Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 10522 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 10522 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/04/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 22532/2019 R.G. proposto da: COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliate in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, NOME COGNOME
(NDRMSM58A22L219E)
-controricorrente e ricorrente incidentale-
nonché contro
COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME RAGIONE_SOCIALE
-intimati- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO TORINO n. 117/2019 depositata il 18 gennaio 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/03/2025 dal Consigliere dr. NOME COGNOME
Udito il P.G. in persona della dr.ssa NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale.
Udito per le ricorrenti l’avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello incidentale.
Udito per la controricorrente l’avv. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento di quello incidentale.
FATTI DI CAUSA
NOME e NOME COGNOME convenivano dinanzi al Tribunale di Verbania la s.RAGIONE_SOCIALE, la s.p.a. RAGIONE_SOCIALE nonché NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e la società cooperativa sociale RAGIONE_SOCIALE. Le attrici, premesso di essere comproprietarie di un fabbricato con antistante area a prato sito in Omegna, lamentavano che sul terreno confinante, appartenente alla s.r.RAGIONE_SOCIALE. RAGIONE_SOCIALE, negli anni 20042005 era stato realizzato un intervento edilizio, consistente nella parziale demolizione del preesistente edificio a destinazione
artigianale e nella riedificazione di una costruzione a destinazione residenziale con diversa sagoma, diversa altezza e diversa disposizione volumetrica rispetto a quella preesistente e avente caratteristiche e destinazione d’uso del tutto differenti. Le attrici, sostenendo trattarsi di “nuova costruzione” posta a confine con la loro proprietà, chiedevano, conseguentemente, la condanna dei convenuti ad arretrare l’edificio realizzato alla distanza minima di metri cinque dal confine con il loro mappale. In via subordinata, chiedevano la condanna dei convenuti alla regolarizzazione delle luci aperte in violazione dell’art. 901 c.c., nonché all’eliminazione di altri abusi, oltre al risarcimento dei danni.
I n esito all’istruttoria, i l giudice adito condannava i convenuti ad arretrare il fabbricato oggetto di causa a 5 metri dal confine con la particella di proprietà attorea, ritenendo assorbite le altre domande per effetto dell’accoglimento della domanda principale.
La conseguente impugnazione della RAGIONE_SOCIALE veniva definita in data 28 marzo 2011 dalla Corte di Appello di Torino con il rigetto del gravame.
Su ricorso di RAGIONE_SOCIALE, con sentenza n. 2776 del 2 febbraio 2017, questa Suprema Corte cassava la sentenza impugnata, rilevando che il parere dell’organo consiliare provinciale era richiesto solo nell’ambito del procedimento di formazione del piano territoriale di competenza della Provincia, ovvero per la modifica di esso, non anche allorquando si fosse trattato, come nel caso in esame, di esprimersi sulla conformità degli strumenti urbanistici comunali alla pianificazione territoriale provinciale.
In particolare, la pronunzia affermava: ‘ Il primo motivo di ricorso principale è fondato. Deve premettersi che, secondo i principi enunciati da questa Corte, in caso di successione nel tempo di norme edilizie, la nuova disciplina meno restrittiva è applicabile anche alle costruzioni realizzate prima della sua entrata in vigore, con l’unico limite dell’eventuale giudicato formatosi nella controversia sulla legittimità o non della costruzione, onde non può disporsi la demolizione degli edifici originariamente illeciti alla stregua delle precedenti norme, nei limiti in cui siano consentiti dalla normativa sopravvenuta (Cass. 12-2-2000 n. 1565;
Cass. 2-3-2007 n. 4980). Nella specie, in appello la sRAGIONE_SOCIALE ha invocato, tra l’altro, l’applicabilità dello ius superveniens più favorevole, basato sulla deliberazione del Consiglio Comunale di Omegna n., 73 del 23-9-2008, divenuta esecutiva il 25-10-2008, di “approvazione variante normativa n. 18 al PRGC vigente -DGR 6- 28322001 ex art. 17, comma 7 della 1. r. 56177 e s.m.i.”, che, secondo l’appellante, aveva comportato l’eliminazione della previsione della distanza di 5 metri dal confine contenuta nella precedente versione dell’art. 21 delle N.T.A. La Corte distrettuale ha ritenuto di disapplicare incidenter tantum la citata delibera consiliare (nonché la variante adottata dal Comune di Omegna), in quanto adottata sulla base di un parere di compatibilità espresso da organo incompetente (Giunta Provinciale invece del Consiglio Provinciale). Nel pervenire a tali conclusioni, il giudice del gravame ha fatto propri i rilievi svolti dal TAR Piemonte nella sentenza n. 2551 del 2009, nella quale è stato ricordato come il settimo comma dell’art. 17 della 1. regionale Piemonte 5-12-1977 n. 56 preveda una procedura semplificata per l’introduzione di varianti parziali al piano regolatore generale, nell’ambito del quale si colloca l’intervento della Giunta Provinciale, che entro 45 giorni dalla ricezione della delibera di adozione della variante deve esprimere un parere di compatibilità con il piano territoriale provinciale ed i progetti sovracomunali approvati. Secondo il giudice amministrativo, tuttavia, la norma sulla competenza prevista dalla legge regionale è in rapporto di incompatibilità -tale da comportare la sua implicita abrogazione – con l’art. 32 comma 2 1. n. 1421990, che riserva alla competenza del Consiglio, tra l’altro, “i piani territoriali e urbanistici, i programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, le eventuali deroghe ad essi, i pareri da rendere nelle dette materie”, e con l’art. 42 comma 2 d.lgs. n. 2672000, che configura il Consiglio come l’unico organo dell’ente locale competente in materia di pianificazione urbanistico-edilizia, comprendente anche la “dichiarazione di compatibilità” di cui all’art. 17, comma 7, della legge urbanistica piemontese, che integra un parere in ordine alla sussistenza di eventuali profili di contrasto tra la variante adottata e gli strumenti urbanistici di livello provinciale. Dalla illegittimità per incompetenza del parere della Giunta provinciale deriva, secondo la citata decisione del TAR, altresì l’illegittimità della successiva delibera di
approvazione della variante parziale e degli altri atti connessi. Analoghi principi, ad avviso della Corte distrettuale, si desumerebbero dalla pronuncia del Consiglio di Stato n. 333 del 2009. Deve, peraltro, osservarsi che l’orientamento espresso da TAR Piemonte nella sentenza n. 2551 del 2009 è stato superato dalle successive pronunce n. 609 del 2013 e n. 1712 del 2014 rese dallo stesso giudice amministrativo, nelle quali è stato affermato che “le competenze del consiglio provinciale sono limitate agli atti fondamentali dell’ente, ed in particolare a quelli di natura pianificatoria e programmatoria; ma nel caso previsto dall’art. 17 della 1.r. 56177, la Provincia non è chiamata ad adottare atti di tale natura, ma solo a verificare la compatibilità della variante parziale adottata dal consiglio comunale rispetto ai piani provinciali sovraordinati approvati dal consiglio provinciale. Non si tratta, quindi, di un’attività pianificatoria di competenza consiliare, ma di una mera attività di verifica della compatibilità tra piani gerarchicamente ordinati, la quale richiede l’esercizio di poteri di natura prettamente tecnica e non politica”. Tale interpretazione trova conferma nella sentenza del Consiglio di Stato n. 3333 del 2009, della quale la Corte di Appello ha offerto una lettura impropria. In detta sentenza, infatti, viene precisato che la lettera h) dell’art. 42 comma 2 del d.lgs. n. 267 del 2000 (che attribuisce alla competenza consiliare, tra l’altro, i piani territoriali e urbanistici, i programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, le eventuali deroghe ad essi, nonché i pareri da rendere nelle dette materie), non si riferisce “a qualsiasi parere espresso dall’Ente che comunque coinvolga i piani o programmi dallo stesso approvati, ma soltanto ai pareri espressi nell’ambito del procedimento di formazione di quei piani e programmi (o delle relative varianti o deroghe). Restano fuori della previsione, ad esempio, i pareri che l’Ente è chiamato a rendere circa la compatibilità con il proprio piano o programma di attività poste in essere da altri soggetti (è il caso del parere di conformità al P.R.G. di un intervento edilizio, che non si dubita non appartenga alla competenza consiliare)”. Alla stregua di tali condivisibili principi, deve ritenersi che, in base alla richiamata normativa statale, il parere dell’organo consiliare provinciale sia richiesto solo nell’ambito del procedimento di formazione del piano territoriale di competenza della Provincia, ovvero per la modifica di esso, non anche allorché
si tratti, come nel caso in esame, di esprimersi sulla conformità degli strumenti urbanistici comunali alla pianificazione territoriale provinciale. Per le ragioni esposte, si impone la cassazione nella parte de qua della sentenza impugnata, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Torino, la quale dovrà attenersi ai principi di diritto innanzi enunciati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità ‘ .
Sono stati invece rigettati gli ulteriori motivi ed il giudice di legittimità ha avuto modo di affermare che ‘ l’intervento effettuato, avendo comportato un aumento del volume e una modifica della sagoma del fabbricato preesistente, è stato correttamente qualificato dalla Corte territoriale come di nuova costruzione, ai sensi della normativa in vigore all’epoca della sua realizzazione (anni 20042005) ‘ .
In esito al giudizio di rinvio, la Corte d’appello di Torino con sentenza n. 117 del 18 gennaio 2019 accoglieva l’impugnazione di RAGIONE_SOCIALE contro la decisione del Tribunale di Verbania e revocava la condanna all’arretramento del manufatto a metri cinque dal confine. In parziale accoglimento della domanda subordinata di parte COGNOME, condannava tutti i convenuti a regolarizzare le luci realizzate al piano terra del compendio costruito da RAGIONE_SOCIALE ed ad arretrare di almeno un metro i tubi dell’acqua, del gas ed i pluviali, nonché ad evitare stillicidio sul fondo finitimo.
I giudici di secondo grado premettevano che l’applicabilità dello ius superveniens , non essendo la normativa sopravvenuta affetta da vizio di incompetenza, doveva reputarsi pacifica ed era certamente più favorevole alla parte che aveva realizzato la nuova costruzione, secondo una valutazione in concreto. Pertanto, esclusa perché non adeguatamente provata la preesistenza di una costruzione sul fondo COGNOME, la nuova costruzione di RAGIONE_SOCIALE sarebbe stata conforme ai parametri edilizi previsti dalla formulazione dell’art. 21 della N.T.A. del P.G.R.C. del Comune di Omegna. Quanto alla domanda subordinata delle attrici in riassunzione, fermo l’assenso avversario sulla richiesta della regolarizzazione delle luci, non erano state richiamate espressamente le deduzioni istruttorie formulate in primo grado, sicché l’istanza in sede di rinvio doveva considerarsi preclusa. In ogni caso, circa
la presenza dei tubi di acqua, luce e gas, l’eccezione di usucapione della servitù era stata abbandonata ex adverso , di modo che doveva dedursene un riconoscimento implicito circa l’irregolarità denunciata dalle originarie attrici.
NOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di cinque motivi.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE che svolge altresì ricorso incidentale, affidato a due motivi, mentre sono rimasti intimati la s.p.a.
RAGIONE_SOCIALE nonché NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e la società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, comproprietari della costruzione eretta dalla società controricorrente.
Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale.
In prossimità dell’udienza pubblica, entrambe le parti costituite hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con la prima doglianza, proposta ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., le ricorrenti principali assumono la violazione e falsa applicazione degli artt. 9 D.M. n. 1444/1968 e 873 c.c. La sentenza impugnata avrebbe erroneamente interpretato l’art. 21 delle N.T.A. (Norme tecniche di attuazione) del P.R.G. del Comune di Omegna: tale norma, trattando della distanza fra fabbricati con riguardo al confine, prevederebbe la necessità di un accordo scritto fra confinanti per una diversa ripartizione del parametro della distanza di 10 metri fra fabbricati con pareti finestrate, comprendendo così un implicito riferimento alla distanza di tale tipologia di fabbricati in ordine al confine. Secondo il dettato letterale e logico-sistematico, in presenza di un edifico con pareti finestrate, la distanza di 10 metri tra fabbricati avrebbe dovuto essere suddivisa ugualmente fra proprietari confinanti, in ragione di 5 metri per ciascuno, secondo il richiamo all’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, nella parte dell’art. 21 dedicata al parametro ‘ Dc ‘ . La novità dello ius superveniens sarebbe stata dunque costituita dalla possibilità di edificare una nuova costruzione, in assenza di pareti finestrate oppure nell’ipotesi di accordo fra proprietari confinanti.
