Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1777 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 1777 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 35473/2019 R.G. proposto da : COGNOME e COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE dal quale sono rappresenti e difensi
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 5099/2019 depositata il 24/07/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Premesso che:
1.NOME e NOME COGNOME ricorrono, con tre motivi, illustrati con memoria e avversati da NOME COGNOME con controricorso, per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Roma n.5099 del 2019.
Con questa sentenza, la Corte di Appello ha respinto le doglianze dei ricorrenti contro la sentenza del Tribunale di Roma con cui, in causa iniziata dal COGNOME nel 2006 relativamente a contestazioni di violazioni di norme sulle distanze tra edifici, erano state accolte le domande del COGNOME di demolizione ‘di quanto edificato non in aderenza’ e di ‘eliminazione di ogni servitù’ -segnatamente ‘servitù di luce e di veduta’ vantate dai COGNOME -e di ‘risarcimento dei danni’ ed erano state rigettate le domande riconvenzionali dei ricorrenti.
Per quanto rileva ai fini del ricorso, la Corte di Appello ha affermato che:
la doglianza per cui il Tribunale avrebbe dovuto disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli eredi di NOME COGNOME, padre e precedente proprietario dell’immobile poi pervenuto agli allora appellanti NOME e NOME COGNOME, era infondata atteso che la causa -essendo stata dedotta dal COGNOME la violazione delle norme sulle distanze con conseguente domanda di demolizione di opere- era stata correttamente introdotta ed era stata decisa nel contraddittorio dei COGNOME quali attuali proprietari dell’immobile a cui era riferito il mancato rispetto delle distanze;
la doglianza per cui il Tribunale avrebbe dovuto estromettere NOME COGNOME in accoglimento della sua eccezione di difetto di legittimazione per non avere egli commissionato le opere risultate in violazione delle norme sulle distanze, era infondata atteso che la
legittimazione del COGNOME derivava dalla sua qualità di proprietario -al tempo della domanda- delle opere di cui era stata chiesta dal COGNOME la demolizione;
la doglianza per cui il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare gli appellanti privi di legittimazione avendo essi trasferito a terzi la proprietà dell’immobile, era infondata atteso che il trasferimento era avvenuto in corso di causa e che la domanda del COGNOME era stata trascritta prima della vendita quale negatoria servitutis tesa a salvaguardare il diritto di proprietà dalla costituzione da parte dei COGNOME della servitù di mantenere il loro immobile a distanza inferiore a quella di legge dall’immobile COGNOME;
la doglianza per cui il Tribunale avrebbe omesso di pronunciare sulla eccezione di decadenza del COGNOME dal termine per la proposizione della domanda possessoria era infondata ‘in considerazione dell’assorbimento della tutela possessoria in quella petitoria’. Il riferimento è al fatto, oggetto di particolare enunciazione in ricorso, che, nel 1990, il COGNOME aveva proposto nei confronti di NOME COGNOME una azione possessoria, poi non proseguita dopo la di lui morte, per lavori relativi all’immobile pervenuto agli attuali ricorrenti i quali avevano eccepito che il presente giudizio non era altro che la riproposizione, ‘oltre il termine di decadenza’ , della precedente azione;
la doglianza per cui il Tribunale non avrebbe valutato correttamente le dichiarazioni dei testi COGNOME COGNOME e COGNOME in relazione alla eccezione di usucapione sollevata dai COGNOME era infondata atteso che il primo teste che aveva riferito ‘di semplici modifiche architettoniche’ realizzate dai COGNOME era stato smentito dagli accertamenti dei due ctu nominati nel procedimento petitorio e nel procedimento possessorio, e che gli altri due testi avevano ‘rappresentato di avere una conoscenza assolutamente parziale e irrilevante’ delle
vicende di causa ‘avendo visto l’edificio’ dei Caporuscio ‘una sola volta nel 2006’;
la doglianza per cui il Tribunale avrebbe errato nel rigettare l’eccezione di usucapione avente ad oggetto il mantenimento della costruzione a distanza inferiore a quella di legge dalla proprietà COGNOME malgrado che i due ctu non avessero fornito precisazioni in ordine alla risalenza della costruzione, era infondata posto che correttamente il Tribunale, in assenza di prova certa dello stato dei luoghi al 1953 -data a cui i COGNOME facevano risalire la violazione delle distanzeaveva rigettato l’eccezione. La Corte di Appello ha aggiunto che l’immobile dei COGNOME presentava, al momento degli accertamenti dei CTU, una altezza e una volumetria maggiori di quelle al 22 settembre 1999 -‘epoca del condono edilizio’ -, cosicché era da qualificarsi non come ‘ricostruzione’ dell’immobile condonato ma come vera e propria ‘nuova costruzione’ come tale soggetta alla normativa sulle distanze vigente al tempo in cui era stata realizzata;
la doglianza per cui il Tribunale avrebbe errato nel rigettare le domande dei COGNOME di condanna del COGNOME per violazione delle norme sulle distanze e al ripristino dello stato del piano di campagna del proprio giardino era infondata atteso che la domanda di ripristino era inammissibile perché avanzata senza alcuna argomentazione in diritto né ‘deduzioni e prove in fatto rispetto alla decisione di prime cure’;
considerato che:
1.con il primo motivo di ricorso si lamenta ‘violazione o falsa applicazione degli artt. 102, 110, 111, con riferimento all’art. 360, primo comma, n.3. c.p.c.’.
