Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 13936 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 13936 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 26/05/2025
SENTENZA
sul ricorso 32208-2019 proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente all’Avv. NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. COGNOME rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
avverso la sentenza n. 730/2019 della CORTE DI APPELLO d ell’AQUILA , depositata il 29/04/2019;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
udito il P.G., nella persona della dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, con rigetto degli altri e del ricorso incidentale;
uditi gli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME per la parte ricorrente, che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello incidentale, nonché l’avv. NOME COGNOME per i controricorrenti e ricorrenti incidentali, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento di quello incidentale
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 14.07.2008 COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, comproprietari di un immobile sito in Pescara, evocavano in giudizio COGNOME NOME, proprietario dell’immobile confinante, innanzi al Tribunale di Pescara, chiedendone la condanna ad arretrare la sua fabbrica sino al rispetto della distanza di dieci metri dal cespite degli attori ed al risarcimento del danno. Gli attori deducevano che il convenuto aveva edificato un fabbricato pluripiano alla distanza variabile da metri 8,02 a metri 8, 15 dalla parte esterna lato sud-est della loro proprietà, in violazione della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968.
Si costituiva in giudizio NOME, resistendo alla domanda ed eccependo, in via riconvenzionale, che i due edifici si trovavano nella loro attuale collocazione da oltre venti anni. Contestava poi l’applicabilità alla fattispecie del D.M. n. 1444 del 1968, per assenza di strumenti urbanistici adottati dal Comune di Pescara, onde doveva applicarsi la minor distanza prescritta dall’art. 873 c.c. Infine, eccepiva l’esistenza di una servitù ad uso pubblico sulla strada interposta tra i due fabbricati, con conseguente applicazione della disposizione di cui all’art. 879 c.c., e sosteneva che la distanza avrebbe dovuto comunque essere calcolata a partire dalla mezzeria di detta strada, rispetto alla quale il suo edificio era collocato in posizione regolare.
Con sentenza n. 962/2013 il Tribunale accoglieva la domanda di arretramento del fabbricato dell’odierno ricorrente sino al rispetto della distanza di 10 metri da quello degli originari attori ma rigettava la domanda risarcitoria, compensando parzialmente le spese del grado. Il giudice di prime cure riteneva che l’edificio del Febbo Omero fosse stato ultimato nel novembre del 1983 e che esso era collocato alla distanza variabile da metri 8,09 a metri 8,03 dall’edificio degli attori; riteneva applicabile alla fattispecie la norma di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 e disponeva quindi l’arretramento sino al rispetto della stessa; escludeva l’esistenza di una strada assoggettata a servitù di uso pubblico tra le due fabbriche, in assenza di prova circa l’esistenza di una convenzione con l’ente pubblico o, in alternativa, la destinazione ultraventennale del percorso all’uso generalizzato; considerava infine non conseguita la prova del danno lamentato dagli attori.
Interponeva appello avverso detta decisione l’originario convenuto, mentre gli originari attori si costituivano resistendo al gravame principale e spiegando impugnazione incidentale in relazione al rigetto della domanda risarcitoria.
Nella pendenza del giudizio di seconde cure, COGNOME NOME, con atto di citazione notificato il 20.5.2014, evocava a sua volta COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Pescara, invocando l’accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione del suo diritto di mantenere l’edificio di cui è causa nella sua attuale collocazione. Si costituivano i convenuti, spiegando eccezione di litispendenza che il Tribunale, dopo aver concesso i termini di cui all’art. 183, sesto comma, c.p.c, rigettava con ordinanza dell’8.1.2015. Avverso detta pronuncia interponevano regolamento di competenza gli odierni controricorrenti, che veniva dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 16661/2015.
Con sentenza n. 1179/2017 il Tribunale di Pescara, decidendo sulla controversia introdotta con citazione del Febbo Omero, accoglieva la domanda di usucapione, condannando gli odierni controricorrenti alle spese del grado.
Avverso detta decisione interponevano appello i soccombenti, e le due impugnazioni, su concorde richiesta delle parti, venivano riunite.