La correttezza di tale interpretazione sarebbe stata avallata dall’appendice della N.T.A. e dai casi pratici in essa contenuti.
Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha affermato (pag. 9/11) : ‘ La disciplina urbanistica sopravvenuta è infatti certamente più favorevole alla parte che ha realizzato la nuova costruzione; tale valutazione da operarsi in concreto, è fondata sul rilievo che il nuovo art. 21 della N.T.A. non prevede più la distanza di 5 metri dal confine delle nuove costruzioni, ma richiama la normativa codicistica e detta regole in merito alle distanze fra costruzioni, rendendo conseguentemente applicabile il principio di prevenzione; essa consente altresì la costruzione sul confine e quella in aderenza ‘ … ‘ venuto quindi indubbiamente meno l’obbligo di mantenere le nuove costruzioni a distanza di almeno cinque metri dal confine, viene conseguentemente meno la difformità che aveva comportato l’accoglimento della domanda delle COGNOME da parte del Tribunale di Verbania ‘.
La doglianza delle ricorrenti ripropone il motivo di gravame, cui la Corte d’appello aveva risposto nei seguenti termini (pag. 13): ‘.. il nuovo art. 21 delle N.T.A. consente espressamente, con riferimento al parametro ‘DC’ (distanza dal confine) l’e dificazione sul confine, anche in aderenza, senza disciplinare ulteriormente tale facoltà e senza porre ulteriori limitazioni, e quindi senza prevedere, in particolare (come sostenuto dalla parte COGNOME) che colui che costruisce per primo sul confine, cioè il preveniente, non possa costruire sul confine medesimo un muro finestrato, ma solo muri ciechi; nelle nuove disposizioni urbanistiche del Comune di Omegna, cioè, non è ravvisabile alcuna distinzione circa la facoltà di costruire sul confine edifici ciechi oppure finestrati, non potendosi dunque in alcun modo trarre da tale norma (come voluto dalle parti attrici in riassunzione) che solo quelli ciechi potrebbero essere costruiti sul confine, mentre quelli finestrati sarebbero tenuti al rispetto di una distanza dal confine almeno pari alla metà di quella prevista dall’art. 9 D.M. 1444/ 1968 ‘ .
L’interpretazione offerta dalla sentenza impugnata appare plausibile e logica, ove si consideri che, a fronte di un parametro DC che prevedeva una distanza dal confine pari o superiore a 5 metri, il nuovo parametro ha eliminato qualunque
limite di distanza, consentendo l’edificazione sul confine, anche in aderenza ed ammettendo accordi fra confinanti per una diversa ripartizione del parametro inderogabile Dpf (distanze pareti finestrate) . E’ dunque erronea la tesi delle ricorrenti che vorrebbero ricavare dalla nuova norma ‘un implicito riferimento alla distanza di tale tipologia di fabbricati con riguardo al confine’, sicché in mancanza di accordo scritto, la distanza dal confine dovrebbe essere equamente ripartita in misura uguale fra le parti interessate. Il criterio letterale e logico impone di ritenere che la norma regoli le distanze di tutte le nuove costruzioni, non avendo differenziato quelle dotate di finestre da quelle cieche.
Attraverso la seconda censura, proposta ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., le ricorrenti deducono la violazione di legge con riferimento agli artt. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c. nonché con riferimento all’art. 21 paragrafo Dc -del N.T.A. del P.R.G. del Comune di Omegna.
Fin dal primo grado le COGNOME avrebbero allegato e provato la proprietà di un immobile sul proprio fondo, senza alcuna replica avversaria, che anzi l’avrebbe esplicitamente riconosciuto nei propri atti. L’esistenza di un preesistente fabbricato sarebbe dunque stata pacifica inter partes sino alla comparsa in sede di riassunzione, ove per la prima volta controparte avrebbe affermato che il fondo attoreo sarebbe stato un prato inedificato . La Corte d’appello avrebbe dunque errato anche nel ritenere non provato il presupposto della prevenzione temporale del fabbricato esistente sulla proprietà COGNOME e della sua ubicazione a metri 10 dal confine.
Il motivo è inammissibile.
La sentenza della Corte d’appello (pag. 15) , pur dando atto dell’allegazione attorea di un preesistente fabbricato fin dall’atto di citazione, ha aggiunto che l’allegazione stessa ‘ risulta peraltro del tutto generica ed in nessun scritto difensivo detto asserito fabbricato insistente sulla proprietà COGNOME è compiutamente descritto o identificato nelle planimetrie allegate agli atti, né risulta in alcun modo specificato il suo posizionamento rispetto al confine fra i due fondi; conseguentemente, non risulta in alcun modo indicata neppure l’effettiva distanza fra tale preesistente fabbricato INDIRIZZO e la nuova
costruzione; in particolare, non risponde al vero che detti dati possano trarsi dall’allegato B , prodotto nel primo giudizio di gravame di INV.IM. e la conseguente lamentata violazione dell’art. 9 DM 1444/196 dalle parti COGNOME con Nota di produzione documenti in data 21.11.2009, allegato costituito da due fotografie, che, secondo quanto riferito dalle attrici in riassunzione, raffigurerebbero lo stato dei luoghi ed, in particolare, la parete finestrata dell’immobile di proprietà COGNOME , nonché la distanza fra tale proprietà ed il fabbricato della RAGIONE_SOCIALE (pag. 7 atto di riassunzione); dette due fotografie, infatti, raffigurano solo il nuovo edificio RAGIONE_SOCIALE, e precisamente l’una la nuova costruzione, ormai completata, della società convenuta, cioè, come da didascalia, la parete finestrata a confine proprietà COGNOME, l’alt ra lo stesso nuovo immobile in uno stato di avanzamento dei lavori precedente, con il corpo di fabbrica ancora grezzo e privo di copertura. È onere della parte che lamenti la violazione di distanze legali e la realizzazione di un manufatto su un fondo limitrofo a distanza non regolamentare dare prova non solo della intervenuta costruzione ad opera del confinante, ma anche del fatto su cui si fonda la dedotta violazione ‘ .
Ed, a proposito del le distanze dal confine, la Corte d’appello aggiunge (pag. 16): ‘ L’argomento è del tutto nuovo e pertanto inammissibile, poiché sin dal primo grado il richiamo all’art. 873 c.c. è sempre stato operato dalle sig.re COGNOME non quale disciplina in concreto applicabile, ma quale quadro normativo da integrarsi con il regolamento locale, prevedendo in origine un distacco dal confine di cinque metr i’ .
Per un verso, la doglianza non coglie dunque la ratio decidendi della sentenza impugnata (Sez. 6-3, n. 19989 del 10 agosto 2017).
Per altro verso, la decisione ha correttamente applicato il principio di questa Corte, secondo cui, in tema di violazioni delle distanze legali, il proprietario che lamenti la realizzazione di un manufatto su un fondo limitrofo a distanza non regolamentare deve previamente dare prova del fatto della costruzione e di quello della dedotta violazione (Sez. 2, n. 15041 dell’11 giugno 2018 ), mentre, solo in un secondo tempo, spetta al giudice, in virtù del principio iura novit curia , acquisire conoscenza d’ufficio delle prescrizioni dei piani regolatori generali e
degli annessi regolamenti comunali edilizi che disciplinano le distanze nelle costruzioni, anche con riguardo ai confini, essendo integrative del codice civile ed avendo, pertanto, valore di norme giuridiche (Sez. 2, n. 2661 del 5 febbraio 2020).
D’altronde, i fatti addotti da una parte possono considerarsi pacifici, rimanendo così essa esonerata dalla relativa prova, soltanto quando siano stati esplicitamente ammessi dall’altra parte, ovvero questa, pur senza contestarli, abbia impostato la propria difesa su elementi e argomenti incompatibili con il loro disconoscimento (Sez. 2, n. 10864 del 7 maggio 2018).
Nella specie, RAGIONE_SOCIALE ha sostenuto che l’unico edificio limitrofo, peraltro posto a più di dieci metri dal confine, sarebbe stato di proprietà di terzi estranei al giudizio. Pertanto, non può serenamente affermarsi che l’odierna controricorrente abbia esplicitamente ammesso i fatti dedotti ex adverso , né che abbia impostato la difesa su circostanze incompatibili con la contestazione delle posizioni avversarie.
Resta perciò del tutto indimostrata la premessa maggiore del ragionamento delle ricorrenti, ossia la preesistenza, sul fondo attoreo, di un immobile ad esse appartenente, posto a distanza inferiore a metri dieci dal confine.
Va inoltre ricordato che la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al presente giudizio qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (Sez. U., n. 20867 del 30 settembre 2020).
In punto di diritto, occorre aggiungere che il travisamento della prova, per essere censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per
violazione dell’art. 115 c.p.c., postula: a) che l’errore del giudice di merito cada non sulla valutazione della prova (” demonstrandum “), ma sulla ricognizione del contenuto oggettivo della medesima (” demonstratum “), con conseguente, assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre; b) che tale contenuto abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; c) che l’errore sia decisivo, in quanto la motivazione sarebbe stata necessariamente diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi che risultano oggettivamente dal materiale probatorio e che sono inequivocabilmente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito; d) che il giudizio sulla diversità della decisione sia espresso non già in termini di possibilità, ma di assoluta certezza (Sez. 1, n. 9507 del 6 aprile 2023).
Le condizioni che precedono non ricorrono nel caso di specie.
In altri termini, la differente lettura delle risultanze istruttorie proposta dalle ricorrenti s’infrange contro il principio per il quale la doglianza non può tradursi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Sez. U, n. 24148 del 25 ottobre 2013).
È, in conclusione, inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Sez. U, n. 34476 del 27 dicembre 2019; Sez. 1, n. 5987 del 4 marzo 2021).
Con il terzo mezzo, le ricorrenti denunciano la violazione di legge, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., con riferimento all’art. 21 del piano regolatore del Comune di Omegna ed ‘ai criteri di verifica’ ivi individuati, in relazione agli artt. 1362, 1363 e 1369 c.c.
La variante al P.R.G. avrebbe anche apportato un’appendice alle N.T.A. del piano regolatore, contenente una serie di ‘casi’ che avrebbero imposto ai proprietari confinanti il rispetto di una distanza di almeno 5 metri dal confine nell’ipotesi di
realizzazione di una parete finestrata, indipendentemente dal fatto che nel fondo limitrofo esista o no un immobile con pareti finestrate. La sentenza impugnata avrebbe dunque escluso qualunque rilievo all’appendice, laddove l’appendice stessa avrebbe invece fatto parte integrante del nuovo P.R.G., tanto da dover essere considerata nel l’intera formulazione dell’art. 21 e nella valutazione dello scopo pratico perseguito.
Il motivo è infondato.
L’appendice n. 17 alle N.T.A. del P.R.G. di Omegna contiene ‘i criteri di verifica del rispetto di quanto previsto dal D.M. 1444/68 all’art. 9 punto 2) in merito alle distanze fra edifici con pareti finestrate’ ed, in effetti, tutti i casi (12) ivi contemplati riportano l’ ipotesi di un lotto con un edificio contiguo ad un lotto da costruire. I criteri indicati fanno logicamente riferimento al lotto vuoto, ove un eventuale nuovo manufatto sarà tenuto a rispettare le distanze ivi fissate.
Ma è evidente che, una volta reputa ta indimostrata l’insistenza di un fabbricato sul suolo Gilardi, la Corte d’appello non ha tenuto conto dell’appendice, non potendo far valere il principio della prevenzione.
La quarta lagnanza è volta a denunciare la violazione del disposto di cui all’art. 889 c.c. e dell’art. 346 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.
La Corte di merito avrebbe illegittimamente escluso l’ammissione di istanze istruttorie orali e di idonea CTU, ritenendo una preclusione già maturata ed operante in sede di rinvio, benché in fase di appello e poi in fase di riassunzione le suddette istanze fossero state richiamate, mostrando così una chiara intenzione di non abbandonarle.
Il motivo è inammissibile.
E’ pur vero che, a llorquando la causa venga trattenuta in decisione senza che il giudice si sia pronunciato espressamente sulle istanze istruttorie avanzate dalle parti, il solo fatto che la parte non abbia, nel precisare le conclusioni, reiterato le dette istanze istruttorie, non consente al decidente di ritenerle abbandonate, ove la volontà in tal senso non risulti in modo inequivoco (Sez. 1, n. 4487 del 19 febbraio 2021).
In particolare, la volontà inequivoca di non insistere nella richiesta istruttoria va accertata in base ad una valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione tra la richiesta probatoria non esplicitamente riproposta con le conclusioni e la linea difensiva adottata nel processo; della valutazione compiuta il giudice è tenuto a dar conto, sia pure sinteticamente, nella motivazione (Sez. 2, n. 33103 del 10 novembre 2021; Sez. 6-3, n. 10767 del 4 aprile 2022).
Nella specie, la sentenza impugnata ha però sostenuto (pag. 18 ): ‘ Deve quindi affermarsi che le attrici in riassunzione NOME fossero decadute, già nel precedente giudizio di appello, dalle istanze istruttorie relative alla domanda subordinata, non avendo le medesime espressamente riproposto detti capitoli di prova né avendo meglio specificato quali capi di prova esse avrebbero inteso richiamare e la rilevanza da essi spiegata in merito alla domanda subordinata. Tale preclusione opera anche in questa sede di rinvio ed esime la Corte dal valutare le istanze istruttorie riproposte dalle attrici in riassunzione ‘.
L a Corte d’appello ha dunque dato conto della valutazione circa la ritenuta volontà delle COGNOME di abbandonare le istanze istruttorie, formulate nelle memorie di primo grado, genericamente richiamate in appello e riproposte in sede di rinvio con la formula dubitativa ‘previa ammissione, se del caso, dei mezzi istruttori dedotti nel primo grado di giudizio con le memorie in data 13.2.2007 ed in data 20.2.2007’ .
Ad ogni modo, la doglianza si presenta altresì aspecifica, giacché le ricorrenti hanno omesso di indicare in questa sede il numero e il contenuto dei capitoli a suo tempo articolati, in modo da consentire il controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione.
Quanto alla consulenza tecnica d’ufficio, come è noto, si tratta di un mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario e potendo la motivazione dell’eventuale diniego del giudice di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle
argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato (Sez. L, n. 18299 del 4 luglio 2024; Sez. 6-1, n. 326 del 13 gennaio 2020).
5. Il primo rilievo del ricorso incidentale riguarda la violazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697 c. c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., avendo la Corte d’appello ritenuto provata anche l’irregolare collocazione dei tubi di acqua bianca e lurida, dei tubi dell’impianto del gas, dei pluviali, degli sporti di gronda e dei gocciolatoi sulla semplice scorta dell’omessa contrapposizione, da parte di Investimenti immobiliari, di una diversa prospettazione in fatto, in violazione delle norme denunciate. Infatti, considerato che il giudizio era stato introdotto con atto di citazione del 4 luglio 2006, la convenuta non avrebbe avuto alcun onere di contrapporre una diversa prospettazione in fatto alla domanda avversaria. Inoltre, l’operatività del principio di non contestazione sarebbe stata sempre connessa ad un’allegazione specifica e dettagliata dei fatti p osti a fondamento delle rispettive pretese.
In altri termini, la condanna all’arretramento di almeno un metro dal confine di tubi e pluviali ed alla modifica di sporti e gocciolatoi poggerebbe dunque sull’indimostrata violazione delle distanze legali nella collocazione di tali impianti.
Il motivo è infondato.
Va premesso che il principio di non contestazione, pur essendo stato codificato con la modifica dell’art. 115 c.p.c. introdotta dalla l. n. 69 del 2009, è applicabile anche ai giudizi antecedenti alla novella, avendo questa recepito il previgente principio giurisprudenziale in forza del quale la non contestazione determina effetti vincolanti per il giudice, che deve ritenere sussistenti i fatti non contestati, astenendosi da qualsivoglia controllo probatorio in merito agli stessi (Sez. 3, n.5429 del 27 febbraio 2020).
La Corte d’appello ha affermato (pag. 19) che ‘ la proposizione di eccezione di usucapione della servitù contraria, poi abbandonata in quanto non riproposta in sede del presente giudizio di rinvio, comportava l’implicito riconoscimento, da parte dell’eccipiente, dell’irregolarità denunciata, posto che I NVRAGIONE_SOCIALE non contrapponeva alla domanda avversaria ed alla dedotta violazione delle distanze
dei manufatti una diversa prospettazione in fatto (e cioè la rispondenza al dettato codicistico dei manufatti stessi), ma solo una contraria eccezione in diritto (eccezione, fra l’altro, comunque infondata, atteso che non poteva allegarsi l’intervenuta usu capione in relazione a parti di edificio, che era stato totalmente demolito e ricostruito, per dare vita ad un’entità immobiliare del tutto nuova e priva di continuità con quella precedente) ‘.
La valutazione operata dalla sentenza impugnata è dunque pienamente coerente con il principio per il quale il convenuto, a fronte di una allegazione da parte dell’attore chiara e articolata in punto di fatto, ha l’onere ex art. 167 c.p.c. di prendere posizione in modo analitico sulle circostanze di cui intenda contestare la veridicità e, se non lo fa, i fatti dedotti dall’attore debbono ritenersi non contestati, per i fini di cui all’art. 115 c.p.c. (Sez. 6-3, n. 9439 del 23 marzo 2022).
La quinta censura del ricorso principale attiene alla statuizione in punto liquidazione delle spese di lite ed afferma la violazione dell’art. 92 comma 2°, in relazione al disposto di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c.
Con la sentenza impugnata, pur essendo stata respinta la domanda principale, era stata però accolta la domanda subordinata, rimasta assorbita nei precedenti gradi, mentre il ricorso per cassazione avversario sarebbe stato rigettato relativamente a tre motivi su quattro. Non vi sarebbe pertanto stata soccombenza reciproca, sicché non sarebbe stata corretta la compensazione integrale delle spese di lite.
Mediante la seconda doglianza del ricorso incidentale, il controricorrente stigmatizza la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., giacché la sentenza impugnata avrebbe ingiustamente disposto la compensazione integrale delle spese di lite, pur a fronte di una soccombenza completa nel primo giudizio di legittimità e sulla domanda principale di rinvio.
Entrambe le contrapposte doglianze, che da punti di vista opposti criticano la sentenza impugnata per la disposta compensazione integrale di tutte le spese di lite, sono infondate.
In esito al giudizio, l’accoglimento solo parziale delle domande contrapposte determina, sul piano sostanziale, una reciproca soccombenza. Basti altresì considerare che, nel caso in cui, rigettata la domanda principale, venga accolta quella proposta in via subordinata, può configurarsi una soccombenza parziale dell’attore se le due domande siano autonome, in quanto fondate su presupposti di fatto e ragioni di diritto diversi (Sez. 6-3, n. 26043 del 17 novembre 2020): è questa l’ipotesi delle COGNOME che si sono viste respingere la domanda di violazione delle distanze del fabbricato di controparte ed accogliere la domanda di regolarizzazione delle luci nonché di arretramento dei tubi e pluviali avversari.
Ebbene, in tema di spese processuali, il potere del giudice di disporre la compensazione delle stesse per soccombenza reciproca ha quale unico limite quello di non poter porne, in tutto o in parte, il carico in capo alla parte interamente vittoriosa, poiché ciò si tradurrebbe in un’indebita riduzione delle ragioni sostanziali della stessa, ritenute fondate nel merito (Sez. 5, n. 10685 del 17 aprile 2019).
Nel caso di specie, inoltre, il principio è stato applicato correttamente, giacché il giudizio ha dato luogo ad una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti (Sez. U., n. 32061 del 31 ottobre 2022; Sez. 2, n. 13827 del 17 maggio 2024).
In definitiva, sia il ricorso principale sia il ricorso incidentale devono essere rigettati.
La reiezione di entrambi i ricorsi giustifica, in funzione della reciproca soccombenza, l’integrale compensazione delle spese di lite anche del presente giudizio di legittimità.
Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che tanto le ricorrenti quanto RAGIONE_SOCIALE sono tenute a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione civile, rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale.
Compensa integralmente le spese di lite del presente giudizio di legittimità.
Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che tanto le ricorrenti quanto RAGIONE_SOCIALE sono tenute a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002, se dovuto.
Così deciso in Roma il 27 marzo 2025, nella camera di consiglio delle Seconda