I ricorrenti deducono di avere ereditato il loro immobile dal padre NOME, espongono che quest’ultimo, nel 1990, era stato citato dal COGNOME in un giudizio possessorio ‘contente domande identiche rispetto a quelle del presente giudizio’, che il giudice di quel
procedimento, alla morte di NOME COGNOME, aveva disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli eredi, che il COGNOME aveva mancato di provvedere ed aveva rinunciato alla domanda, che il presente petitorio non è altro che l’ ‘azione possessoria già estinta negli anni ’90 ma riproposta ex novo con la scusa che i COGNOME nel 2006 stavano facendo dei lavori di manutenzione’, che, quindi, la Corte di Appello aveva errato sia nel ritenere che il COGNOME non fosse decaduto dall’azione sia nel ritenere che non vi fosse necessità di integrazione del litisconsorzio rispetto agli altri eredi di NOME COGNOME
I ricorrenti sostengono altresì che la Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere che fossero legittimati passivi rispetto all’azione esperita dal COGNOME. In particolare, avrebbe errato nel ritenere influente che essi, nel 2007, avessero ceduto il loro immobile posto che la cessione era avvenuta in corso di causa e dopo che la domanda del COGNOME era stata trascritta in precedenza. In realtà deducono i ricorrentila ‘prima notifica’ della citazione introduttiva del presente giudizio ‘era stata eseguita nel 2006 ma non aveva (ha) raggiunto lo scopo ed era (è) stata rinnovata solo ad aprile 2007 per cui la domanda non poteva essere trascritta prima di tale data’;
il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
La Corte di Appello ha affermato che l’azione proposta dall’attuale controricorrente per il rispetto della distanza tra edifici e per la demolizione dell’edificio è stata proposta nei confronti degli attuali ricorrenti i quali erano, al momento della introduzione della causa, i proprietari del bene risultato a distanza inferiore a quella di legge e dall’immobile dell’attore e che i controricorrenti avevano trasferito il loro immobile a terzi nel corso della causa.
Il motivo è inammissibile per la parte in cui si lamenta violazione dell’art. 102 c.p.c., per difetto di specificità (art. 366 c.p.c.): i
ricorrenti non hanno indicato i litisconsorti pretermessi (Cass.n.17589/2020; n.5679/2020).
