Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 24814 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 24814 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/09/2024
Oggetto:
Distanze legali
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 495/2021 R.G. proposto da COGNOME NOME, rappresentato e difeso, congiuntamente e disgiuntamente, dall’AVV_NOTAIO COGNOMEAVV_NOTAIO del Foro di Pescara, dall’AVV_NOTAIO del Foro di Teramo e dall’AVV_NOTAIO COGNOME del Foro di Roma, con procura speciale in calce al ricorso ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO;
-ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE e COGNOME COGNOME ANTONIA, nonché COMUNE DI GIULIANOVA,
-intimati –
avverso la sentenza della Corte di appello di L’Aquila n. 415 depositata il 5 marzo 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 dicembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
Osserva in fatto e in diritto
– Con atto di citazione del 15 febbraio 2006, NOME COGNOME e NOME COGNOME evocavano in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Teramo – Sezione Distaccata di Giulianova, NOME COGNOME e il COMUNE DI GIULIANOVA, chiedendo accertarsi la violazione delle distanze minime previste dall’art. 9, D.M. n. 1444 del 2 aprile 1969, rispetto alla costruzione in sopraelevazione effettuata dal convenuto e situata di fronte all’appartamento di loro proprietà, previa disapplicazione della concessione edilizia, rilasciata in data 9 dicembre 2003, in violazione del piano regolatore, del piano particolareggiato della Zona Orti e di ogni altro strumento urbanistico, con condanna del COGNOME alla riduzione in pristino dell’opera nella parte in cui era illegittimamente edificata, oltre al risarcimento del danno quantificato in euro 25.000,00 o in diverso ammontare ritenuto di giustizia.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti, istruita la causa con l’espletamento di C.T.U., il giudice adito, con sentenza n. 21 del 2012, rigettava le domande ritenendo l’insussistenza della violazione dell’art. 9, D.M. 1444/1968, poiché non applicabile alla fattispecie, trovandosi il fabbricato in un’area soggetta al Piano Particolareggiato Zona Orti, adottato con delibera Comunale n. 354/1987, da considerarsi vigente ai sensi dell’art. 17 l. n. 1150 del 17 agosto 1942, cui la stessa costruzione risultava essere conforme e che, in tema di distanze minime, derogava alla più restrittiva disciplina prevista dal D.M. 1444/1968, liquidate le spese a carico degli attori soccombenti.
In virtù di gravame interposto dagli originari attori, la Corte d’Appello di L’Aquila, nella resistenza degli appellati, con sentenza n. 415/2020 pubblicata il 5 marzo 2020, accoglieva solo in parte l’impugnazione e in parziale riforma della decisione, condannava l’appellato COGNOME alla demolizione di una parte della parete esterna, come descritta nei disegni di cui all’allegato B della CTU dell’AVV_NOTAIO COGNOME, oltre al pagamento di euro 3.000,00 a titolo di risarcimento del danno, compensate le spese per la quota di 2/3 e per il restante terzo le poneva a carico dell’appellato.
A sostegno dell’accoglimento di un unico motivo di gravame la Corte territoriale evidenziava che il giudice di prime cure aveva travisato le risultanze della C.T.U., la quale aveva accertato una parziale irregolarità del sottotetto rispetto all’art. 6 del Piano Particolareggiato Zona Orti, in quanto la parete sita al piano sottotetto sul lato Nord dell’edificio dell’appellato si trovava all’esterno della superficie piana inclinata a 45 gradi che partiva dal piede del fabbricato di proprietà dell’attrice, restando del tutto irrilevante ai fini dell’applicabilità delle disposizioni del Piano Particolareggiato l’abitabilità o meno del locale sottotetto, stante la previsione dell’art. 6, terzo capoverso, secondo cui « la sagoma dei fabbricati siano essi nuovi o derivanti dall’ampliamento, dalla sopraelevazione, dalla trasformazione dei fabbricati esistenti, deve essere contenuta entro un’inclinata di 45 gradi partente dal piede dei fabbricati fronteggianti ».
Aggiungeva che oltre alla demolizione, era dovuto il pagamento di euro 3.000 a titolo di risarcimento del danno, liquidata la somma in via equitativa, constatata la sussistenza del danno in re ipsa , quale conseguenza delle irregolarità urbanistiche della costruzione di proprietà di NOME COGNOME.
P er la cassazione della sentenza della Corte di appello di L’Aquila propone ricorso il COGNOMECOGNOME COGNOME base di due motivi.
NOME COGNOME, NOME COGNOME e il Comune RAGIONE_SOCIALE Giulianova sono rimasti intimati.
