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Distanze legali costruzioni: la delibera è valida?

Una società edilizia, appellandosi a una delibera comunale permissiva, ha visto il suo ricorso respinto dalla Cassazione in una controversia sulle distanze legali costruzioni. La Corte ha ribadito che i regolamenti nazionali (DM 1444/1968) prevalgono sulle norme locali meno restrittive, che non hanno completato l’iter di approvazione regionale. Di conseguenza, la nuova costruzione deve essere arretrata per rispettare le distanze minime imposte dalla legge nazionale, confermando la decisione della Corte d’Appello.

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Distanze Legali Costruzioni: La Delibera Comunale Può Derogare alle Norme Nazionali?

Il tema delle distanze legali costruzioni è una fonte costante di contenzioso tra proprietari confinanti. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali sulla gerarchia delle fonti in materia edilizia, stabilendo un principio fondamentale: una semplice delibera comunale non può prevalere sulle norme nazionali più restrittive. Il caso riguardava una società costruttrice che, forte di una delibera locale, aveva edificato un immobile senza rispettare le distanze minime previste dalla legge, scatenando la reazione dei vicini. Analizziamo la vicenda e la decisione della Suprema Corte.

I Fatti di Causa: una Costruzione al Centro della Controversia

Tutto ha inizio quando una società edilizia acquista un terreno e, ottenuta una concessione edilizia basata su una delibera comunale del 1989, realizza un nuovo fabbricato. I proprietari del fondo confinante, tuttavia, citano in giudizio sia l’impresa che la precedente proprietaria del terreno, lamentando la violazione delle distanze legali dal loro immobile e dal confine.

Il Tribunale di primo grado accoglie parzialmente la domanda, condannando la società ad arretrare la costruzione fino a 1,5 metri dal confine. Insoddisfatti, gli eredi della proprietaria originaria propongono appello. La Corte d’Appello riforma la sentenza, accogliendo le loro richieste e respingendo l’appello incidentale della società costruttrice. Secondo i giudici di secondo grado, la delibera comunale su cui si basava la costruzione era illegittima perché in contrasto con il Piano Particolareggiato e, soprattutto, con il Decreto Ministeriale n. 1444/1968, che impone distanze maggiori.

La Questione delle Distanze Legali Costruzioni e la Giurisdizione

La società costruttrice ricorre in Cassazione, sollevando in primo luogo una questione di giurisdizione. A suo dire, la controversia avrebbe dovuto essere decisa dal giudice amministrativo, data la presenza di una concessione edilizia. La Suprema Corte, tuttavia, respinge nettamente questa eccezione. Viene ribadito il principio consolidato secondo cui le controversie tra privati relative al rispetto delle distanze legali costruzioni appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario. Quest’ultimo ha il potere di valutare incidenter tantum la legittimità del titolo abilitativo (il permesso di costruire) e, se lo ritiene illegittimo perché in contrasto con le norme urbanistiche, può disapplicarlo ai fini della decisione della causa tra i privati.

Il Cuore del Problema: Delibera Comunale vs. Legge Nazionale

Il fulcro della questione ruota attorno al conflitto tra diverse fonti normative:
1. La Delibera Comunale (n. 508/89): Permetteva la costruzione in aderenza o a distanze inferiori rispetto a quelle previste dal piano urbanistico, derogando alle misure minime.
2. Il Piano Particolareggiato Comunale: Prevedeva una distanza di 8 metri tra fabbricati preesistenti e 4 metri dal confine.
3. Il Decreto Ministeriale n. 1444/1968: All’articolo 9, impone una distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate di edifici antistanti.

La società sosteneva la piena legittimità della delibera, mentre i proprietari confinanti e la Corte d’Appello ritenevano che essa non potesse derogare a una normativa di rango superiore come il D.M. 1444/1968. La Corte d’Appello aveva infatti ordinato l’arretramento del nuovo edificio a 5 metri dal confine per la parte frontistante la parete finestrata dei vicini (per un totale di 10 metri tra i due edifici) e a 4 metri dal confine per la parte in aderenza a un muro preesistente, disapplicando la delibera.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, confermando in toto la decisione d’appello. Le motivazioni si basano su due pilastri argomentativi interconnessi.

In primo luogo, si è chiarito che una semplice delibera del consiglio comunale non è uno strumento idoneo a modificare la disciplina urbanistica contenuta in un piano regolatore. Per farlo, è necessario un complesso iter amministrativo che si conclude con l’approvazione regionale della variante al piano. Poiché tale procedura non era stata completata, la delibera era priva di efficacia vincolante e non poteva legittimare una costruzione in deroga.

In secondo luogo, e questo è il punto cruciale, la Corte ha ribadito la natura imperativa e inderogabile del D.M. n. 1444/1968. Tale decreto, che fissa standard minimi di distanza, altezza e densità edilizia, non vincola solo la Pubblica Amministrazione nella redazione dei piani urbanistici, ma è immediatamente applicabile anche nei rapporti tra privati. Esso integra direttamente le disposizioni del Codice Civile (art. 873) e prevale su qualsiasi norma locale (comunale o regionale) che preveda distanze inferiori. Pertanto, anche se la delibera fosse stata formalmente valida, sarebbe stata comunque illegittima per contrasto con una fonte normativa gerarchicamente sovraordinata.

Le Conclusioni

In conclusione, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, condannando la società costruttrice a pagare le spese legali. La decisione afferma con forza un principio di certezza del diritto: in materia di distanze legali costruzioni, le norme nazionali che fissano standard minimi a tutela della salute e della sicurezza pubblica non possono essere derogate da atti amministrativi locali di rango inferiore. I costruttori e i professionisti del settore devono quindi prestare la massima attenzione non solo ai regolamenti comunali, ma all’intero quadro normativo, verificando la conformità dei piani locali alle leggi nazionali. Per i proprietari, questa sentenza rappresenta una garanzia fondamentale per la tutela dei loro diritti contro edificazioni abusive o troppo vicine.

A chi spetta decidere una causa tra vicini per il rispetto delle distanze tra costruzioni, anche se esiste un permesso di costruire?
La competenza è del giudice civile ordinario. Questo giudice ha il potere di valutare se la costruzione rispetta le norme sulle distanze e può “disapplicare” il permesso di costruire se lo ritiene illegittimo, senza doverlo annullare formalmente.

Una delibera del Consiglio Comunale può consentire di costruire a distanze inferiori rispetto a quelle previste dalla legge nazionale?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che una semplice delibera comunale non può modificare la disciplina urbanistica in modo da derogare a norme nazionali inderogabili, come il D.M. 1444/1968. Tali norme nazionali si applicano direttamente e prevalgono sulle disposizioni locali contrastanti.

Cosa succede se un regolamento edilizio locale non prevede distanze minime o ne prevede di inferiori a quelle del D.M. 1444/1968?
Le norme del D.M. 1444/1968 si inseriscono automaticamente nel regolamento locale, sostituendo le norme mancanti o meno restrittive. Pertanto, si devono comunque rispettare le distanze minime previste dalla normativa nazionale (es. 10 metri tra pareti finestrate).

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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