Merita peraltro osservare che è corretta, al contrario di quanto sostengono i ricorrenti, l’affermazione della Corte di Appello per cui, in tema di violazione delle norme sulle distanze e di domanda di demolizione di manufatti a distanza inferiore a quella di legge dal fabbricato attoreo, la causa deve essere proposta nei confronti dei proprietari di tali manufatti. Per costante giurisprudenza di legittimità (v., per tutte, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1967 del 10/03/1990), ‘l’azione reale, diretta al rispetto delle distanze legali, ha come necessario contraddittore (legittimato passivo) il proprietario dell’edificio o di quella parte di esso che si assume essere stata costruita senza l’osservanza di quelle distanze’. Su tale conclusione non incide la circostanza allegata dai ricorrenti secondo cui in giudizio possessorio a suo tempo instaurato contro il loro dante causa era stata disposto, a seguito della di lui morte, che il giudizio proseguisse nei confronti di tutti gli eredi trattandosi di circostanza che non interferisce con quella su cui fa perno la decisione della Corte di Appello ossia che, come già evidenziato, i ricorrenti erano i proprietari dell’edificio non a distanza di legge, al momento della proposizione della domanda. Il motivo è infondato per la parte in cui si lamenta la violazione dell’art. 111 c.p.c. È infatti corretta l’affermazione della Corte di Appello riguardo alla ininfluenza della cessione da parte dei ricorrenti del loro immobile in corso di causa rispetto al persistere dalla loro legittimazione, trattandosi di affermazione che costituisce la piana applicazione del primo comma dell’art. 111 c.p.c. I ricorrenti vorrebbero contestare tale affermazione allegando che la domanda introduttiva del giudizio era stata trascritta in data successiva a quella dell’ atto di cessione. Essi confondono il piano del processo, ove vige l’art. 111 c.p.c., con il piano degli effetti della sentenza per il terzo che acquista il bene controverso in corso
di causa, ove vigono le norme sulla trascrizione richiamate dall’ultimo comma del medesimo art.111 c.p.c.
Per quanto infine concerne la censura per cui la Corte di Appello avrebbe dovuto dichiarare il COGNOME decaduto dall’azione per essere il presente giudizio null’altro che la riproposizione, oltre il termine annuale di decadenza decorrente dalla dedotta lesione possessoria, della precedente azione possessoria proposta nel 1990 nei confronti di NOME COGNOME deve osservarsi che trattasi di censura inammissibile a fronte della insindacabile qualificazione data dai giudici di merito della azione del COGNOME come azione petitoria. Come questa Corte ha sempre sottolineato, spetta al giudice del merito dare alla domanda l’esatta qualificazione anche al di là della indicazione della parte e a prescindere dalla eventuale mancanza di indicazioni, con il solo limite di non mutarne gli elementi obbiettivi come fissati dall’attore (v. tra molte Cass. Sez. 2, sentenza n.9166 del 05/11/1994). Il superamento di questo limite, nel caso di specie, neppure è stato prospettato;
3. con il secondo motivo di ricorso si lamenta ‘violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 116 e conseguente violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 873 e 1158 c.c. con riferimento all’art. 360, primo comma, n.3. c.p.c.’.
Si deduce che la Corte di Appello avrebbe ‘disatteso prove legali’ prodotte dai ricorrenti, in particolare un verbale di contravvenzione del 26.2.1952 allegato 4 del loro fascicolo, da cui risulterebbe che il manufatto oggetto delle doglianze del COGNOME risale al 1951. Si deduce che lo stesso COGNOME ‘nell’atto di citazione del 1990 contro NOME COGNOME aveva parlato di ‘costruzione risalente unitamente alla sua agli anni 50’. Si deduce che ‘a tale momento temporale preesistevano le aperture, gli affacci e le finestre attribuite senza fondamento ai lavori del 2006’. Si sostiene che, al contrario di quanto affermato dalla Corte di Appello, sarebbe stata data prova che gli attuali ricorrenti avevano ‘usucapito la servitù di
luci e vedute che non riguardava nessun lavoro posto in essere nel 2006’. Si sostiene che la Corte di Appello avrebbe errato nel non tener conto del principio per cui incombe a chi chiede l’arretramento del fabbricato altrui, sul presupposto della preesistenza della propria costruzione, dimostrare di avere costruito per primo e del fatto che il COGNOME non aveva dato tale dimostrazione. Si aggiunge che la Corte di Appello aveva infondatamente affermato che le modifiche, dalla stessa Corte di Appello ‘ricondotte sempre senza fondamento ai lavori del 2006′, avevano generato una nuova costruzione’;
con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n.5, l’omesso esame di un fatto decisivo ‘e precisamente quello dell’anno di costruzione delle preesistenti opere che avrebbero violato l’art. 873 c.c.’. Si deduce ancora che l’immobile dei ricorrenti risale agli anni 50, che è precedente a quello del COGNOME e che le opere effettuate nel 2006 erano meri ‘lavori di manutenzione e che non hanno né traslato né modificato l’esterno del fabbricato’.
il secondo e il terzo motivo sono strettamente connessi e possono essere esaminati assieme.
Essi sono infondati.
In primo luogo, i ricorrenti evocano la violazione degli ‘artt. 2697 c.c., 873 e 1158 c.c.’ sovrapponendo confusamente allegazioni relative alla loro tesi di aver usucapito ‘servitù di luce e veduta’ (v. sentenza impugnata pagina 1) -tesi che i giudici di merito hanno ritenuto infondata sulla base di accertamenti in fatto di cui si diràe allegazioni relative all’onere della prova per chi, in materia di distanze legali stabilite dagli artt. 873 e ss. c.c. e delle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, chiede l’arretramento del fabbricato altrui, sul presupposto della preesistenza della propria costruzione, malgrado che tale questione
-che non viene precisato quando sarebbe stata sollevata- non trovi menzione nella sentenza impugnata.
Dal fatto che non risulta essere stata posta la questione della prevenzione deriva immediatamente che non può essere addebitata alla Corte di Appello la violazione dell’art. 2697 c.c. che, in riferimento alla prova della prevenzione, non vi è stato modo di applicare.
In secondo luogo, quanto alla dedotta usucapione, i due motivi sono inammissibili perché mirano, al di là delle evocate violazioni di legge, a rimettere in discussione l’affermazione della Corte di Appello, conforme a quella del Tribunale, per cui i testi indotti dai ricorrenti non erano stati capaci di fornire alcuna significativa informazione e per cui dalle relazioni dei due ctu nominati in primo grado non solo non era emerso che l’immobile dei COGNOME avesse sempre avuto la stessa conformazione dagli anni ’50 ma era emerso che era stato radicalmente trasformato con aumento di altezza e di volumetria e creazioni di nuove unità abitative in epoca successiva al 1999.
È infondata la censura di violazione dell’art.2697 c.c. Tale violazione si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (ved. Cass.26769 del 2018; Cass. 17313/2020). La Corte di Appello avrebbe effettivamente violato la norma se avesse posto a carico del COGNOME la prova del mancato perfezionamento dell’usucapione allegata dagli attuali ricorrenti. Non ha certamente violato la norma ritenendo non fondata l’allegazione non solo perché i ricorrenti non avevano assolto il loro onere di provare il contrario ma perché era positivamente stato accertato che l’ immobile dei ricorrenti non risaliva all’epoca alla quale essi, in
relazione al decorso del termine di usucapione, volevano farlo risalire.
Sono inammissibili anche le dedotte violazioni dell’art. 115 e dell’art. 116 c.p.c.
Va ricordato che ‘In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio)’ e che ‘la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale) oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione’.
Nel caso di specie i ricorrenti, con riguardo sia all’art. 115 c.p.c. sia all’art. 116 c.p.c., lamentano che la Corte di Appello avrebbe ‘disatteso’ un verbale di contravvenzione del 26.2.1952 che darebbe la ‘prova legale’ del fatto che il manufatto oggetto delle doglianze del COGNOME risale al 1951.
Tale lamentela non è inquadrabile sotto l’art. 115 c.p.c. dacché l’inammissibilità del riferimento all’art. 115 c.p.c.
Nella sentenza impugnata non si fa menzione del suddetto verbale cosicché è anche inammissibile il riferimento all’art. 116 c.p.c.
La lamentela viene poi riproposta con riferimento al n. 5 dell’art. 360, primo comma, c.p.c. laddove i ricorrenti, con il terzo motivo di ricorso, deducono che la Corte di Appello avrebbe trascurato di esaminare la data di costruzione del loro edificio. La lamentela è anche sotto questo profilo inammissibile ai sensi della previsione di cui all’art. 348 ter, comma 5, c.p.c. -qui applicabile ex art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, trattandosi di giudizio di appello introdotto successivamente all’11 settembre 2012atteso che la sentenza di appello ha integralmente confermato la decisione di primo grado;
in conclusione il ricorso deve essere rigettato;
le spese seguono la soccombenza;
sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
la Corte rigetta il ricorso;
condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in € 4000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e altri accessori di legge se dovuti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2024.