Con la sentenza impugnata, n. 730/2019, La Corte di Appello dell’Aquila rigettava sia il gravame principale di NOME, che quello incidentale di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, proposti avverso la decisione del Tribunale di Pescara n. 962/2013; accoglieva invece l’impugnazione proposta dai predetti COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME avverso la seconda pronuncia del medesimo ufficio di prime cure, n. 1779/2017. La Corte distrettuale affermava, in particolare, che la domanda di usucapione, proposta dal Febbo COGNOME nel secondo giudizio, era inammissibile a fronte della tardiva proposizione dell’eccezione riconvenzionale di usucapione nella prima controversia; confermava l’applicabilità al caso di specie della norma di cui all’art. 9
del D.M. n. 1444 del 1968 ed il mancato conseguimento della prova della destinazione ad uso pubblico della strada interposta tra i due edifici; confermava altresì il rigetto della domanda risarcitoria proposta da COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME; e compensava, infine, tra le parti le spese dell’intero giudizio di merito.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione COGNOME, affidandosi a tre motivi.
Resistono con controricorso COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, spiegando ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, a sua volta resistito da controricorso.
In prossimità dell’udienza pubblica, il P.G. ha depositato requisitoria scritta, concludendo per l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, con rigetto dei restanti, nonché per il rigetto del ricorso incidentale, e la parte ricorrente principale ha depositato memoria.
Sono comparsi all’udienza pubblica il P.G., nella persona del dott. NOME COGNOME il quale ha concluso come da requisitoria scritta; gli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME per la parte ricorrente, che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello incidentale; e l’avv. NOME COGNOME per i controricorrenti e ricorrenti incidentali, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento di quello incidentale
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente principale deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 1,2,9 del D.M. n. 1444 del 1968, degli artt. 873, 2697 c.c. e 113 c.p.c. nonché dei principi di effettività della tutela e nullità o illegittimità degli atti amministrativi, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato che le disposizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968 trovano applicazione anche in assenza di un valido
strumento urbanistico adottato da parte dell’Ente locale, ed attribuito valenza, sotto questo profilo, ad un P.R.G. successivamente annullato dagli organi di giustizia amministrativa. Ad avviso del ricorrente, le prescrizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968 sarebbero applicabili soltanto in seguito all’adozione, da parte dell’ente locale, di uno strumento urbanistico atto ad individuare le zone territoriali omogenee, in difetto del quale non potrebbe essere invocata la disposizione di cui all’art. 9 del predetto decreto. Nel caso specifico, il Comune di Pescara si era dotato di strumento urbanistico con il Piano di ricostruzione del 1944, dichiarato inefficace con pronuncia confermata dalle Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 3591/1974 e poi con Piano regolatore del 1957, a sua volta dichiarato inefficace dall’Autorità giudiziaria. Nel 1979 era stato approvato un nuovo strumento urbanistico, che aveva definito le zone omogenee, che tuttavia era stato a sua volta annullato dal T.A.R. Abruzzo con sentenza n. 148/1986, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 280/1987. Infine, solo nel 1993 il Comune di Pescara aveva adottato un P.R.G. valido, attuando le disposizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968. Alla data di realizzazione dell’edificio del ricorrente, dunque, non esisteva alcuno strumento urbanistico valido, per cui non poteva essere ritenuta applicabile la norma di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in assenza di individuazione delle zone urbanistiche omogenee previste dalla predetta normativa secondaria.
La censura è fondata.
La Corte di Appello ha affermato che, essendo stato l’edificio del ricorrente ultimato nel novembre del 1983, ad esso si doveva applicare la normativa di cui al D.M. n. 1444 del 1968, la quale, essendo norma di carattere imperativo, non presupporrebbe il suo recepimento da
parte di un piano urbanistico o di un regolamento edilizio locale (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata).
In realtà, nel caso di specie è stato acclarato che il Comune di Pescara, per effetto delle vicissitudini giudiziarie che hanno interessato le diverse pianificazioni urbanistiche intervenute nel corso degli anni, si è dotato di una regolamentazione locale soltanto nel 1993, e dunque in epoca successiva a quella in cui il manufatto oggetto di causa era stato ultimato (novembre 1983). I precedenti strumenti urbanistici approvati nel 1944 (piano di ricostruzione), nel 1957 e nel 1979 sono stati infatti, rispettivamente, i primi due dichiarati inefficaci, ed il terzo annullato dalle competenti autorità giudiziarie. La definizione delle zone omogenee contenuta nel piano regolatore del 1979, in particolare, è venuta meno, con effetto ex tunc , giusta il suo annullamento da parte del T.A.R. Abruzzo, con sentenza n. 148/1986, confermata dal Consiglio di Stato con successiva sentenza n. 280/1987. In assenza di normativa locale contenente la cd. ‘zonizzazione’, dunque, la disposizione di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non poteva essere ritenuta automaticamente applicabile nei rapporti tra privati, poiché essa presuppone la suddivisione del territorio in zone, che costituisce il presupposto, sotto il profilo logico-giuridico, per il funzionamento del sistema normativo introdotto dal D.M. n. 1444 del 1968, che prevede, al già richiamato art. 9, distanze minime variabili a seconda della zona in cui si collocano gli edifici.