C on il primo motivo, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5) c.p.c., il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e controverso tra le parti, in particolare per avere il Giudice di appello erroneamente recepito le conclusioni del C.T.U. che pure aveva riconosciuto l’applicabilità nella specie delle distanze fissate dal Piano anziché dal D.M. n. 1444/1968. Ad avviso del ricorrente la Corte di merito avrebbe fatto erroneo riferimento al concetto di sagoma con conseguente determinazione di una planovolumetria maggiore rispetto a quella ammessa dall’ingombro planovolumetrico. Peraltro, la sagoma non costituirebbe il criterio esclusivo ed assorbente per la determinazione delle distanze, ma sarebbe derogabile in quanto in assenza di previsioni da parte del P.P. troverebbe applicazione il P.R.G. Con la conseguenza che tutte le ipotesi di edificazione che si collocano nell’intermezzo fra la sagoma data dall’inclinata di 45° partente dal piede dei fabbricati fronteggianti e l’ingombro planovolumetrico di cui alle tavole di piano sarebbe assentibile in deroga. Aggiunge che la copertura a tetto, assentita dalla Sovrintendenza a seguito di una D.I.A., comporta la chiusura dei timpani che altro non sono che il collegamento verticale tra le cornici di coronamento aggettanti sia a livello del solaio di soffittatura del piano primo di protezione delle pareti sottostanti, sia a livello della falda inclinata che sono da considerare un unico corpo strutturale e funzionale della sopraelevazione del piano primo realizzato a filo del piano terra.
Il motivo è infondato.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, alla quale il Collegio intende dare continuità, la deroga alla disciplina stabilita dalla normativa statale, realizzata dagli strumenti urbanistici regionali, deve ritenersi legittima quando faccia riferimento ad una
pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni, considerate come fossero un edificio unitario, e siano finalizzate a conformare un assetto complessivo di determinate zone, poiché la legittimità di tale deroga è strettamente connessa al governo del territorio e non, invece, ai rapporti fra edifici confinanti isolatamente intesi (Cass. n. 27638 del 2018; Cass. n. 26518 del 2018; Cass. n. 18588 del 2018; Cass. n. 20188 del 2019; Cass. n. 8987 del 2023).
La condizioni di legittimità delle deroghe alla disciplina statale delle distanze fra costruzioni nei rapporti tra privati, introdotte dalle Regioni nell’ambito della propria competenza legislativa concorrente, operano anche per i regolamenti attuativi della legge regionale, i quali solo entro tali limiti possono dettare una disciplina direttamente incidente COGNOME materia delle distanze in deroga a quanto previsto dagli artt. 873 e ss. c.c. e dal d.m. n. 1444/1968 (Cass. n. 26518/2018 cit.).
Il principio non è derogato nemmeno in relazione alla potestà normativa delle Regioni a Statuto Speciale avendo la Corte Costituzionale, in più occasioni, affermato che la materia delle distanze rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ovvero nell’ordinamento civile dello Stato. Il principio è stato ribadito proprio in relazione alla Regione Sardegna con decisione del 13/03/2014, n. 46, che, ritenendo infondata la q.l.c. dell’art. 2 l. reg. Sardegna 23 ottobre 2009, n. 4, ha rilevato che lo statuto assegna alla Regione, in virtù della “clausola di maggior favore”, dettata dall’art. 10 I. cost. n. 3 del 2001, potestà legislativa primaria, ossia piena, nella materia dell'”edilizia ed urbanistica”; ha riconosciuto che il “sistema della pianificazione”, come “principio dell’ordinamento giuridico della Repubblica” ed espressione degli
“interessi nazionali”, non può ritenersi assoluto ed è censurabile laddove si investano profili di competenza legislativa esclusiva dello Stato, quale, in particolare, la disciplina delle distanze tra i fabbricati rientrante nella materia dell'”ordinamento civile”.
La disciplina delle distanze fra costruzioni ha, infatti, la sua collocazione nel codice civile, ed in particolare negli artt. 873 e 875 ed attiene, in via primaria e diretta, ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. Quando, però, i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri, per ragioni naturali e storiche, specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda investe anche interessi pubblici, la cui cura deve ritenersi affidata anche alle Regioni, perché attratta all’ambito di competenza concorrente del governo del territorio.
Nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza -statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio» -il punto di equilibrio deve essere individuato nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, dotato di particolare efficacia precettiva e inderogabile, in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies l. 17 agosto 1942, n. 1150.
Pertanto, secondo le indicazioni interpretative della giurisprudenza costituzionale, e come poi disposto dall’art. 2-bis del TUE, è legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo se inserite in strumenti urbanistici funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio riguardo alla materia “governo del territorio”, riconducibile alla competenza legislativa concorrente delle Regioni.
La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei consolidati principi di diritti affermati da questa Corte e dal giudice delle leggi, disponendo la demolizione di una parte dell’opera realizzata, in particolare la parte della parete esterna risultata costruita in
violazione delle distanze previste anche dal Piano particolareggiato, oltre che di quelle stabilite ai sensi dell’art. 9 del D.M. 1444/1968. Le critiche di parte ricorrente, peraltro, tendono solo al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico e verificati dal giudice del gravame, per cui si risolvono in mere argomentazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. (Cass. n. 282 del 2009; Cass. n. 8584 del 2022). In ogni caso, beninteso, il ricorrente per cassazione, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione e al carattere limitato del mezzo di impugnazione, è tenuto ad indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del preteso difetto di motivazione, atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell’elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 11482 del 2016; Cass. n. 16368 del 2014), in quanto non conciliabili con il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e con lo specifico vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, oggetto dio discussione inter partes nel quale non è inquadrabile la censura concernente l’omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018); in particolare è stato ritenuto che non sia carente di motivazione la sentenza che recepisce per relationem le conclusioni ed i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio della quale dichiara di condividere il merito, ancorché si limiti a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini esperite e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione (Cass. n. 4352 del 2019; Cass. n. 30364 del 2019).
In conclusione il ricorrente, non può limitarsi a dolersi del vizio motivazionale per omesso esame di fatto decisivo per il solo fatto che il giudice del merito abbia recepito adesivamente le conclusioni attinte dal consulente tecnico d’ufficio, senza affrontare e confutare le specifiche critiche rivolte all’elaborato peritale dal difensore o dal consulente tecnico di parte, ma deve individuare ed evidenziare un preciso fatto storico (o più precisi fatti storici), sottoposto alla dialettica del contraddittorio dalla difesa, legale o tecnica, di natura decisiva, tale cioè da ribaltare o modificare significativamente l’esito della lite, che il giudice del merito abbia omesso di considerare.
In altri e più chiari termini, non è la critica, in sé e per sé, alla consulenza tecnica recepita dal giudice che rileva ai fini della deduzione di omesso esame di fatto decisivo ex art. 360, comma 1, n. 5 e del novellato mezzo di ricorso per vizio motivazionale, ma il fatto storico, decisivo, che sia stato oggetto di discussione e sia stato fatto valere dalla parte interessata attraverso le critiche rivolte all’elaborato del perito (in questo senso, cfr, in motivazione, Cass. n. 22056 del 2020).
Nella fattispecie le critiche rivolte con il mezzo in esame non si adeguano allo schema concettuale sopra illustrato poiché il ricorrente lamenta semplicemente la mancata considerazione specifica di argomentazioni difensive e non già quella di fatti storici oggettivi ben individuati.
Con il secondo motivo, formulato in via di mero subordine, il ricorrente censura la sentenza per la violazione e la falsa applicazione degli artt. 872, 1226, 2043 e 2056 c.c. e di tutte le norme sul risarcimento del danno in conseguenza delle violazioni urbanistiche, per avere il giudice di merito fatto riferimento al parametro indicato dal C.T.U. per la liquidazione del risarcimento qualora fosse stata accertata la violazione dell’art. 9, D.M.
1444/1968, anche se questa è stata dichiarata essere insussistente, e per avere quantificato la somma dovuta in rapporto alla diminuzione di valore della proprietà dell’originario attore quasi che questo fosse soggetto ad una servitù permanente.
Anche il secondo motivo è privo di pregio.
La sentenza impugnata al punto 13.4 (pag. 8 e ss) dà atto di conformarsi all’orientamento giurisprudenziale di legittimità, secondo cui deve ritenersi la sussistenza in re ipsa del danno conseguenza della violazione di norme in materia urbanistica da parte del vicino, come nel caso di specie l’art. 6 del Piano Particolareggiato Zona Orti, derivando dalla irregolarità ‘l’effetto certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e ,quindi, della limitazione del relativo godimento che si traduce in una ‘diminuzione temporanea del valore della proprietà’, che deve essere indennizzata. Inoltre, nella quantificazione della somma il giudice non fa riferimento al parametro indicato dal CTU per l’eventuale accertamento della violazione dell’art. 9, D.M. 1444/1068, come lo stesso puntualizza al punto 13.4.4 della sentenza, non essendo questa sussistente, pertanto, ha correttamente proceduto alla determinazione del risarcimento in via equitativa ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., determinando il giusto ammontare in euro 3.000,00.
Conclusivamente, il ricorso va rigettato.
Il mancato svolgimento di difese da parte delle controparti, rimaste intimate, esclude la necessità di provvedere al regolamento delle spese processuali di questa fase.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda