporti tra privati e che la condanna era inopponibile ai terzi acquirenti, stante la mancata trascrizione della domanda giudiziale prima del loro atto di acquisto.
Il giudizio di legittimità, instaurato da NOME Pietro e NOME, si concluse con la sentenza n. 10499 del 21/5/2015, con la quale questa Corte cassò la sentenza impugnata in relazione ai primi due motivi e rinviò alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione, enunciando i seguenti principi di diritto:
le norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l’assetto urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in relazione all’ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni si fronteggino;
il D.M. n. 1444 del 1968, in quanto emanato su delega dell’art. 41quinquies inserito nella legge 17 agosto 1942, n. 1150, dalla legge 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di distanza tra i fabbricati, cui i Comuni sono tenuti a conformarsi nella redazione o revisione dei loro strumenti urbanistici, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle
quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati;
la sentenza pronunziata sulla domanda di actio negatoria servitutis , diretta a denunziare la violazione delle distanze legali ad opera del proprietario del fondo vicino e a ottenere l’arretramento della sua costruzione, ha effetto anche nei confronti dell’acquirente a titolo particolare della costruzione, che sia stato parimenti convenuto nel giudizio instaurato contro il suo dante causa, così assumendo la qualità di parte del processo, senza che la mancata trascrizione della domanda giudiziale a norma dell’art. 2653, n.1 o n. 5, cod. civ. conferisca al medesimo acquirente il diritto di mantenere la distanza inferiore a quella legale.
NOME NOME e NOME riassunsero il giudizio nei confronti di NOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, quali eredi di Baiamonte Giusto deceduto nelle more, e di tutti i terzi chiamati quali aventi causa a titolo particolare dei convenuti.
Con la sentenza n. 818/2019, pubblicata il 11/4/2019, la Corte d’Appello di Palermo condannò COGNOME NOME e COGNOME Salvatore, quali eredi di COGNOME Giusto, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Rosario e NOME, in solido tra loro, al ripristino dello stato dei luoghi nel rispetto delle distanze legali e, per l’effetto, a demolire le porzioni del fabbricato oggetto di causa esistenti a una distanza inferiore di mt. 5 dal confine col fondo di NOME e NOME e di mt. 10 dalla parete del fabbricato di proprietà di questi ultimi; dichiarò che COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME
NOME e COGNOME NOME avevano diritto ad essere garantiti da Baiamonte NOME e Baiamonte Salvatore, quali eredi di Baiamonte Giusto, e da NOME NOME, in solido tra loro, degli effetti pregiudizievoli derivanti dalla presente pronuncia e confermò per il resto l’impugnata sentenza.
Avverso la suddetta sentenza COGNOME NOME, COGNOME Salvatore e COGNOME Caterina propongono ricorso per cassazione affidato a due motivi. NOME resiste con controricorso, illustrato anche con memoria, mentre COGNOME Pietro, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Giuseppe, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME sono rimasti intimati.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
Occorre innanzitutto esaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso, proposta dal controricorrente, per non essere stato lo stesso notificato agli eredi di NOME NOMECOGNOME deceduto il 15/7/2017, prima della pubblicazione della sentenza impugnata, ma della cui morte e dell’identità del relativo erede – i ricorrenti erano stati resi edotti in forma ufficiale attraverso la notificazione di atti giudiziari relativi a questo giudizio, ossia in seguito al ricorso per esecuzione degli obblighi di fare derivanti dalla sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Palermo n. 4/9 del 21/10/2002, proposto da NOME e COGNOME NOME, quale erede di NOME PietroCOGNOME e notificato agli odierni ricorrenti, i quali si erano costituiti nel processo esecutivo con comparsa del 27/9/2017 anche nei confronti della medesima COGNOME NOME nella sua qualità di erede, con conseguente inesistenza della notifica effettuata al procuratore costituito di NOME COGNOME non essendo applicabile il principio della c.d. ultrattività del mandato.
Tale eccezione non dà luogo all’inammissibilità del ricorso, essendo stato lo stesso correttamente notificato ad uno dei litisconsorti, ossia NOMECOGNOME che si è difeso con controricorso, e dovendosi semmai disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi di NOME.
Purtuttavia, il rispetto del diritto fondamentale a una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 cod. proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Cass., Sez. 6-3, 17/6/2019, n. 16141; Cass., Sez. 2, 21/5/2018, n. 12515).
Quanto alla seconda eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dal controricorrente, in ragione della mancata applicazione dei criteri della sinteticità e specificità nella redazione dello stesso, si osserva che il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali, pur esprimendo un principio generale del diritto processuale, espone
il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso, non essendo tale violazione normativamente sanzionata, ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 cod. proc. civ., assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità (in tal senso, Cass., Sez. 5, 21/03/2019, n. 8009). Il ricorso per cassazione deve, infatti, essere modulato, in conformità alle indicazioni della sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 (causa COGNOME ed altri c/Italia), secondo criteri di sinteticità e chiarezza, realizzati dal richiamo essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire al tempo stesso la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte e il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (Cass., Sez. 3, 14/3/2022, n. 8117).
Quest’ultimo principio trova, tuttavia, concreta applicazione nell’esame delle singole censure, non potendo la sua violazione per una sola di esse attingere automaticamente l’intero ricorso, ancorché lungo e articolato, specie quando, come in questo caso, il ricorso dà conto dell’andamento dei diversi gradi del giudizio e delle questioni negli stessi affrontate.
Stesso discorso vale anche con riguardo alla terza eccezione di inammissibilità, fondata sulla natura meritale delle questioni proposte, dovendo la stessa essere verificata con riguardo a ciascuna censura.
2.1 Venendo al merito, con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 872, 873 cod. civ., del D.M. 2 aprile 1968, n. 9, e dei Regolamenti comunali in vigore, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per violazione, falsa ed errata interpretazione delle indicate norme legislative; l’erronea interpretazione delle conseguenze derivanti dall’applicazione della sentenza della Corte di Cassazione n. 10499/2015 alla luce delle violazioni urbanistiche effettuate dagli appellanti in riassunzione e con riferimento alla normativa di cui all’art. 31, comma 3, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, nonché dell’attuale inesistenza della titolarità del titolo giustificativo da parte di NOME e NOME Pietro. I ricorrenti hanno in particolare rilevato che i due edifici limitrofi formavano una ‘chiostrina’ non accessibile da terzi e che in tale fattispecie non era rilevabile alcuna violazione di distanza a carico dei convenuti in riassunzione, né dei loro aventi causa.
Peraltro, era venuta meno la titolarità dell’azione in capo agli originari attori e la stessa possibilità di dare esecuzione al giudicato per quanto riguarda la riduzione in pristino e le relative demolizioni, in quanto la loro unità immobiliare, eseguita in difformità dal titolo edilizio, era stata investita dall’ordinanza di demolizione n. 4 del 21/8/2018 emessa dal Comune di Misilmeri (non sospesa, né riformata dall’adito T.A.R. Sicilia), la quale, rimasta ineseguita come da accertamento del 2/4/2019, prot. 11716, era stata seguita dall’ordinanza n. 3 del 2/4/2019, con la quale il medesimo Comune aveva ingiunto ai predetti il pagamento della sanzione amministrativa di euro 20.000,00, sicché il bene, a norma dell’art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, era divenuto ope legis di proprietà del Comune allo scadere del termine fissato per la sua demolizione. Infine, ad avviso dei ricorrenti, l’accertamento della Corte d’Appello
era risultato lacunoso, erroneo e contraddittorio su punti fondamentali della controversia.
2.2 Il primo motivo è infondato.
Quanto alla questione della chiostrina, il motivo non si confronta con la ratio decidendi fondata sulla violazione della distanza tra pareti finestrate, la quale è stata accertata con efficacia di giudicato interno, senza che però sia stata formulata alcuna specifica censura sulla violazione del giudicato.
Va, peraltro, ricordato che, in tema di distanze tra costruzioni, l’art. 9, comma 2, del d.m. n. 1444 del 1968, essendo stato emanato sulla base dell’art. 41quinquies della legge n. 1150 del 1942 (cd. legge urbanistica), aggiunto dall’art. 17 della legge n. 765 del 1967, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass., Sez. 2, 15/1/2021, n. 624), così come si estendono anche ai comuni dotati di regolamento edilizio, se esso è privo di norme disciplinanti i distacchi tra costruzioni, fermo restando, per i regolamenti approvati dopo l’entrata in vigore della legge n. 765, l’obbligo di rispettare la norma sul distacco minimo di dieci metri tra pareti finestrate, stabilito dal d.m. n.1444 del 1968, potendo detti regolamenti solo prevedere un distacco maggiore (Cass., Sez. 2, 07/06/2006, n. 13338; Cass., Sez. 2, 10/09/2013, n. 20713). Ne consegue che sarebbe illegittima una previsione regolamentare che imponga il rispetto di una distanza minima di dieci metri tra pareti soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi (Cass., Sez. 2, 02/03/2018, n. 5017).
2.3 Con riguardo alla seconda questione proposta, va, innanzitutto, rilevato che i ricorrenti hanno depositato, unitamente al ricorso,
l’ordinanza di demolizione n. 4 del 21/8/2018 del Comune di Misilmeri; l’ordinanza di rigetto della chiesta sospensiva sul ricorso 2012/2018 depositata dal T.A.R. Sicilia-Sez. Palermo pubblicata il 28/12/2018; l’ordinanza di rigetto del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia della chiesta riforma della superiore ordinanza cautelare del T.A.R. n. 01285/2018, pubblicata il 1/3/2019; la memoria di costituzione del Comune di Musilmeri nel giudizio 2012/2018 davanti al T.A.R., Sez. 2, di Palermo; i motivi aggiunti al ricorso T.A.R. Rg. 2012/2018, depositati nell’interesse di NOME e consorti in data 30/5/2019, attestanti la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione n. 4 del 21/8/2018, in virtù di accertamento de 2/4/2019, prot. 11716, documenti che non risultano prodotti nel giudizio di rinvio.
In relazione a ciò, assume, dunque, rilievo l’ammissibilità (o meno) delle nuove produzioni documentali attinenti alla permanenza della proprietà, in capo ai controricorrenti, dell’immobile interessato dalla violazione delle distanze a opera della costruzione realizzata nel fondo confinante dai ricorrenti.
Al riguardo, si osserva che, come già affermato da questa Corte, nel giudizio di legittimità, secondo quanto disposto dall’art. 372 cod. proc. civ., non è ammesso il deposito di atti e documenti che non siano stati prodotti nei precedenti gradi del processo (Cass., Sez. 1, 12/11/2018, n. 28999; Cass., Sez. 1, 31/03/2011, n. 7516), ove concernano la fondatezza nel merito della pretesa, per far valere i quali, se rinvenuti dopo la scadenza dei termini, la parte che ne assuma la decisività può esperire esclusivamente il rimedio della revocazione straordinaria ex art. 395, n. 3, cod. proc. civ. (Cass., Sez. L, 12/07/2018, n. 18464), mentre è ammesso quando i documenti riguardino l’ammissibilità del ricorso e del controricorso ovvero concernano nullità inficianti direttamente la decisione impugnata (Cass., Sez. 1, 12/11/2018, n. 28999; Cass.,
Sez. 1, 31/03/2011; 7516), ovvero attengano, nonostante il testuale riferimento alla sola inammissibilità del ricorso, alla proponibilità, procedibilità e proseguibilità del ricorso medesimo, inclusi quelli diretti a evidenziare la cessazione della materia del contendere per fatti sopravvenuti che elidano l’interesse alla pronuncia sul ricorso, purché riconosciuti e ammessi da tutti i contendenti (Cass., Sez. 2, 29/2/2016, n. 3934; conf. Cass. 25/5/1987, n. 4693; Cass., Sez. 1, 10/03/1980, n. 1579), nel qual caso essi vanno prodotti entro il termine stabilito dall’art. 369 cod. proc. civ., rimanendo inammissibile la loro produzione in allegato alla memoria difensiva di cui all’art. 378 cod. proc. civ. (Cass., Sez. 1, 12/11/2018, n. 28999; Cass., Sez. 1, 31/03/2011, n. 7516).
Nella specie, il sopravvenuto difetto di interesse, alla cui valutazione tende la censura, non è riconosciuto e ammesso dai contendenti, come richiesto dai principi sopra ricordati, avendo essi contestato l’inammissibilità della questione dedotta, peraltro ancora soggetta, a loro dire, al vaglio del giudice amministrativo.
Ne consegue l’inammissibilità del motivo, potendo la questione essere sollevata in sede esecutiva.
3.1 Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per violazione, falsa ed errata interpretazione del D.M. 2 aprile 1968, n. 9, nonché dei Regolamenti comunali richiamati, con conseguente mancato accertamento istruttorio, per avere i giudici di merito ritenuto di non dover procedere ad alcun accertamento ulteriore, richiamando la preclusione di cui all’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., e ritenendo irrilevante la dedotta inaccessibilità dell’intercapedine esistente tra i fabbricati da parte di terzi e l’inferiorità delle distanze calcolate rispetto a quelle minime previste dal
Regolamento edilizio del Comune di Misilmeri e dal D.M. n. 1444 del 1968, senza considerare che le risultanze dell’accertamento del c.t.u. Viola dovevano essere integrate o considerate nella loro interezza, oltreché rivalutate, dopo trent’anni, alla luce di eventuali modifiche agli strumenti urbanistici. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, i giudici non avevano considerato che i due edifici formavano una chiostrina non accessibile da terzi, secondo le dimensioni descritte nel Programma di Fabbricazione del Comune, che non imponeva il rispetto di distanze e che avrebbe imposto un supplemento di perizia.
2.2 Il secondo motivo è parimenti inammissibile.
Il giudizio di rinvio costituisce, infatti, un processo chiuso tendente ad una nuova statuizione (nell’ambito fissato dalla sentenza di cassazione) in sostituzione di quella cassata, nel quale oggetto e limiti sono delimitati dalla sentenza di annullamento (ad es. da ultimo Cass. Sez. 5, 09/06/2020, n. 10953).
In particolare, i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, primo comma, cod. proc. civ., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la
valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (Cass. Sez. L., 6/4/2004, n. 6707; Cass. Sez. 1, 7/8/2014, n. 17790; conf. Cass. n. 13719 del 2006; Cass. Sez. L., 24/10/2019, n. 27337; Cass. Sez. 2, 14/1/2010, n. 448).
Nella specie, rileva la prima situazione, avendo questa Corte espresso alcuni principi di diritto, ai quali i giudici del rinvio erano tenuti a uniformarsi alla stregua della situazione di fatto già rimasta accertata.
La censura investe, peraltro, un tema non devoluto al giudice di rinvio ed è di tipo esplorativo , oltre che priva di specificità.
3. In conclusione, dichiarata l’infondatezza del primo motivo e l’inammissibilità del secondo, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico dei ricorrenti.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 29/5/2025.