Va ribadito, al riguardo, il principio secondo il quale la disciplina temporalmente applicabile in materia di distanze legali dev’essere individuata in quella vigente al momento della realizzazione dell’opera, e non del rilascio del titolo edilizio (cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 28263 del 28/09/2022, non massimata, pag. 5 e s.; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 4833 del 19/02/2019, Rv. 652694; Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 7563 del 30/03/2006, Rv. 587076), salvo il limite, nel caso di norme più restrittive, dei cosiddetti “diritti quesiti” per le costruzioni già sorte (cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 28478 del 12/10/2023, non massimata, pag. 11) e di eventuali norme sopravvenute più favorevoli, comunque applicabili anche a costruzioni anteriori, sempre che non si sia già formato il giudicato sulla loro legittimità (cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 26713 del 24/11/2020, Rv. 659725; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24967 del 10/12/2015, non massimata, pag. 5 e s.; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14446 del 15/06/2010, Rv. 613403; Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 12717 del 13/05/2021, non massimata, pag. 3; nonché, da ultimo, Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 5590 del 03/03/2025, non massimata, pagg. 10 e s.).
Con specifico riferimento all’inidoneità del P.R.G. annullato in sede giurisdizionale a disciplinare i rapporti in materia di distanze, questa Corte, pronunciandosi su una questione concernente proprio lo strumento di pianificazione adottato dal Comune di Pescara, ha avuto modo di rilavare che ‘… in tema di distanze fra le costruzioni, le prescrizioni del piano regolatore, atto complesso risultante dal concorso della volontà del Comune e della Regione, acquistano efficacia di norme giuridiche integrative del codice civile solo con l’approvazione del piano medesimo da parte dell’autorità regionale, onde, qualora anche uno solo dei due atti che costituiscono l’atto complesso sia annullato, in via definitiva, a seguito di ricorso giurisdizionale, il piano regolatore decade con effetto retroattivo e non ha alcuna idoneità a regolare i rapporti in materia di distanze legali, fino a quando non intervenga una sua nuova approvazione e salva l’applicazione delle misure di salvaguardia (cfr. Cass. n. 17914 del 2003 e, da ultimo, Cass. n. 2149 del 2009)’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23018 del 14/12/2012, Rv. 624730 e Rv. 634731, in motivazione, pag. 11).
Pertanto, in ragione dell’effetto demolitorio conseguente alla sentenza di annullamento del T.A.R. Abruzzo, confermata dal Consiglio di Stato, il piano urbanistico del 1979 va ritenuto decaduto ex tunc , con la conseguenza che la disposizione di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non può trovare diretta applicazione nei rapporti tra privati, mancando il presupposto logico-giuridico della sua operatività, ovvero la sussistenza di un valido strumento di pianificazione recante l’individuazione delle zone territoriali omogenee, Va rilevato, sul punto, che il meccanismo di inserzione automatica delle disposizioni di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 nello strumento urbanistico, qualora quest’ultimo preveda distanze inferiori a quelle previste dalla norma sopra richiamata, ovvero non preveda distanza alcuna (sul punto, cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 12562 del 10/05/2023, Rv. 667781; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 29732 del 12/12/2017, Rv. 647062; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 6767 del 14/93/2025, non massimata, pagg. 8 e ss.) presuppone pur sempre che il predetto strumento urbanistico esista e sia valido, poiché in difetto non può operarsi alcuna integrazione dello stesso, e rimane fermo il principio secondo cui il D.M. n. 1444 del 1968 ‘… che all’art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, impone determinati limiti edilizi ai Comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici ma non è immediatamente operante anche nei rapporti fra i privati’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 5889 del 01/07/1997, Rv. 505623, con molte altre successive conformi, tra cui Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11902 del 07/08/2002, Rv. 556779; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 633 del 17/01/2003, Rv. 559827; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14363 del 29/07/2004, Rv. 575055; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27558 del 31/12/2014, Rv. 634110).
I riflessi che l’annullamento del P.R.G. determina sull’individuazione della disciplina in concreto applicabile alla fattispecie in esame devono quindi essere apprezzati alla luce dei principi elaborati da questa Corte in materia di successione nel tempo di norme edilizie e di effetti dell’annullamento, in sede giurisdizionale, degli atti amministrativi, sin qui evidenziati. Di conseguenza, lo strumento di pianificazione urbanistico che sia stato annullato, con efficacia ex tunc , dal giudice amministrativo, va considerato come se non fosse mai stato adottato. La costruzione eretta dal COGNOME, dunque, è stata realizzata in assenza di norme locali integrative di quelle codicistiche, onde ad essa non può essere applicata, tout court , la normativa di cui al D.M. n. 1444 del 1968, mancando uno strumento di pianificazione locale in relazione al quale quest’ultima possa spiegare effetti integrativi.
Con il secondo motivo del ricorso principale, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 9, secondo comma, del D.M. n. 1444 del 1968, 825, 872, 873, 879, 1158 c.c., nonché la nullità della sentenza impugna, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso la sussistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada interposta tra i due fabbricati delle parti contendenti, senza eseguire alcun accertamento in proposito.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello ha escluso che la strada esistente tra i fabbricati delle parti fosse destinata ad uso pubblico, affermando che ‘ L’appellante NOME COGNOME adduce a riprova che la strada in questione (qualificata dal CTU come corte comune) era una strada vicinale, destinata a collegare due vie pubbliche, aperta al passaggio di mezzi, anche agricoli, con indicazione del senso di marcia. La ricostruzione non ha invero il conforto degli accertamenti condotti dal CTU secondo
cui ‘Usare il termine strada ad uso pubblico non significa assolutamente nulla se si riferisce alla particella 1629, essa è e rimane una corte comune, si ripete che il P.R.G. lo classifica sottozona B3’. Invero questo profilo dell’impugnazione appare carente sotto il profilo probatorio ‘ (cfr. pag. 14 della sentenza impugnata). La Corte distrettuale, dunque, richiamando gli accertamenti condotti dal C.T.U. ha espressamente escluso il conseguimento della prova della destinazione ad uso pubblico della strada di cui si discute, qualificata peraltro dall’ausiliario come mera corte comune, e dunque ha ritenuto, all’esito di una valutazione del fatto e delle prove insindacabile in sede di legittimità, non operante l’esenzione dell’obbligo di rispetto delle distanze tra edifici prevista dall’art. 879 c.c.
A tale ricostruzione il ricorrente contrappone una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘ L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanza probatorie, di quelle ritenuto più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra alcun limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo
elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendosi ritenere implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata ‘ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328 e Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16467 del 04/07/2017, Rv. 644812).
Nel contestare la ricostruzione in fatto del giudice di merito, peraltro, la parte ricorrente richiama, genericamente, la ‘documentazione versata in atti’ e le ‘risultanze della prova testimoniale’ , senza tener conto che ‘ In tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame ‘ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8569 del 09/04/2013, Rv. 625839; conf. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015 Rv. 636120; Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 18679 del 27/07/2017, Rv. 645334; Cass. Sez. L, Sentenza n. 4980 del 04/03/2014 Rv. 630291). Il motivo è dunque inammissibile anche per carenza del richiesto grado di specificità.
Nel caso di specie, infine, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica,
ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639).
Con il terzo motivo, il ricorrente principale si duole infine della violazione o falsa applicazione degli artt. 183, 184, 273, 274 c.p.c., 2909 c.c. e 24 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto di non poter esaminare la domanda di usucapione proposta dal ricorrente nel secondo giudizio instaurato dinanzi il Tribunale di Pescara, in conseguenza della tardiva proposizione, nella prima causa, di eccezione riconvenzionale di usucapione.
La censura è infondata.
La Corte di Appello ha ritenuto applicabile alla fattispecie l’istituto della litispendenza, ma ha anche osservato, in aderenza con l’insegnamento di questa Corte, che mediante la riunione delle due impugnazioni proposte, rispettivamente, dall’odierno ricorrente principale contro la prima decisione del Tribunale di Pescara (che lo aveva visto soccombere rispetto alla domanda di arretramento del suo edificio) e dai ricorrenti incidentali contro la seconda pronuncia dello stesso ufficio (che aveva invece accolto la domanda del Febbo di usucapione del diritto di mantenere la sua fabbrica nella sua attuale collocazione), non è possibile realizzare un aggiramento del sistema delle preclusioni, per cui se queste ultime si sono maturate nel primo giudizio, non è consentito il loro superamento mediante la riproposizione in una seconda causa, in via diretta, delle stesse questione che, nella prima controversia, erano state sollevate in via di eccezione o di domanda riconvenzionale. Sul punto, va data continuità
al principio secondo cui ‘Deve escludersi che, in applicazione di un parallelismo con l’istituto della litispendenza, la regola disciplinatrice del quale è nel senso che il processo iniziato per secondo dev’essere definito in rito e non dev’essere trattato, nell’ipotesi in cui abbia luogo avanti allo stesso giudice di due procedimenti identici, il giudice debba trattare il processo considerando soltanto il primo giudizio, di modo che se esso presenta un problema in rito che impedisce la trattazione del merito, quest’ultima resti preclusa anche sul secondo. Infatti, ciò, oltre ad essere in contrasto con la stessa previsione della riunione obbligatoria dei procedimenti identici pendenti avanti al medesimo giudice, sarebbe anche in manifesto contrasto con quanto accade allorquando un giudizio venga definito con pronuncia di rito e venga successivamente proposto un nuovo identico giudizio, la cui proposizione non è impedita dalla pronuncia in rito sul primo giudizio. Il parallelismo con l’istituto della litispendenza può soltanto suggerire che, in relazione a riti processuali imperniati sulle preclusioni, la verificazione di una preclusione (di rito o di merito) nel primo processo determini l’effetto di impedire che nel secondo processo la preclusione possa essere superata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5894 del 17/03/2006, Rv. 587894). In senso conforme, cfr. anche Cassa. Sez. 1, Sentenza n. 567 del 15/01/2015, Rv. 633952, avente ad oggetto una fattispecie analoga a quella oggetto del presente ricorso, secondo cui ‘Le decadenze processuali verificatesi nel giudizio di primo grado non possono essere aggirate dalla parte che vi sia incorsa mediante l’introduzione di un secondo giudizio identico al primo e a quest’ultimo riunito, in quanto la riunione di cause identiche non realizza una vera e propria fusione dei procedimenti, tale da determinare il concorso nella definizione dell’effettivo thema decidendum et probandum, restando anzi intatta l’autonomia di ciascuna causa. Ne consegue che, in tale
evenienza, il giudice – in osservanza del principio del ne bis in idem e allo scopo di non favorire l’abuso dello strumento processuale e di non ledere il diritto di difesa della parte in cui favore sono maturate le preclusioni -deve trattare soltanto la causa iniziata prima, decidendo in base ai fatti tempestivamente allegati e al materiale istruttorio in essa raccolto, salva l’eventualità che, non potendo tale causa condurre ad una pronuncia sul merito, venga meno l’impedimento alla trattazione della causa successivamente instaurata’ (conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24529 del 05/10/2018, Rv. 651137 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20248 del 14/07/2023, Rv. 668402).
Poiché nel caso di specie l’odierno ricorrente principale aveva proposto tardivamente nel primo giudizio eccezione di usucapione del diritto di mantenere l’edificio nella sua attuale collocazione, la medesima domanda non poteva essere proposta, in via di azione, in una successiva causa, poiché in tal modo si realizza proprio l’effetto di aggirare il sistema delle preclusioni processuali che la richiamata giurisprudenza di questa Corte tende ad evitare.
Con l’unico motivo del ricorso incidentale, invece, viene denunziata la violazione ed erronea applicazione degli artt. 872, 2043 c.c., 24 Cost., 132 c.p.c. e nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., in quanto la Corte di Appello avrebbe erroneamente rigettato la domanda risarcitoria proposta dai ricorrenti incidentali, valorizzando il fatto che gli stessi avevano agito in giudizio a distanza di molti anni dalla realizzazione del manufatto del Febbo Omero.
La censura è logicamente assorbita dall’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, poiché il giudice del rinvio dovrà rivalutare la fattispecie, tenendo conto dell’inapplicabilità delle norme di cui al D.M. n. 1444 del 1968, per carenza dello strumento urbanistico
locale, pronunciandosi, all’esito, anche sulla domanda risarcitoria degli odierni ricorrenti incidentali.
In definitiva, va accolto il primo motivo del ricorso principale, con rigetto degli altri motivi dello stesso ed assorbimento del ricorso incidentale.
La sentenza impugnata va dunque cassata, in relazione alla censura accolta, e la causa rinviata alla Corte di Appello dell’Aquila, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
PQM
la Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, rigetta gli altri e dichiara assorbito l’unico motivo del ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alla censura accolta, e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello dell’Aquila, in differente composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda